Robinson, 12 dicembre 2020
Il centesimo e ultimo volume della Treccani
Il Dizionario Biografico degli Italiani, monumentale e tormentata autobiografia nazionale, dopo sessant’anni ha raggiunto il suo traguardo: la Treccani sta per licenziare il suo centesimo volume che si chiude con Giuseppe Zurlo, ultimo degli italiani illustri. Dalla voce Aaron, uscita nel 1960, è cambiato quasi tutto, la sensibilità storica, il rapporto con il passato e con la contemporaneità, perfino le mappe geografiche e mentali.
Ripercorrere la storia di questa impresa editoriale, pensata fin dagli anni del fascismo per celebrare il genio italico, significa attraversare una vicenda civile e culturale che stenta a trovar pace. E se da un lato gli scossoni del cambiamento sono solo benèfici perché dall’idea nazionalistica di stirpe e di sangue si è passati a una nozione di cittadinanza più aperta e cosmopolita, dall’altro la stessa avventura del Dizionario Biografico, segnata da interruzioni e incerta perfino nella sua conclusione, è lo specchio della difficoltà permanente nel fare i conti con la nostra coscienza di italiani. E di italiane.
Il Dbi rischia di morire ancora prima di nascere nella sua integrità. A spiegarci il motivo di questo paradosso è il direttore Raffaele Romanelli, storico dell’Italia liberale che in dieci anni ha pubblicato il 25 per cento dell’opera, con un ritmo di produzione accelerato. «Sono orgoglioso di questa tappa decisiva che deve essere festeggiata. Ma chiuderla qui significherebbe uccidere il Biografico. Perché il Dizionario ha bisogno di un aggiornamento costante, che si può fare prima sull’online. Senza contare che gli oltre 40 mila profili biografici già digitalizzati sono pronti a sperimentare ogni sorta di collegamenti e incroci. Al momento però il consiglio di amministrazione della Treccani non ha indicato le linee di possibili sviluppi».
Senza l’aggiornamento, l’opera è condannata a testimoniare il passato. Una delle condizioni per godere dell’ammissione al Biografico è quella di essersi resi defunti, per dirla con il garbo ironico di Gadda. Ne discende che un morto illustre di domani è destinato a stare fuori dalla nostra autobiografia nazionale. «Ho qui una lista pronta di italiani scomparsi quest’anno: Alberto Arbasino, Franca Valeri, Rossana Rossanda… Tutti destinati all’esclusione?», si domanda Romanelli. Arbasino ci avrebbe scritto sopra un nuovo capitolo di Fratelli d’Italia.
E la Valeri un monologo teatrale. Ma la questione è seria. E va risolta. Perché è in gioco il nostro stesso modo di concepire la collettività: nell’anno della pestilenza muore anche la possibilità di continuare a pensarci come popolo in evoluzione? Con il 2020 si smette di essere italiani destinati alla posterità?
Su chi siano i “celebri” e gli “illustri” il dibattito resta aperto. Se in origine ha prevalso il criterio nazionalpatriottico del fascismo (“il libro d’oro della stirpe italiana”, lo definì Giovanni Gentile), negli ultimi anni la nozione di rilevanza s’è allargata al mondo dell’impresa, della tecnica, anche dei media e del costume, includendo icone prima impensabili come l’artista maledetto Mario Mieli, la pornostar Moana Pozzi, gli eroi del calcio Enzo Bearzot e Dino Viola, uomini simbolo sul genere di Piergiorgio Welby. Qualche volta nella redazione del Dbi s’è acceso il dibattito sui famigerati capimafia contemporanei: si devono biografare anche i protagonisti del male? «Non esiste un canone predefinito», dice Romanelli. «E per dare un’idea del criterio, mi sarebbe piaciuto inserire Pinocchio e Don Abbondio, inesistenti ma fondamentali».
In un paese che ancora cede alla xenofobia, un segnale civile importante è aver aperto la nozione di italianità a personalità nate altrove ed assai influenti nella penisola, come il biochimico svizzero Daniel Bovet o il mezzosoprano Cathy Berberian, americana di origine armena. Ma il nodo irrisolto riguarda la questione femminile: nonostante il direttore dichiari di aver seguito un criterio prossimo alle “quote rose”, allargandone il profilo dall’aristocrazia e dal palcoscenico ( in origine molto presenti) al mondo degli studi, delle professioni, della politica e delle arti, la percentuale di donne presenti nel Biografico è tuttora mortificante. Nel 2016 Angiolina Arru ha calcolato il 4 per cento di tutte le voci (era il 2,7 sei anni prima), mentre nell’analogo dizionario inglese già nel 2000 i lemmi femminili arrivavano all’ 8 per cento e in quello tedesco nel 2013 al 5. Al di là delle differenze tra paesi, e delle piccole variazioni in crescita, restano cifre vergognose. Le ragioni sono ben note: non è facile trarre dall’anonimato le donne condannate all’invisibilità dalla storia. Ma è questo un motivo in più per tenere aggiornata l’opera, lumeggiando con nuovi criteri figure del passato. È la sola condizione perché il Dbi possa diventare il Dizionario Biografico di italiane e italiani. L’unica autobiografia ammissibile nel XXI secolo.