In effetti la “guida” che ha scritto “Vagabondare a Berlino” è molto singolare.
«Non è la prima che scrivo. Nel 1986 avevo pubblicato una guida sui generis di Mosca e Leningrado, quando ancora erano socialiste e sovietiche. Poi ho scritto, senza mai darla alle stampe, una guida di San Francisco, oggi radicalmente cambiata rispetto a quella che avevo conosciuto e apprezzato. Infine sono arrivate queste passeggiate berlinesi».
Cos’è per lei raccontare una città?
«In primo luogo viverla immergendomi il più possibile nella sua quotidianità. Tentare di far capire che una città non è costituita esclusivamente dai suoi musei o dalle rinomate attrazioni. Diffido dei tour organizzati e se posso permettermi un consiglio dico: ci si abbandoni alla lentezza e si impari a leggere il testo di una città».
Come fosse un libro?
«Un libro particolarissimo, scritto dalle insegne, dai graffiti, dagli scarabocchi sui muri, dalle pubblicità, dai cartelli indicatori, dai divieti».
Sembra la lezione di Walter Benjamin.
«Nessuno meglio di lui ha saputo identificare e approfondire il rapporto tra il pedone urbano e lo spazio metropolitano, l’attrazione costituita da uno sconosciuto angolo di strada, il piacere di perdersi e di procedere senza un punto di arrivo, privilegiando il percorso rispetto al raggiungimento della meta».
Esiste ancora il “flâneur” come l’aveva teorizzato Benjamin?
«Non in quell’accezione che aveva come modello Baudelaire. Però qualcosa, sia pure in una forma diversa, sopravvive. Oggi i veri pedoni urbani che si muovono e osservano la metropoli e la sua frenesia con occhi distaccati e straniati possono essere i clochard che, ignorati quasi con imbarazzo dagli occhi dei passanti, scrutano e vedono senza averne l’aria. Anni fa progettai di organizzare con gli studenti delle escursioni notturne a Milano, guidate da barboni, prostitute, addetti alla nettezza urbana. Persone che vivono la notte da “emarginati”, un’avanguardia cittadina non convenzionale. Ma furono molte le controindicazioni, le obiezioni accademiche e non se ne fece niente. Peccato, aggiungo».
Che rapporto ha avuto con l’università?
«Ottimo con gli studenti. Pessimo con lo spirito accademico».
Ha insegnato Cultura russa e Cultura visiva. Cosa vuol
dire?
«Cultura visuale significa attenzione a ogni forma di rappresentazione iconografica, anche a tutto ciò che non è arte. Nei miei corsi universitari ho tentato di indagare come funziona un’immagine: la sua genesi, la sua portata commerciale e politica, oltre alla sua natura estetica.
L’immagine, in ultima analisi, esprime una forma di potere. Chi ne ha accesso, con quali dispositivi mentali e visivi si predispone alla visione? Questi miei “studi culturali”, approfonditi soprattutto durante i soggiorni di studio negli Stati Uniti, non incontrarono i favori della slavistica italiana».
Come è nato l’interesse per la cultura russa?
«La porta di ingresso fu la letteratura. Lessi da giovane Dostoevskij e Tolstoj. Ma la vera folgorazione la ebbi nell’estate del 1967 con Il maestro e Margherita di Bulgakov. Da lì si sviluppò, forse, la mia predilezione per il Novecento russo rispetto alla grande stagione ottocentesca del suo romanzo. Resto un grande entusiasta di Gogol’e considero Cechov il più grande interprete dello spirito e della storia russa. Entrambi sono, a mio modo di vedere, indispensabili per chi voglia provare a comprendere la complessità sfaccettata dell’animo di quel popolo e della sua cultura. Senza di loro non ha senso leggere Bulgakov, Pasternak e le altre figure del XX secolo. È nato così il mio amore per la cultura russa».
Al punto da farne la sua professione?
«Questo sentimento mi portò a conoscere una docente che sarebbe stata fondamentale per il resto della mia vita e non soltanto accademica: Nina Kaucisvili. Nata a Berlino da padre georgiano e madre russa, risiedeva a Milano. Giunse in Italia con la famiglia quando in Germania il nazismo aveva reso insostenibile l’esistenza a chi non accettava di schierarsi a fianco della dittatura. Le sue lezioni di prosa e poesia russa, arricchite con i testi teorici di Lotman, Propp, e i formalisti, furono per me un dono».
Immagino anche ripetuti soggiorni in Urss.
«Secondo le consuete trafile: studente, borsa di studio, periodi trascorsi nelle varie città. Il primo soggiorno fu nel 1974 a Leningrado. Sulla scalinata della Borsa, costruita da Giacomo Quarenghi, un giovane marinaio abbordò un gruppetto di studenti, nel quale c’ero anch’io. Quando seppe che eravamo italiani ci pregò di trasmettere ai nostri marinai italiani il saluto di amicizia e di pace di quelli sovietici. Lì per lì restai infastidito da quella che mi parve solo una pessima retorica. Ma col tempo capii che c’era altro».
Cosa esattamente?
«L’orgoglio della gente comune di appartenere al proprio paese. Quello slancio imparai a distinguerlo dai roboanti e irritanti discorsi della becera nomenklatura politica».
Analizzando settant’anni di comunismo sovietico gli storici hanno visto soprattutto il lato plumbeo e feroce della dittatura, soprattutto in epoca staliniana. Nel suo libro, “C’era una volta l’Urss”, lei ricostruisce tutto il kitsch patriottico che accompagnò quella lunga esperienza. Ha voluto attenuarne il dramma?
«Al contrario, una società non sopravvive a lungo se basa la propria sopravvivenza solo sul controllo poliziesco. È il principio del “parco del divertimento” o “parco a tema” che c’è dietro la formazione del consenso. La tendenza a trasformare la realtà, anche quella più grigia, in spettacolo ha riguardato anche i regimi dittatoriali.
Strategie, talvolta sofisticate e raffinate, hanno reso appetibili e emotivamente coinvolgenti persino il terrore staliniano. Il modello del “parco a tema”, dove il brutto, il male, il trauma non esistono si rivelò vincente in quegli anni. Milan Kundera lo definì: il kitsch come la mancanza della merda».
Lei ha definito quel mondo “Stalinland”.
«Mi pareva un’espressione significativa per sottolineare come anche nella Russia delle purghe e del terrore si fosse messa in moto un poderosa macchina dello spettacolo, una specie di Disneyland, dove un intero popolo poteva vivere in una specie di narcosi collettiva.
Gli fu fatto credere di abitare un universo perfetto, fatto di successi, gesta eroiche e trionfi collettivi».
Con quali strumenti si ottenne tutto questo?
«Con la propaganda politica, l’esaltazione del leader e il cinema. Grazie a una produzione rosa, l’equivalente dei nostri “telefoni bianchi”, il cinema si rivelò fondamentale nella costruzione degli stereotipi del sogno collettivo».
Mentre i suoi sogni individuali?
«Ho cercato di realizzarli e credo almeno in parte di esserci riuscito. Persino la cucina, che è sempre stata una mia passione, ha trovato libero sfogo in un blog che ho recentemente creato».
Come le nasce la passione culinaria?
«Grazie a mia nonna. Da lei ho appreso il gusto e i primi rudimenti dell’arte culinaria».
Dove è nato?
«A Nizza Monferrato, nella provincia astigiana. Mio padre commerciava in olio, mia madre era insegnante di matematica. Ho avuto un’infanzia iperprotetta dalla famiglia e questo, insieme alla mia indole solitaria, mi ha impedito di condividere appieno complicità e divertimenti tipici dell’adolescenza. Mi sono sentito davvero libero solo nel periodo universitario, a Torino. Vi restavo anche nei fine settimana. E là scoprii il teatro, il cinema, le uscite in compagnia, il sesso, la convivialità.
Divenne la città natale in cui non ero nato».
Si lascia facilmente adottare dai luoghi?
«Mi lascio sedurre dalle città che sanno accogliere e non mi fanno sentire fuori posto o estraneo. È come se ogni volta rinascessi in un luogo diverso. È accaduto per San Pietroburgo, i cui bassifondi ho voluto raccontare, San Francisco e infine Berlino che David Bowie descrisse come la città culturalmente più stravagante che ci sia».
Cosa la distingue per esempio da Monaco o Francoforte?
«Non conosco a sufficienza le grandi città tedesche per poter azzardare una risposta sicura. Negli anni della mia frequentazione berlinese ho imparato che Berlino si compiace della propria alterità, del suo modo di essere tollerante. La sua storia ha molti tratti trasgressivi e originali. Un imprinting che fa storcere il naso al resto della Germania che guarda alla capitale come a una specie di “Sodoma e Gomorra”».
La città del peccato come venne descritta ne “L’Angelo azzurro”. Ma anche l’intensificazione della
vita nervosa, come la descrisse Simmel.
«Ma anche la città dei fasti architettonici di Albert Speer, dei deliri, della guerra, delle macerie e poi della spartizione».
Che cosa resta oggi della Berlino divisa?
«C’è un canone della memoria, filologicamente organizzato a fini didascalici, pensato per istruire e commemorare. I tedeschi hanno un complesso rapporto con il proprio passato, segnato soprattutto da un pesante senso di colpa per i crimini della Shoah. Berlino raccoglie in sé una quantità non comune di testimonianze di fasi alterne della storia, concentrate nel ’900: dal fascismo hitleriano al comunismo della Ddr; dai deliri della Repubblica di Weimar alla costruzione e poi all’abbattimento del Muro. Però il cosiddetto “Muro nella testa” non è ancora del tutto crollato».
Dove sopravvive?
«Soprattutto in una parte della popolazione dell’Est che ritiene di essere stata annessa alla Germania Federale, non ad essa riunita. E questo può creare molti problemi alla stabilità politica. Vedremo cosa accadrà alla fine di questo incubo innescato dal Covid».
Come sta trascorrendo questo periodo?
«Durante il primo lockdown ho letto e scritto. Ma ho anche impiegato il tempo ordinando e scannerizzando interi cassetti di fotografie, tessere, programmi teatrali, menu di ristoranti, volantini pubblicitari raccolti durante i miei viaggi: sono diventati delle microstorie per il blog».
Gli oggetti rivestono un’importanza particolare per i suoi libri, perché?
«Penso che le cose e il mondo materiale in genere, raccontino molto degli aspetti culturali che a me stanno maggiormente a cuore. Si ritiene che la vita quotidiana e le situazioni apparentemente o effettivamente banali non abbiano nulla di interessante. Al contrario credo che l’oggetto ordinario, non l’objetd’art ma il semplice manufatto seriale, prima che sia eventualmente consegnato alla storia e diventi a sua volta un pezzo da museo, abbia molto da raccontare».
È buffo?
«Cosa?».
Oggetti ordinari in un momento straordinario. Cosa le provoca?
«Mentalmente ho affrontato con maggiore serenità la prima clausura. La seconda, anche se meno totale, mi sta creando insofferenze diverse, pur restando consapevole di essere un privilegiato. C’è un pensiero che ricorre e mi tormenta: l’essermi trovato per la prima volta in vita mia a non potermi spostare, a non essere libero di viaggiare. Mi tornano alla mente ben altre forme di limitazione della libertà personale di amici, colleghi o conoscenti in paesi sotto la dittatura. E si fa strada un’immagine: la tristezza e il nervosismo di un amico di Berlino Est che la sera mi accompagnava in auto al varco di Friedrichstrasse, perché io potessi riguadagnare Berlino Ovest entro la fatidica mezzanotte».