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 2020  dicembre 12 Sabato calendario

Intervista a Gianfelice Rocca

«Cominciamo dal prato», dice Gianfelice Rocca, 72anni, presidente del gruppo industriale Techint, 80 mila dipendenti nel mondo, e dell’istituto clinico Humanitas di Rozzano, 3.200 professionisti sanitari che curano ogni giorno quattromila persone. Il prato nella sua testa significa creatività sociale e costruzione, il prato sono i giovani, «senza dubbio migliori di come eravamo noi alla loro età», sconvolti dalla tempesta del Covid che si è piantato come un coltello nella nostra civiltà.
Cominciamo proprio dalla ricostruzione. Come giudica il Recovery Plan del governo?
«Temo curi il sintomo, non la malattia. Ci vogliono investimenti capaci di trasformare il Paese e non semplicemente una crescita di spesa corrente. Non possiamo lasciare alle next generation un’Italia indebitata, inefficiente, difensiva, non aperta all’Europa. Cambiare le regole vuol dire finanziare riforme necessarie troppo a lungo rimandate».
Facciamo un passo indietro. Come ha vissuto sul piano emotivo questi lunghi mesi di epidemia?
«Bergamo è stato il nostro Occidente. Lì il virus è stato come l’esplosione di una bomba atomica. Abbiamo cercato di mettere i nostri professionisti nelle condizioni di curare al meglio i pazienti che arrivavano negli ospedali, con il massimo della sicurezza possibile.
Abbiamo aperto un hub in Cina per gli acquisti di mascherine, guanti e tute protettive, in modo da avere sempre una riserva che coprisse i 90 giorni successivi. Per fronteggiare la seconda ondata, che i nostri scienziati avevano previsto, abbiamo lavorato con medici e ingegneri per mettere a punto due strutture dedicate alla cura delle malattie infettive. L’Emergency Hospital 19 di Rozzano, costruito in 11 settimane, e l’Emergency Center di Bergamo, che inauguriamo oggi, consentono di separare nettamente i percorsi dei pazienti Covid, in modo da garantire il più possibile anche la continuità di cura per altre malattie, come il cancro e le patologie cardiovascolari. Un investimento di 30 milioni di euro».
È stato nei suoi ospedali. Che cosa l’ha colpita di più?
«Ho visitato le terapie intensive a marzo. Ho avvertito la sofferenza delle tante famiglie che avevano un loro caro in ospedale, magari in condizioni gravi, e non potevano neppure offrire il conforto di una carezza, andarlo a trovare. Ho visto alcuni dei nostri medici diventare pazienti. Il distanziamento sociale ha innescato una crisi spirituale».
Che cosa non potrà dimenticare?
«Lo sguardo degli anziani che non riuscivano a respirare. Il prete che a Bergamo mi ha detto di aver assistito a moltissime conversioni di gente laica. Il coraggio di tanti manager pubblici, veri eroi, usciti dalla propria comfort zone per occuparsi dei bisogni dei cittadini. I racconti di alcuni nostri medici e infermieri, che per non rischiare di contagiarle hanno scelto di separarsi dalle famiglie, lasciando figli di pochi mesi, che hanno poi ritrovato cresciuti».
A quale tragedia del passato si può paragonare questa epidemia?
«Caporetto, 12 novembre 1917. Penso al milione di profughi civili e alla disfatta. Mio nonno Agostino, fondatore di Techint, che era stato sul fronte come capitano degli alpini e che si è laureato in trincea, ricordava sempre questo drammatico episodio quando si trovava a scrivere quella data. Su qualsiasi lettera, di lavoro o familiare, vergava 12 novembre, Caporetto».
Si poteva fare di più per scongiurare questa immane folla di vittime?
«Tutti noi potevamo fare di più e meglio? Non lo sappiamo, ma c’è stata un reazione collettiva straordinaria, anche del terzo settore. Un vanto per la Lombardia duramente colpita».
Ci perdoneremo mai per il modo in cui li abbiamo lasciati morire: soli, consapevoli della fine e senza funerale?
«È stata una tragedia immensa. Ci sono stati infermieri che oltre alla biancheria inserivano di nascosto nei sacchetti da far arrivare ai ricoverati i bigliettini di una moglie, di una figlia, di una nipote».
Il virus ha evidenziato in maniera drammatica i limiti della sanità pubblica.
«Non tanto il virus: la malattia veniva da prima. Il Covid è stato il pit-stop del sistema sanitario nazionale. La sanità deve affrontare sfide importanti e non più rimandabili: sotto-finanziamento, territorio e anziani, cronicità, accesso alle cure, qualità e mobilità, medicina personalizzata, frontiere digitali».
Voi privati avete pensato esclusivamente al profitto.
«Non cada nelle trappole ideologiche e linguistiche che oppongono in maniera manichea pubblico e privato, decentramento regionale e accentramento nazionale, Lombardia contro Veneto. Facciamo tutti parte di un unico sistema al servizio dei bisogni dei cittadini. E lo abbiamo dimostrato più che mai in questa pandemia, soprattutto in Lombardia. Senza il nostro contributo sarebbe stata una tragedia ancora più grave».
A questo proposito lei si richiamò alla necessità di una pastorale degli imprenditori. Non servirebbe oggi più che mai e cosa dovrebbe contenere sul piano pratico?
«Oggi l’imprenditore si trova in una situazione di grande solitudine, non se ne percepisce il valore sociale, l’energia positiva che porta a beneficio di tutta la comunità. Vedo i limiti di uno statalismo di ritorno che soffoca lo spirito d’iniziativa che a volte rende probabile l’improbabile. L’ultimo esempio è stato proprio il piano per la ricostruzione, in cui gli imprenditori non sono stati coinvolti né chiamati a fare proposte, come se fossero portatori di interessi indicibili».
A quali attori spetta principalmente la ricostruzione?
«A tutti. Per questo serve rafforzare la collaborazione. Un patto per le scienze della vita che parta dalla chiara definizione degli obiettivi e delle regole, condividendo la necessità di incentivare la qualità e il merito».
Possiamo permetterci di rinunciare ai fondi del Mes?
«Anche con le limitate e doverose condizionalità, il Mes è un passaggio fondamentale e positivo. Salute e economia sono più che mai interdipendenti».
Qual è il suo giudizio sul comportamento del governo nell’emergenza e sulle misure prese?
«L’Italia ha fatto scelte coraggiose e senza precedenti: pur con qualche limite su cui si potrà riflettere, è stata la prima democrazia a decidere un lockdown generale. Non era facile».
Non pensa che il Covid abbia sottolineato i limiti della struttura democratica del Paese, con il dissidio continuo fra statalismo e autonomie regionali?
«Affrontare questi temi in modo emergenziale è un errore. Il vero problema dell’Italia è l’autonomia sfiduciata. Dobbiamo rivedere il sistema con maggior rispetto verso la periferia: partire dalle nostre comunità e dalla ricchezza della varietà italiana».
Ci sono stati momenti in cui ha pensato che i principi democratici fossero sospesi?
«No. La paura può essere una passione e diventare incontrollabile oppure scatenarsi contro l’onnipotenza del Leviatano. È giusto che qualcuno governi la crisi in modo responsabile. In questo senso ho apprezzato le parole di Mattarella».
Il virus ha inferto un colpo anche alla scienza. L’ha riportata a un confine. Le ha tolto l’alone salvifico della presunta invincibilità.
«Non sono d’accordo. La pandemia ci ha fatto vivere l’esperienza di un mondo della scienza e della medicina dove si abbattono le frontiere di una comunità mai chiusa in se stessa. L’obiettivo di sconfiggere un nemico comune ha aperto le porte a scambi di conoscenze e opinioni tra colleghi di tutto il mondo, e questo ha portato a risultati impensabili in tempi brevissimi, il vaccino per esempio. Il rovescio della medaglia è stato il rapporto con la politica, che deve mantenere il suo ruolo di decisore e non può affidarsi alla scienza e agli scienziati come a una sorta di pilota automatico. Aristotele insegna che la filosofia teoretica e quella pratica, in questo caso il conoscere della scienza e l’agire della politica, hanno finalità e razionalità diverse».
Come dovranno cambiare gli ospedali?
«Rimarranno grandi policlinici come "cattedrali del pensiero", ma l’articolazione dei servizi sul territorio e dentro gli ospedali muterà profondamente. La grande disponibilità di un numero sempre crescente di dati e le strategie innovative di cura comporteranno immense sfide organizzative e spaziali. L’innovazione organizzativa è importante come quella tecnologica perché parla il linguaggio della sostenibilità. La digitalizzazione deve essere al servizio del paziente e non rappresentare un ulteriore ostacolo. Il dinamismo delle soluzioni digitali applicate alla salute è qualcosa di cui gli ospedali oggi non possono più fare a meno, sia al loro interno sia verso l’esterno: prenotazioni, invio di referti, eccetera. Innovazione e digitalizzazione possono e devono sia favorire il rapporto medico-paziente per liberare tempo di cura, sia aiutare l’ospedale ad uscire dalle proprie mura e essere più connesso con i malati e il territorio».
Come saranno i medici del futuro?
«L’orizzonte della medicina di precisione, verso la quale andremo sempre più, è la commistione di saperi: medici con competenze ingegneristiche, ricercatori con solide basi informatiche. Nascerà la figura dei medTec, professionisti sanitari in grado di governare le nuove tecnologie, legando insieme il tema tipicamente medico della qualità delle cure e quello più ingegneristico della cultura del dato. Così da essere capaci di utilizzare l’intelligenza artificiale per dedurre informazioni da migliaia di dati in tempi molto rapidi».
Che Italia esce da questa tragedia?
«Dipende da noi. Sarà un contributo a un modello europeo di innovazione e welfare e civile convivenza? Andrà decadendo in una lunga e lenta asfissia che viene da lontano e perderà le energie dei giovani migliori? Non so rispondere».
Noi tutti saremo più fragili, più soli o forse più altruisti e con un ritrovato spirito di comunità?
«Riprenderei le parole dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini, che ci ha detto: "Tocca a noi, tutti insieme"; e quelle del cardinale Carlo Maria Martini alla fine del millennio: lasciateci sognare».
Lei ha fede?
«Sono un laico attento a Dio».
È anche un alpinista e si muove spesso in bicicletta. Il cielo e la terra, o il prato, se preferisce. Soltanto passioni?
«Le passioni sono sempre difficili da spiegare. La bicicletta è sinonimo di libertà. La montagna un grandissimo amore da sempre, sicuramente il rimpianto di un’altra vita che sarebbe stata possibile, quella non praticata dell’esploratore».