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 2020  dicembre 12 Sabato calendario

Parla la prima moglie di Paolo Rossi

«Eravamo così giovani...».
Quanti anni avevate?
«Quando l’ho conosciuto era il 1976, avevo 17 anni. Paolo era più grande di me di tre anni ed era appena arrivato a Vicenza. Era bravo ma non era ancora esploso, dal punto di vista sportivo. Ci presentarono alcuni amici comuni: eravamo piccoli, molto teneri».
E innamorati.
«Fu un colpo di fulmine. E dopo quell’incontro ci sono stati diciotto anni d’amore».
Simonetta Rizzato è la prima moglie di Paolo Rossi, la madre di Alessandro, il primogenito del campione appena scomparso, e la donna che ha accompagnato Pablito nel periodo più incredibile della sua carriera. Negli anni Ottanta erano la coppia più bella dello sport, le loro foto riempivano i rotocalchi. Lui, l’eroe del Mundial. Lei, bellissima, figlia di commercianti in una città che all’epoca sapeva ancora di provincia e che il Calcio con la «C» maiuscola l’aveva scoperto proprio grazie a quel ragazzino dal fisico esile che sul campo pareva danzare. «Ma io il calcio non lo seguivo granché, non ero una tifosa. In fondo quando l’ho conosciuto, per me, era soltanto Paolo. La gente sotto casa, i tifosi, gli autografi: tutto questo sarebbe venuto dopo e non avrebbe comunque mai compromesso il nostro legame. Nel suo cuore, la famiglia veniva prima di tutto e ora che se n’è andato mi lascia con un dolore immenso e con la consapevolezza di aver avuto il privilegio di passare la prima parte della mia vita con un uomo straordinario».
Fu un amore da copertina.
«Non abbiamo mai cercato i riflettori, eravamo molto riservati e le nostre amicizie erano lontane dal mondo del pallone. Se ci ripenso, mi pareva di vivere una favola: Paolo è stato il primo amore, quel sentimento puro che si può vivere soltanto a quell’età. Poi, siamo cresciuti e maturando siamo cambiati. Lui era spesso lontano per lavoro e alla fine, dopo tanti anni insieme, abbiamo deciso di lasciarci e prendere strade diverse». 
Siete rimasti legati?
«Abbiamo un figlio che ci unisce, Paolo era una persona così dolce che non aveva senso escluderlo dalla mia vita. Io mi sono risposata e anche lui ha conosciuto Federica, una donna stupenda e che gli è stata accanto in modo straordinario in questo periodo così doloroso. Anche dopo la separazione, l’ho sempre sentito parte della mia famiglia». 
Quando l’ha visto l’ultima volta?
«Il giorno prima che morisse. Sono andata a trovarlo in ospedale a Siena e ci siamo detti addio».
Avete condiviso la trasformazione: da Paolo Rossi, campione del Vicenza, a Pablito l’eroe di un’intera nazione. 
«Anni bellissimi e intensi».
Cosa ricorda del Mondiale ’82?
«Fu pazzesco. Però io aspettavo Alessandro, che sarebbe nato a dicembre, e quindi ero concentrata soprattutto sul bambino che portavo in grembo. Non andai in Spagna per il timore che l’euforia potesse mettere a rischio la gravidanza, e quindi guardai le partite a casa, aspettando il suo ritorno. Ricordo i tifosi sotto le finestre, fu tutto bellissimo. Ma c’è un episodio che descrive bene che persona fosse Paolo: quando i giornalisti gli chiesero come si sentiva, lui rispose “Questo è un anno importante per me: nascerà mio figlio e ho vinto un Mondiale”. Ecco, per lui erano più importanti gli affetti».
Il periodo più buio fu quello della squalifica per il calcioscommesse. Cosa ricorda?
«Lui non avrebbe mai venduto una partita. Non ne aveva bisogno, perché già guadagnava bene, ma soprattutto non era il tipo da accettare simili compromessi. Qualcuno lo avvicinò prima di una partita, ma lui non gli diede neppure retta. Alla giustizia sportiva bastò il solo fatto di non aver denunciato subito l’episodio per squalificarlo». 
Come reagì?
«La prese malissimo, perché sapeva di essere innocente. Si chiedeva cosa avrebbe pensato la gente: non come sportivo, ma come uomo. Un giorno mi confidò: “Lì fuori mi guardano e pensano che io sia una persona diversa da quella che ho sempre detto di essere”. Non accettava l’idea di apparire come uno disposto a tradire i propri valori. Ad ogni modo non trascorse quei mesi sul divano a piangersi addosso. Si diede da fare, lavorò ad alcuni progetti professionali che non avevano nulla a che fare con il calcio e che in seguito avrebbero posto le basi per la sua seconda vita, quella da imprenditore».
Arrivò la telefonata di Bearzot.
«Fu una gioia immensa. La sua occasione di rinascita».
E adesso?
«Ora resta l’immagine di un grande calciatore, di un bravo papà. E, soltanto per me, il ricordo di quel primo amore. Allegro, com’è allegra la memoria della giovinezza».