La Stampa, 12 dicembre 2020
Intervista a Cecilia Bartoli
Basta la parola: Cecilia Bartoli. È nostra signora delle colorature, la santa del barocco, forse la cantante d’opera più celebre del mondo, di certo quella che ha venduto di più. Idolatrata ovunque ma in Italia, ovviamente, meno che nel resto del mondo.
Cecilia, la prima non Prima della Scala l’ha vista?
«Sì. E mi è piaciuta. Intanto, lo spettacolo di Livermore con tutte quelle proiezioni era molto bello. E poi mi sembra che la Scala abbia lanciato un messaggio di speranza in un momento in cui se ne sente molto l’esigenza. Oggi abbiamo un disperato bisogno di bellezza. Infine, sono sempre ammirata da Plácido Domingo: quell’uomo è incredibile, eterno. Andrebbe studiato dai genetisti delle università».
Le stelle dell’opera c’erano quasi tutte. Di certo, mancava lei.
«No, io c’ero. Non mi avete visto ma c’ero. Ha presente lo spot della Rolex? Beh, la voce che canta lì è la mia. Ho scattato subito uno screenshot: cantavo alla Prima della Scala ma non lo sapevo!»
Ma la Scala l’ha invitata?
«No».
Se l’avesse fatto, sarebbe andata?
«Credo di sì. Anche se ci sarebbe stato il solito problema del repertorio. Io Verdi e Puccini non li canto e in occasioni come questa, anche per esigenze televisive, ci vuole sempre il repertorione più conosciuto, come se il programma fosse deciso dalla Rai».
A proposito di repertorio: esce il suo nuovo album Decca, una compilation delle sue incisioni barocche: «Queen of Baroque», appunto. Si sente così regina?
«Questo dovete dirlo voi. Di certo, ho dato una mano alla riscoperta di un repertorio dimenticato e bellissimo. Sulla copertina del disco indosso una parrucca bianca, sono una veterana e posso dirlo: il mio contributo c’è stato. I responsabili della Naïve, la casa discografica che nel ’28 completerà l’integrale di tutto Vivaldi, mi hanno detto che finora hanno un venduto un milione di copie, tantissimo, ma che mai sarebbe successo senza il mio album vivaldiano per la Decca del ’99 che, nella sorpresa generale, anche mia, fu un gran successo commerciale».
Perché questa musica oggi ci seduce tanto?
«Credo per il senso di libertà che dà. C’è molto spazio per la creatività dell’interprete. Le partiture sono sobrie, senza indicazioni per l’esecutore o segni d’espressione. Chi le interpreta è invitato, direi obbligato, a improvvisare. Esattamente come succede nel jazz».
Non crede che dell’opera barocca ci affascini anche la sua allegra confusione sessuale, la fluidità dei generi, il gioco del travestimento?
«Sì, anche. È un dato di fatto che di tutta la musica "colta" il barocco sia quella che i giovani ascoltano di più. Evidentemente in quel mondo apparentemente così lontano ritrovano il loro».
Dal ’23 sarà direttrice dell’Opéra di Montecarlo. Che progetti ha?
«Tantissimi. A cominciare da un’accademia per giovani cantanti e da un programma di opere per bambini».
Si autoscritturerà come cantante?
«Finora ho sempre cantato e continuerò a farlo. Infatti in febbraio, Covid permettendo, sarò Adèle nel Comte Ory di Rossini».
Ma non è un debutto. Cosa sta preparando di nuovo?
«Sto pensando a qualche titolo di Gluck, ai Mozart "en travesti" che non ho ancora cantato. E al Romeo dei Capuleti e Montecchi di Bellini».
La Bartoli-Romeo è una notizia. Ma in questa vita di successi cosa le manca?
«In questo momento, soprattutto la voce e il teatro. Mai nella mia vita mi sarei immaginata di dover restare in silenzio per tanto tempo».
Ci sarà pure uno sfizio che vuole togliersi.
«Mi piacerebbe cantare all’aperto. E so anche dove: nel teatro greco di Epidauro».
C’è un illustre precedente, come sa.
«Certo, la Norma della Callas. Mi affascina la bellezza di quel posto e la sua acustica: sulla scena, senti un foglio di carta che cade in cima alle gradinate».
Ma la Bartoli «non si sente», come dicono in Italia. Curioso, per una cantante in carriera da 35 anni.
«Tutto nasce dalla scelta del repertorio. Chi si aspettava di sentirmi cantare Santuzza o Eboli è rimasto deluso. Mi dispiace per lui. Ma io mi sono creata un repertorio su misura per me. Così ho salvato le mie corde vocali e dopo 35 anni sono ancora qui».
In Italia quando tornerà?
«Ci sono dei progetti con Pereira a Firenze, anche se il concerto previsto ma non annunciato con Levine non si potrà fare per via del Covid. Però a me piacerebbe anche tornare alla Scala. Con Meyer ho un ottimo rapporto, mi dispiace che sia arrivato a Milano proprio nel momento peggiore».
E al prossimo Festival di Pentecoste di Salisburgo di cui è direttrice artistica che farà?
«Il programma è dedicato a Roma. Canterò nella nuova produzione di Carsen del Trionfo del Tempo e del Disinganno di Händel e in una Clemenza di Tito di Mozart in concerto, entrambe dirette da Gianluca Capuano. Il Maggio sarà ospite con una Tosca diretta da Zubin Mehta dove canterò il Pastorello, che fu il mio debutto a dieci anni, all’Opera di Roma, dove i miei genitori erano coristi».
Fra vent’anni come si vede?
«Ancora e sempre nella musica».
Anche a cantare?
«No, non sono Domingo!».