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 2020  dicembre 12 Sabato calendario

In morte di Kim Ki-duk

Mariarosa Mancuso, Il Foglio
Kim Ki-duk è un regista che abbiamo odiato. Eppure, più di una volta, ci ha sorpreso con film molto belli (senza revisionismo verso i titolacci, certe lentezze e certe atrocità non si riscattano – e la morale non c’entra, c’entra l’estetica). Non si riferisce a quest’altalena il “controversial” che leggiamo sul Guardian, in ricordo del regista coreano morto oggi in Lettonia dove stava cercando finanziamenti. Lì era finito all’ospedale, malato di Covid-19.
Il “controversial” si riferisce alle accuse che gli erano state mosse nel 2018 e che avevano coinvolto anche l’attore Cho Jae-hyun: la classica doppietta molestie & stupro, ai danni di tre donne. Il Guardian riassume bene i fatti. Mancavano le prove, il regista fu multato per qualche migliaio di euro, la sua reputazione in patria ne uscì distrutta. Da qui il viaggio in Lettonia. In effetti, lassù hanno una Film Commission che funziona piuttosto bene. Lo sappiamo  dalla newsletter che regolarmente riceviamo, piena di informazioni e bandi di concorso. A Riga, per dire, ci sono al momento un paio di cinema aperti (la stretta finiva il 6 dicembre). Stavamo quasi comprando un biglietto, per vedere l’effetto che fa. 
Voi che il cinema coreano lo avete conosciuto con “Parasite” o con “Snowpiercer” di Bong Joon-ho, non avete idea di cosa volesse dire, prima, “Corea del sud” scritto sotto al titolo di un film. Per non parlare dei registi, con i loro nomi che mai restavano nella testa. Figuriamoci la confusione tra gli attori – va detto, e ora l’hanno capito anche loro: almeno hanno smesso di vestirli uguali. Dettagli che si sarebbero potuti superare, se i film non fossero stati roba per cinefili all’ultimo stadio. Sempre violenti, spesso incomprensibili, e scortati da un manipolo di critici assatanati, scarsi nella sintassi. Prima delle molestie alle attrici, Kim Ki-duk per “L’isola” fu accusato di crudeltà verso i pesci, per via di un sushi tanto fresco che si muoveva ancora. Scena orribile, fece distogliere gli occhi dallo schermo anche ai fan che prima avevano preso appunti su ami da pesca usati là dove Ingmar Bergman preferiva i cocci di bottiglia. Era alla Mostra di Venezia con tutti gli onori, durante il primo regno di Alberto Barbera. Qualche anno dopo Kim Ki-duk vinse il Leone d’oro con “Pietà”: ricordiamo solo l’autoerotismo a mezzo ciottolo – strofinato su un piede, ché il pisello aveva incontrato la sua Lorena Bobbit.
Ma intanto c’era stato “Ferro 3”. Un giovanotto va di casa in casa, non per rubare ma per vivere le vite degli altri. Fa la doccia, dorme sul divano, lava i panni, se trova qualcosa di rotto lo aggiusta. Un incanto di film. Molto bello anche “Il prigioniero coreano”: un pescatore del nord sconfina verso sud, ha il motore della barchetta rotto. Lo scambiano per una spia, lo menano, e sarà peggio il ritorno a casa.

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Maurizio Porro, Corriere della Sera
A 59 anni è morto a Riga, Lettonia, per complicazioni da Covid, il regista sudcoreano Kim Ki-duk, visionario ma non surreale autore di film cult, vincitore del Leone a Venezia nel 2012 con Pietà, del Pardo a Locarno con Primavera, estate autunno inverno… nel 2003 (un capolavoro). Infine Samaria 2004, forte storia di prostituzione minorile con cui Kim, che vede il cinema come dialogo poetico fra immagini, è decorato a Berlino, confermando la vena introspettiva mai disgiunta dalle condizioni storiche, un rimbalzo continuo tra realtà e coscienza, critica e disagio, frutto anche di un suo giovanile periodo mistico, due anni passati in una chiesa per ciechi. Era arrivato in Lettonia, forse anche per evadere, voleva acquistar casa sul mar Baltico, poi aveva fatto perdere i contatti. La sua rivelazione fu nel 2004 a Venezia con Ferro 3, film sulla solitudine che conquistò il Leone d’argento.
Kim Ki-duk, nato il 20 dicembre 1960 a Bonghwa, a 9 anni si trasferisce a Seul dove studia da agricoltore preferendo in seguito l’esercito. Dopo la parentesi religiosa, la passione per l’arte lo spinge a Parigi che lo accoglie e lo nutre come le altre generazioni di bohémien. Inizia da autodidatta a scrivere per il cinema (nel 95 premiato da Corea Film Commission), nel 96 gira Ageo, polemico verso ciò che si nasconde dietro la prosperità di facciata della Corea capitalista. È un dolce furore creativo: in 5 anni otto film, rabbia e violenza incanalate nelle relazioni umane: così facendo imparenta dramma e thriller, psicologia e poliziesco con una punta d’ironia.
L’isola nel 2000 lo rende regista da festival, amante del silenzio invece del rumore, voce coreana che è impossibile non sentire, non ascoltare come sarà quella di Bong Joon-ho in Parasite. Poi Bad guy, L’arco, Soffio, Time, indagando sulle profondità dell’amore, fino alla pausa per grave crisi esistenziale dal 2008 al 2011, avendo ben dimostrato quell’intima energia che lo ha reso nome di riferimento asiatico.
Nel 2012 col michelangiolesco Pietà vince il Leone d’oro a Venezia, dove sarà presente con Il prigioniero coreano, 2017, storia politico-poetica di idealismi contrapposti nella figura quasi simbolica di un pescatore pedina di forze maggiori, un piccolo uomo che rema nell’Assoluto.

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Roberto Nipoti, la Repubblica
Questa impietosa fine d’anno ci porta via un altro grande: meno noto, ma che lascia un vuoto incolmabile nel cinema mondiale. Deceduto in Lettonia per complicazioni da Covid, a pochi giorni dal suo sessantesimo compleanno, Kim Ki-duk era quel che si suole definire (con sottintesi di fantozziana ironia) un "regista da festival". E in effetti soleva presentare le proprie opere, belle e importanti, nelle principali competizioni internazionali, spesso vincendone i premi maggiori: Leone d’oro a Venezia per il film Pietà (2012), dove convivono contenuti sessuali e simboli religiosi; Premio speciale alla regia per lo struggente Ferro 3 — La casa vuota (2004), storia d’amore diversa da tutte le altre; Orso d’argento alla regia per La samaritana (stesso anno del precedente). Da non confondere con l’omonimo, e meno noto, regista sudcoreano di film "fantastici", Kim era nato a Bonghwa il 20 dicembre 1960, poi si era trasferito a Seul, lavorando per sostenere la famiglia quindi, a vent’anni, si era arruolato in Marina. In quel periodo iniziò il suo tormentato rapporto con la religione, che dopo la rinuncia a farsi predicatore, risuonerà poi come una eco ricorrente nei film. Lasciata la Corea per Parigi, dove si mantiene vendendo i quadri che dipinge, Kim trova la sua vera vocazione nel cinema. Non sarà un autore "comodo". Eccetto il bellissimo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (in concorso a Locarno nel 2003), sulla vita di un monaco in un eremo buddhista, e — in parte — L’isola (2000), che si concede un epilogo di ottimismo della volontà, i suoi film sono l’opposto dei feel-good-movie. Spesso traversati da una vena di pessimismo profondo; mai programmatico, però, ma sincero e sentito quasi suo malgrado. Anche se l’amore, a volte, sembra l’unica forza in grado di riscattare il dolore e l’amarezza che assediano gli umani. Come nel film d’esordio, Coccodrillo (1996), storia di un giovane che depreda i suicidi sotto un ponte, ma poi salva una donna intenzionata a togliersi la vita. Oppure Bad Guy (2001), vicenda di crimine e prostituzione. O ancora il crudele La guardia costiera (2002), sul conflitto fratricida tra nord e sud-coreani. Contrasto logorante al quale, nel 2016, il regista ha dedicato uno dei suoi film più amari: Il prigioniero coreano , parabola profondamente politica e insieme lirica su un povero pescatore del Nord che, trascinato al Sud dalla corrente del fiume, subisce interrogatori e torture pur di non abiurare alla propria ideologia. Riuscito a ritornare al Nord, non avrà sorte migliore. Al pessimismo di Kim, già connaturato nel carattere dell’uomo, aveva contribuito un evento verificatosi nel 2008 sul set di Dream , episodio che lo avrebbe tenuto — lui, solitamente così prolifico — lontano dal cinema per tre anni. Durante le riprese del film, onirico e misterioso, l’attrice protagonista quasi perse la vita nella scena in cui simulava un suicidio.
Tra le altre opere del regista coreano (oltre trenta, in vent’anni di carriera) sono da ricordare almeno due titoli, che sintetizzano gli estremi della sua poetica. L’uno è Indirizzo sconosciuto (2001), che intreccia la vita di tre adolescenti in una cittadina coreana dove ha sede una base americana. L’altra L’arco (2005), favola a tre personaggi su un vecchio pescatore innamorato, una ragazzina e uno studente, ambientata in un mondo fuori dal mondo.