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 2020  dicembre 11 Venerdì calendario

Renato Zero si racconta

Renato Zero ha compiuto settant’anni. E per celebrare questo momento non ha pubblicato il classico album di successi di una carriera che comincia all’inizio degli anni Settanta. Renato invece ha fatto uscire tre album di inediti. 
Cosa vuoi dire con questa scelta? 
«Sono una carta d’identità, questi tre cd, perché ci sono tutte le mie facce: l’ironia, la rabbia, la poesia, anche la canzone di protesta che mi è sempre stata congeniale e mi aiuta a sentirmi utile anche per le persone che soffrono. Per quelli, come vediamo anche in questi giorni, a cui manca tutto. Ho voluto fare questo excursus interiore anche per guardarmi dentro, per vedere effettivamente dove potevo spingermi. L’ho fatto con onestà e coerenza. Poi c’è, non ultima, la passione. Senza quella non credo si possa affrontare il discorso artistico. Quando ci si accosta alla musica e alla comunicazione artistica bisogna sempre tener conto che non è mai domenica. Ci vuole lavoro, fatica e disponibilità a tempo pieno. Mai la pigrizia o il desiderio di una pausa può essere più forte dell’ispirazione. Quando mi chiedono dove scrivo le mie canzoni la risposta è una sola: dappertutto, anche sugli autobus».

Ascoltando i dischi, che hanno testi interessanti, mi sono annotato delle tue frasi: «Pandemia che ci hai spenti» (ndr. dall’’album Zerosettanta, nella canzone ‘L’angelo ferito’). Come l’hai sentita, come la senti, la pandemia? 
«Di solito il fatto che il male possa essere condivisibile dovrebbe essere rinfrancante, dovrebbe in qualche modo metterci un po’ al sicuro dalla paura totale. Io ho sentito enormemente questo distacco, ho bisogno del rapporto diretto con le persone, siano il tassista con cui verseggio in romanesco o i ragazzi che mi indicano e salutano, a Primavalle come ai Parioli. Però il fatto di poter raggiungere gli altri attraverso la musica e attraverso una testimonianza come quella di Zero 70 mi mette nella condizione di interpretare questo tempo e di parlare con i mei amici sparsi ovunque. Grazie a questi tre album mi sono sentito in qualche modo vaccinato». 
Tu non hai paura adesso? 
«La paura è soprattutto quella di non riuscire a dire le tante cose che ancora non ho detto. Ecco, questa è la paura maggiore. Forse dipende anche dal fatto che si restringe un pochino l’orizzonte, visto che sono settanta anni. Dobbiamo sfruttarli, tutti quelli restanti».

Il traguardo è più vicino della partenza, per noi... 
«Poi va via Gigi, per fare un nome o Ennio. Sono state per me figure fondamentali. Quando è andato via Gigi la prima cosa che mi è venuta in mente è stato il Teatro Tenda, quello di Carlo Molfese... Eravamo vicini di casa, perché lui faceva A me gli occhi please e io Zerofobia. Gigi mi guardava con sospetto perché pensava: “Ma che vuole questo, vicino a me?”. Quando lui vide che io riempivo tanto, un po’ je rodeva er chiccherone: “Questo manco è arrivato e già rompe li cojoni”. Poi gli ho fatto capire che non ero l’ostruzionista, ero il complice. Anzi ero quello che voleva spiarlo, voleva carpire segreti e significato della sua arte. Significati che erano un miliardo, nel suo modo di stare in scena. Gigi non era una cosa, era un miliardo di cose messe dentro un corpo, fra l’altro così accattivante. Queste mancanze per me sono delle mutilazioni, avrei continuato questa passeggiata nella vita con più serenità se fossero stati qui tutti con me. Aroldo Tieri, Armando Trovajoli sono state persone che io non avrei mai sognato di poter mettere nella bacheca degli amici. Sono stato fortunato, ma ora mi mancano degli ingranaggi fondamentali».

Un’altra frase è «un selfie non può guarire te» (ndr. da Zerosettanta vol. 3, nella canzone ’’Poca vita’). 
«Sì, perché ci illudiamo che questa cattura continua di istanti, questo permanente safari dell’immagine possa in qualche modo colmare la distanza tra gli umani. Io sfuggo l’istantanea usa e getta. Preferisco, a chi vuole farmi un selfie, dare un abbraccio o offrire un caffè. Figuriamoci se questa civiltà del selfie possa godere della mia stima e della mia complicità. Io raccomando sempre di curare la fisicità, il contatto, gli sguardi. Quello dei selfie è il cimitero della memoria. Quando si mettono questi scatti lì dentro è come se si seppellisse l’esistenza. Una volta stampavamo le immagini e le avevamo davanti agli occhi tutti i giorni. Ora questa fame assatanata di istanti toglie valore al vissuto e diventa una scusa per mettere al sicuro la nostra coscienza e a riposo la nostra memoria». 
«Quello dei selfie è il cimitero della memoria. Quando si mettono questi scatti lì dentro è come se si seppellisse l’esistenza»
«Perché nascondere una sessualità?» (ndr. album Zerosettanta vol. 3, dalla canzone ‘In manette l’astinenza’)
«Abbiamo sempre dato troppa responsabilità al sesso. Lo abbiamo incoronato padrone di noi stessi, del nostro futuro, passato, presente, di una logica di assegnazione anagrafica, che poi spesso viene tradita da una scelta che è spontanea. Anch’essa naturale. Molti dicono che l’omosessualità sia una malattia, o uscire dai binari. Non credo sia né l’una, né l’altra cosa: sono l’uomo o la donna che sentono diversamente certe chiamate e reagiscono diversamente a certi accostamenti. Il sesso è importante e ha una sua dinamica. Se non ha più la complicità della preparazione, dei preliminari, di una liturgia sentimentale accurata diventa talmente sterile da essere quasi fastidioso. Diventa pura ginnastica».
«Siamo figli di un tempo che cambia».
«Sì, siamo figli di un tempo che cambia. Cambia con noi. Dovremmo educare il nostro tempo, renderlo un po’ più consapevole di quello che siamo, stiamo diventando e vogliamo essere, metterlo al corrente dei nostri limiti e dei nostri desideri. Fare in modo che lui diventi un po’ più tenero, un po’ meno dittatore. Perché poi, in definitiva, il tempo lo facciamo noi, è soggetto alla nostra giurisdizione. Dovremmo renderlo più duttile, più aperto ai nostri bisogni e alla nostra voglia di crescere e addirittura di invecchiare. Si può invecchiare meglio di come succede quando si ha paura del tempo, quando la vita diventa una rincorsa disumana. Ricordo quel film sulla maratona infinita e violenta, di poveri cristi che dovevano solo correre».
Non si uccidono così anche i cavalli, si chiamava.
«Credo che quel film sia proprio la fotografia, anticipata, del nostro tempo».
«Si può invecchiare meglio di come succede quando si ha paura del tempo, quando la vita diventa una rincorsa disumana»
«Basta con i cantanti» (da Zerosettanta vol. 2, nella canzone ‘Troppi cantanti, pochi contanti’) . 
«”Basta con i cantanti” è una carezza, non è uno schiaffo. Io ho vissuto sulla mia pelle la durezza della scelta. Il voler essere quello che ero a dispetto di tutti quelli che mi avevano redarguito, mi avevano sconsigliato, anche con forza, di mettere in pratica la mia volontà soggettiva. Quindi capisco i nuovi linguaggi e la volontà genuina di essere se stessi. Ma non si deve pensare che si fa l’artista perché si tromba, si sta sui giornali, si guadagnano un sacco di soldi. Servono talento e lavoro, al servizio di una ispirazione sincera. Altrimenti non si va da nessuna parte e non si diventerà mai Edoardo De Filippo, Anna Magnani e neanche Gino Bechi». 
Il disco si apre con un brano che a me è piaciuto enormemente:Il linguaggio della Terra (ndr. da Zerosettanta vol. 3). 
«Nel disco ho voluto rimpatriare anche Dario Baldan Bembo, Maurizio Fabrizio, Fabrizio Bosso e Demo Morselli. Ho riportato a casa i miei affetti e ho scoperto Lorenzo Vizzini, un ragazzo che ha ventisette anni ma ne dimostra sessantadue, scrive come Umberto Bindi, come Sergio Endrigo. Il brano che hai menzionato è suo. Io mi sono inserito in alcuni tratti della sua scrittura per indossare poi meglio il testo. Quel brano mi sembrava molto adatto per aprire questa trilogia, perché imprime a questo viaggio un’accelerazione interessante e una direzione chiara».
Sul palco della Bussola, nel 1977. È l’anno del 45 giri Mi vendo , che consacra il suo successo e, anche grazie alla diffusione sulle radio libere, fa da traino al nuovo album Zerofobia. Sempre lo stesso anno fonda la sua etichetta, Zerolandia
Parliamo di te. Come sei uscito dal tuo barattolo, quella dimensione in cui ti sentivi imprigionato, da ragazzo? 
«Di solito la presenza di Dio dovrebbe regalarti le ali, dovrebbe darti l’opportunità di sollevarti, di alleggerire il carico già impegnativo degli anni, dell’impatto con la vita, con la società, con le regole. Invece questo Dio me lo descrissero come un castigamatti, uno che mi avrebbe punito se solo avessi starnutito. Questo mi ha procurato una certa occlusione della vita. Finché non me ne sono liberato andando a cercarlo io, da solo, questo Dio e scoprendo che era un amico, che mi sarei potuto fidare. Aver avuto tre sacerdoti in famiglia, aggiungeva incombenza sulla mia testa. Per di più andavo a scuola a Trinità dei Monti dalle suore francesi del Sacro Cuore... Avevo addosso questa camicia di forza abbastanza costringente. Avevo pure un padre poliziotto. Insomma ero agli arresti domiciliari, da appena nato. Ho dovuto piano piano sfasciarmi. Io volevo camminare con le mie gambe. E come reagente a questa condizione frustrante, cominciai a prendere confidenza con il beauty case, con le paillettes, con i fondotinta, con la pittura. Non è che mi truccassi, mi dipingevo la faccia. Io cercavo i colori, cercavo lo sfolgorare, cercavo la maniera di riemergere da questo fango, dalle costrizioni di una opacità che non era sopportabile a tredici, quattordici anni. Era troppo serrato, il mio barattolo».

La scuola è stata madre o matrigna?
«Anche la scuola con me non è stata tenerissima, non so per quale motivo. Tu avrai visto quel programma in televisione dove il mio maestro era Giancarlo Giannini. Io gli ho messo in bocca esattamente quello che il maestro mi diceva. Mi ripeteva solo che ridevo, che ero un discolo, “Che cavolo ridi?”. E io gli rispondevo: “Maestro lei evidentemente non è felice, non è contento della sua esistenza. Perché dire a me, a quest’età, che questo riso è superfluo e addirittura fastidioso, vuol dire che lei non sta bene”. Ero sotto il mirino di questi insegnanti, tant’è che dopo la terza media io scelsi la scuola di cinema di via Achille Papa, volevo fare l’operatore. Ho imparato tanto, c’erano insegnanti di altissimo livello. Però poi mi sono detto che la mia macchina da presa potevano essere benissimo i mei occhi. Ho girato questo film fino a stamattina ed è un film che mi soddisfa molto. E’ un po’ noir, è un po’ ironico, un po’ sarcastico, è una sceneggiatura molto forte e, comunque, sincera. Non mi sono preso per il culo né ho preso per il culo nessuno. E questo credo che sia un risultato eccezionale. Ho dovuto all’inizio infrangere qualsiasi barriera e regola, se volevo respirare, perché non mi lasciavano respirare, mi chiudevano in questo barattolo. Questo barattolo lo chiudevano in tanti, ho dovuto farlo in mille pezzi. Era la condizione per vivere la mia vita. E’ oggi il mio consiglio ai ragazzi che vogliono fare questo lavoro: non lo prendete con leggerezza perché non c’è niente da ridere, perché il sacrificio è una cosa seria, la gente non deve essere mai presa per i fondelli. Da noi, in cambio delle gioie che ci regala, si aspetta delle risposte sincere, si aspetta l’esempio».

Se tu dovessi scegliere un giorno di quando eri bambino?
«Io di quando ero bambino non prenderei nessun giorno. Perché ero solo, perché quella Roma lì, di via Ripetta, era una città piena di vecchi. Lo dico con tenerezza, perché mi hanno cresciuto loro e se amo i vecchi così tanto è perché io li ho condivisi da quando ero piccolo. Intorno a casa tu incontravi gli Odescalchi, gli Sforza, la crema della aristocrazia romana, e poi molti sacerdoti perché il Vaticano era ovunque. Se volevi vedere i bambini dovevi andare in borgata, in periferia. Infatti quando l’ospedale San Giacomo comprò il nostro palazzo noi, sfrattati, siamo andati a finire alla Montagnola. Lì ho conosciuto i bambini, ho capito che si nasceva bambini e non vecchi. Non ero più un’eccezione. No i bambini esistevano, lì c’erano, eccome. Ho condiviso le regole della borgata, ho imparato ad amare la povertà, l’esempio di chi non spreca nulla. Noi mangiavamo le patate sei volte a settimana: una volta era un gateau, un’altra volta era pasta e patate, un’altra volta erano patate fritte. Insomma tu magnavi sempre patate e non te ne accorgevi perché nonna le mascherava tutte le volte in una forma diversa. Voglio dire con questo che dico grazie a quella Roma. Forse statica, con il respiro affannoso, greve. Ma ringrazio pure la spudoratezza della periferia. Questa spontaneità e questo dramma vissuti con allegria». 
Renato Zero sul palco del Voyeur tour, nel 1989, con 220mila presenze (foto Getty Images)
Quella Roma te la ricordi in bianco e nero o a colori? 
«Io me la ricordo... Sai quei colori pastello? Né carne né pesce? Colori anni ‘60... Avevo cinque anni e mia nonna Renata prendeva Jay, che era un pastore tedesco femmina a pelo lungo, me lo legava al braccio e il cane mi portava a fare la passeggiata, mi faceva fare il giro di piazza Augusto Imperatore e poi mi riportava a casa. Ti racconto un’altra cosa che non ho mai detto. Mi regalarono una chitarra con le caramelle dentro. Io me magnai le caramelle, poi presi la chitarra e scesi giù nel portone di via Ripetta. Stavo lì e strimpellavo ‘sta chitarra. Tornai a casa con dei dollari e mia nonna mi sgridò. Mi disse “Dove li hai presi ‘sti soldi?”. Io, timido, “Nonna io stavo giù, suonavo, mi hanno dato i soldi”. Vedi che il mio era destino?».

Che musica sentivi in quegli anni? 
«Quando ero piccolo io ascoltavo ‘Sono Orazio Pennacchioni e so’ contento, so’ tifoso della Roma e me ne vanto’. Noi avevamo ‘sta radio che urlava ovunque, dalla mattina alla sera. Quando mia nonna o mia madre sbattevano i panni in terrazza, oppure quando si cucinava pasta e fagioli, c’era sempre ‘sta radio che urlava con allegria. Noi vivevamo in dodici nella casa. C’erano i tre fratelli di mia madre che erano scapoli. Investivano tutti i soldi su di noi e ci comprarono un Miral, una televisione tutta di legno con le manopolone e ce la sbatterono davanti. Mio zio Mario ci mise sopra una tendina semovibile. Quando c’erano gli sceneggiati tutto il condominio veniva da noi perché eravamo gli unici ad avere la televisione. Però nel momento in cui gli attori si baciavano zio Mario tirava la catenella, chiudeva il sipario e suonava il campanello. I condomini si lamentavano, lui li mandava affanculo e li faceva uscire dalla casa. Ma poi li riaccoglieva, perché mio zio era buono. Noi abbiamo visto Ave Ninchi, Mario Riva, Giancarlo Cobelli con la calzamaglia nera che faceva il mimo. Abbiamo visto di quelle cose! Guarda a me dispiace per le generazioni successive che l’hanno conosciuta la televisione, ma l’hanno vista già precipitata nell’ovvietà, privata dell’incanto».
Renato Zero nel film «Ciao nì», diretto da Paolo Poeti nel 1979
La prima volta che sei andato al Piper? 
«La prima volta non mi fecero entrare perché ero minorenne, così come la seconda. Poi però stabilirono la regola che era aperto il pomeriggio per quelli che avevano meno di diciotto anni e da quel momento io ebbi la possibilità di accedere. Ogni tanto faccio delle rimpatriate con questi amici del Piper. Ci contiamo le rughe, facciamo un po’ il bilancio delle nostre vite. Lo trovo molto divertente, ci prendiamo molto per il culo. Niente di serio. Non lacrime e pianti, solo allegria».
Com’ era un tuo pomeriggio là dentro? Che facevi?
«Ero un po’ diverso da quello degli altri. Mi preparavo un fagottello con tutte le mie stravaganze, mi nascondevo in un portone di via Po dove mi cambiavo e poi andavo al Piper. Quando finiva tutto mi rimettevo nello stesso portoncino, tornavo in borghese e andavo a casa. Un giorno mio padre che era un poliziotto - tutt’altro che severo, era un grande padre - mi disse: “Senti, che hai dentro quel sacco?”. Io risposi agitato: “Niente, papà”. “Fammi vedere.... Tu esci con queste cose, poi ti vesti e poi ti devi cambiare, non va bene. Da domani esci direttamente vestito così”. Quello era mio padre. Considera che in quel palazzo c’erano centotrentasei poliziotti, perché era un alloggio della polizia di Stato. Quando uscivo da quel portone, con la benedizione di mio padre ad indossare la mia seconda pelle, questi da dietro le tapparelle quello che non potevano dire! Quella è la scuola della vita. Io ho lasciato quella ufficiale per affrontare un’altra scuola dove la laurea è faticosa. Ma quando ne prendi una, le hai prese tutte».

Cosa fu il suicidio di Tenco per te? 
«Io avevo percepito la sua fragilità. La prima volta che andai nel mitico stabilimento della Rca ero molto piccolo. Avevo sedici anni e mi portò Gianni Boncompagni. Ballando nel suo programma radiofonico, Bandiera gialla, avevo fatto una spaccata e mi si era aperto tutto il pantalone all’interno. Insomma avevo una maxi gonna con tutte le miserie pendoloni. Gianni mi portò alla Rca in quelle condizioni. Dissi: possiamo andarci un’altra volta? No, mi rispose. Devi fare il provino subito. Al bar arrivava Luigi Tenco con una espressione sempre molto mesta. Stava lì, si metteva in un angolo del bancone del bar, consumava il suo caffè, la sua spremuta d’arancia, sempre in solitudine. Io avrei voluto andare da lui e salutarlo, ma non ho mai avuto il coraggio. Avevo soggezione perché lui non offriva questa opportunità di dialogo. E questo denotava che c’era in lui evidentemente una certa fragilità e anche insofferenza. E le cose che scriveva comunque erano talmente profonde, talmente uniche che quando successe questa cosa, io rimasi molto colpito e addolorato. Io l’ho amato veramente tanto». 
Luigi Tenco, uno degli artisti più amati da Zero
Ad un certo punto tu finisci a lavorare persino con Fellini. «E no?» Racconta...
«Federico vedeva in me un ragazzino che aveva voglia di lavorare, di non stare a ricasco della famiglia ed era affascinato da questa macchina meravigliosa che è il cinema. Disse alla sua segretaria: “Tieni da conto ‘sto ragazzo” e lei ovviamente ogni volta che se ne presentava l’occasione mi infilava in un film. Però a differenza delle altre comparse a me faceva lavorare di notte perché così prendevo il doppio della paga. E questo non lo dimenticherò mai. Una volta credo di avergli ricambiato il favore. Passai davanti al bar Rosati a Piazza del Popolo con il sidecar e lui mi disse “Renatino mi fai fare un giretto?”. Io gli risposi: “Come no!” Mi tremavano le gambe. Lui entrò dentro al sidecar e facemmo il giro della piazza. L’ho riportato davanti a Rosati e lui mi ha detto “Ma Renatino già è finito, tutto qui? Perché non mi porti a Cinecittà?”. Tu immagina la scena: io avevo in testa il casco dei vigili del fuoco con tutte le stelline sopra, il giubbotto di pelle con le catene, lui con la sciarpa che sventolava all’indietro. Insieme verso Cinecittà. La gente ci guardava pensando “questi non stanno bene con il cervello”. Montare dentro un sidecar con un ragazzino e farsi portare a Cinecittà... Solo uno che si chiama Federico Fellini poteva fare una cosa del genere». 
Che film hai fatto con lui?
«Ho fatto Satyricon, Casanova e anche una piccola cosa in Roma, perché c’erano le motociclette».
Federico Fellini, al quale Renato Zero è stato legato da un rapporto di amicizia. Ha fatto anche la comparsa in «Satyricon», «Casanova» e in «Roma».
Tu da ragazzino sei stato poco bene, vero? Hai avuto una malattia seria.
«Anemia emolitica. Mi hanno cambiato tutto il sangue ed è stato un frate me lo ha donato. Vedi la cicatrice che ho sul braccio? E’ quella lì, perché la trasfusione non è durata un giorno e neppure una settimana. La trasfusione durò all’incirca quasi un mese, avevo una tavola di legno fissa sotto il braccio, mi toglievano e mettevano il sangue, è stato un travaso. E la stessa cosa la ebbe mio fratello nel ‘60, però a lui misero l’ago nell’ombelico e in un secondo e mezzo fu trasfuso».
Quanto avevi? 
«Io avevo un mese, forse. Quella malattia si manifesta subito, l’anemia emolitica comporta che perdi completamente i globuli rossi e hai solo quelli bianchi, praticamente sei destinato a finire. Dopo che mi trasfusero il sangue, qualsiasi latte mi dessero non riuscivo ad assimilarlo, lo rigettavo. Mio padre, disperato, un giorno andò da Mercatelli, un bar su via Ripetta che faceva maritozzi con la panna da urlo, e chiese, come ultima chance: “Mi dà un litro di latte della Centrale?”. Funzionò. Mio padre mi salvò la vita per la seconda volta. Per questo sono Renato, non potevo chiamarmi diversamente. Perché sono rinato più di una volta, in questi settanta anni».