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 2020  dicembre 12 Sabato calendario

L’onda dei sottopagati che spaventa l’Italia

Giovani, migranti, precari sfiancati da anni di rinnovi intermittenti. E adesso l’ex classe media aggredita dal Covid, la tragedia che rischia di dare la mazzata finale, con gli stipendi che precipitano, un blocco dei licenziamenti destinato a infrangersi all’inizio di marzo, gli assegni sbranati dalla cassa integrazione, arrivata a livelli mai visti eppure insufficiente per mettere tutti al riparo. Nell’Italia che in silenzio vede sfumare un quarto dei contratti a termine, «i più fragili e svantaggiati», ricordava ieri l’Istat, alzando ancora l’asticella della disoccupazione – 2, 5 milioni a casa, seicentomila in più rispetto ad un anno fa – c’è un’emergenza che finora è rimasta quasi nascosta: quella dei "working poor", i nuovi poveri con diploma, magari laurea, e un posto di lavoro. «Uno scandalo» denuncia Esher Lynch, vicesegretario generale della European Trade Union Confederation (Eutc), la confederazione europea dei sindacati, che ha fotografato dieci anni di diseguaglianze. Partendo dai dati dell’Eurostat, e da una constatazione tanto semplice quanto dolorosa: tutto quello che abbiamo imparato – studia, cerca un buon impiego, trovalo e pensa a crescere – non basta più. In Europa, spiega l’Etuc, tra il 2010 e il 2019 il numero di lavoratori a rischio povertà è aumentato del 12 per cento, con picchi in Ungheria (+58%), Gran Bretagna (+51%), Estonia (+43%) e Italia (+22%). Nel nostro Paese fa fatica ad arrivare alla fine del mese il 12,2 per cento di chi ha un contratto. «La situazione è peggiore rispetto al culmine della crisi finanziaria, nonostante l’economia abbia ripreso a svilupparsi» dice Lynch, che chiede un’azione coordinata «a livello europeo». Auspica che le discussioni sul salario minimo vadano avanti, che quanto finora è sulla carta si trasformi in realtà. Ma potrebbe non bastare, avverte Andrea Garnero, economista della direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’Ocse. «Uno dei grandi problemi – racconta – è legato al part-time, spesso involontario. Un fenomeno che in Italia è esploso». Per Garnero ormai «avere un lavoro non è più sufficiente per garantirsi un reddito adeguato. E l’emergenza virus è destinata a peggiorare la situazione - ragiona -. Quando l’economia è in difficoltà la prima reazione è tagliare ore di lavoro e contratti a termine». Pensiamo, dice, ai collaboratori domestici, una delle voci su cui le famiglie potrebbero risparmiare. C’è un altro fattore che preoccupa gli economisti. Nei mesi dei lockdown, nel nostro Paese, le buste paga sono scese più che altrove. «I salari ristagnano da vent’anni ma è in questa fase che il reddito disponibile si è ristretto maggiormente - spiega -. Uno dei problemi è la cassa integrazione. Paga male, tra 800 e 1200. Se in un nucleo famigliare lavora una persona sola, la situazione può degenerare in fretta. Inoltre, il welfare protegge bene chi ha contratti standard e poco gli autonomi».
Sotto accusa c’è anche un sistema sempre più legato al digitale e alle logiche dei suoi colossi. «L’automazione non ha spazzato via il lavoro, ma sta scomparendo l’occupazione di qualità e i salari scendono. È una pressione al ribasso» dice Antonio Aloisi, docente del diritto del lavoro, che insieme a Valerio De Stefano ha appena pubblicato con Laterza il saggio "Il tuo capo è un algoritmo". L’avanzata tech rischia di creare un effetto paradossale: si salva la manodopera e non si investe più sulla ricerca e lo sviluppo. «È una bolla preoccupante: troppe persone impiegano tempo ed energie ma non ottengono abbastanza». All’orizzonte c’è un rischio: i nuovi robot, quelli che ci spaventavano, oggi siamo noi.