Corriere della Sera, 12 dicembre 2020
Quattro riforme possibili
Per dare credibilità al Piano nazionale di ripresa e resilienza, il progetto del governo per impiegare i fondi europei, sarebbe utile lasciar perdere le banalità – cose certamente giuste ma che da anni i governi scrivono nei loro programmi senza poi riuscire ad attuarle – e invece dimostrare con qualche esempio concreto, meglio se scomodo, che c’è il coraggio di cambiare. Scrivere, come si legge nel Piano, che occorre «concentrare gli sforzi sulla scuola», oppure «affrontare con determinazione la riforma della giustizia civile e penale per garantire procedimenti snelli e processi rapidi» a mio avviso è controproducente, cioè rischia di ridurre anziché aumentare la credibilità del progetto.
Cominciamo dalla giustizia e dall’organizzazione dei tribunali. Questi dovrebbero avere a capo persone capaci di gestire, non magistrati che, a volte, non sanno governare neppure le proprie udienze. Dal punto di vista organizzativo i tribunali andrebbero gestiti come un’impresa, perciò da chi sa farlo rivedendo l’attuale organizzazione. Molte università sono migliorate separando le funzioni accademiche da quelle gestionali e affidando queste ultime a persone con esperienza manageriale e che invece non hanno alcun potere nelle decisioni accademiche. Introducendo nei tribunali una figura con il potere di verificare anche solo la presenza dei giudici sul luogo di lavoro ne cambierebbero gli incentivi.
Il buon funzionamento di un ufficio pubblico non è indipendente dalla produttività dei singoli lavoratori che in esso operano, come dimostra una ricerca di Andrea Ichino che ha studiato, con Decio Coviello e Francesco Contini, la durata dei processi nell’Ufficio dei giudici di pace di una media città italiana.
Nei procedimenti civili occorre diminuire sensibilmente il numero delle udienze, mantenendo solo quelle di effettiva discussione della causa. Nel penale la rapidità dei procedimenti richiede una radicale depenalizzazione dei reati: in una società liberale il ruolo della pena deve essere marginale, cioè un’extrema ratio. Per un numero rilevante di reati non esiste ragione al mondo per doverli classificare come «penali».
Due riforme, l’organizzazione dei tribunali e il penale che non sarebbero ben viste né dagli avvocati (il cui lavoro diminuirebbe) né dai giudici, il cui lavoro aumenterebbe. Ecco un modo in cui un presidente del Consiglio avvocato potrebbe segnalare la sua determinazione.
Veniamo alle misure per uscire da un ventennio di assenza di crescita. «Dietro al ritardo italiano, si legge nel Piano, ci sono problemi noti, mai affrontati con sufficiente determinazione». Vero: cominciamo allora dal Mezzogiorno. La differenza tra i salari nominali al Nord e al Sud è di circa 4,2 punti. In Germania la differenza di salario all’Ovest e all’Est è di oltre 28 punti. Siamo d’accordo che per crescere occorre allineare le retribuzioni alla produttività? E che la strada per mantenere il livello dei redditi nel Mezzogiorno è un aumento della produttività, non retribuzioni sussidiate? Se questo è vero la «fiscalità di vantaggio» recentemente introdotta dal governo – cioè la riduzione di un terzo dei contributi sul lavoro per gli occupati al Sud – non è la strada giusta perché sussidia occupazione a bassa produttività. Certo, consente di creare più posti di lavoro, ma questo è un obiettivo diverso da quello enunciato, cioè la crescita.
Molti pensano che l’eredità della pandemia sarà una diversa composizione dei consumi per renderli compatibili con il distanziamento sociale, un’esigenza che non sparirà presto. Come si adatta la struttura produttiva ad un cambiamento delle abitudini di consumo? Secondo me facendo leva su chi è più pronto a recepire i desideri dei consumatori, cioè gli imprenditori. E allora, siamo sicuri che allargare il perimetro dell’intervento dello Stato nell’economia attraverso strumenti come la Cassa depositi e prestiti sia la strada giusta? Imprese pubbliche che non rischiano perché sono comunque garantite dallo Stato hanno meno incentivi di imprese private a fiutare il vento della domanda. Incentivare gli investimenti privati e abbassare le tasse sulle imprese sembrerebbero una strada migliore.
Per la scuola io continuo a pensare (come Alberto Alesina ed io scrivevamo sul Corriere due anni fa) che essa deve essere la «casa» dei ragazzi. Non deve chiudere, nei giorni di lezione, alle 14 e poi andare in vacanza dall’8 giugno all’8 settembre. Nei giorni di scuola deve rimanere aperta fino alle 18 e le vacanze estive molto più brevi, un mese, sei settimane al massimo. Le famiglie più ricche hanno molti modi per tenere occupati i figli durante le lunghe vacanze: seconde case, baby sitter per i più piccoli, corsi all’estero per imparare una lingua. Le famiglie meno abbienti no. Non dobbiamo poi stupirci se, soprattutto al Sud, ragazzi lasciati tanto a lungo con nulla da fare sono attratti dalla criminalità, molto abile a reclutare ragazzi delusi dalla scuola e annoiati. In molti luoghi, per la verità più a Milano che in Calabria, sono le parrocchie a fare supplenza il pomeriggio e durante le vacanze: che questo aiuto sia benvenuto! Ma lo Stato non può abdicare e affidarsi alla Chiesa cattolica. Uno Stato laico non può obbligare i ragazzi ad andare in parrocchia, ma può richiedere che stiano a scuola e tenerla aperta. Quindi scuole aperte molto più a lungo. Questo ovviamente richiede un’integrazione di stipendio per gli insegnanti. Saranno fondi ben spesi, soprattutto al Sud, a patto di controllare il loro lavoro e di retribuire meglio gli insegnanti che più si impegnano.