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 2020  dicembre 11 Venerdì calendario

In morte di Paolo Rossi

Paolo Condò, la Repubblica
Pronti, via. Didier Six accelera come un centometrista sulla fascia sinistra, il cross è perfetto per Bernard Lacombe, la deviazione di testa fuori dalla portata di Dino Zoff. Francia uno, Italia zero. Quaranta secondi di Mondiale e siamo già sotto. Incredulità. Angoscia. Mamma mia. I gol all’alba non scatenano mai dispute. Chi l’ha segnato non si litiga il pallone col portiere per riportarlo al centro del campo. No. Lo lascia lì come il coltello nella ferita, perché l’emorragia faccia il suo corso indebolendo l’organismo rivale. Le squadre sono organismi, certo. Sentono l’ansia, avvertono il dolore, provano la paura. Finché qualcuno — un anticorpo, verrebbe da dire oggi — non reagisce. Paolo Rossi aspetta a centrocampo che qualcuno gli recapiti il pallone per il secondo calcio d’inizio, che il primo decisamente non è venuto bene. Scalpita. I francesi attorno a lui si stanno scambiando occhiate d’intesa, tipo sarà-più-facile- del-previsto. Paolo la tocca per Bettega, e mentre la manovra comincia a dipanarsi lui si dirige tranquillo, senza fretta perché è passato appena un minuto, verso l’area di rigore. Non lo sa ancora, ma sta per diventare Pablito.
Il gol dell’1-1 di quella prima esperienza mondiale — 1978, siamo a Mar del Plata in Argentina — è una discreta sintesi della sua arte. C’è un cross da sinistra di Cabrini che Bettega svirgola, la palla plana sulla testa di Causio e da lì sulla traversa, che sfortuna! Ma la carambola è appena iniziata, perché sul rimbalzo Paolo è lì e colpisce al volo, e la palla andrebbe in porta se lo stesso Causio, che ha proseguito sullo slancio finendo sulla traiettoria, non venisse centrato come un bersaglio da luna park. Nuovo rimpallo, nuovo colpo al volo. L’avesse preso dieci volte, avrebbe colpito altre dieci. Sempre al volo. Dei sei gol che segnerà nell’82, i gol del titolo mondiale, del trono dei cannonieri, del Pallone d’oro, cinque saranno al volo, c’è giusto il secondo al Brasile — un passaggio sbagliato dei difensori intercettato sulla tre quarti — ad aver bisogno di più di un tocco. Il lieve assassino sbriga la sua pratica con una sola pugnalata, un fruscio leggero e definitivo, il lampo che anticipa il tuono, il concetto del "troppo tardi" applicato a qualsiasi disperato tentativo di farla franca. Paolo Rossi in campo è stato così e così ce lo siamo goduto, una sentenza inappellabile. "In campo" va aggiunto sempre perché il suo carattere era quanto di più distante potesse esistere dal terminale impietoso: generoso, genuino, perfino troppo disponibile in un mondo che si nutre di fama, e un simile mito se lo spolpava di selfie, video, stories, "saluta mia mamma, aspetta — clic — mamma guarda con chi sono!". Ma in campo, beh... in campo era un flash, la quintessenza del centravanti di una volta, quello che non partecipava al gioco della squadra ma lo concludeva, l’uomo che accettava l’immensa responsabilità del dover concretizzare il lavoro altrui, e quando il suo tiro veniva parato gli altri dieci avevano lavorato per niente. S’erano spremuti i polmoni per niente. Magari si erano ammazzati di fatica per niente.
Mica semplice reggere questo peso. Ci vuole una quercia che riponga in te la fiducia esagerata dei destini assoluti. Dopo i due anni di squalifica Rossi ha perduto il timing da area di rigore, l’inafferrabile senso del tempo che distingue il predatore: il momento-Matrix che rallenta i tuoi battiti mentre attorno gli altri vivono a velocità normale, se non accelerata dalla tensione. Ecco, Enzo Bearzot è la quercia alla cui ombra Pablito attende che il pozzo ricarichi e il timing ritorni, irresistibile. Se abbiamo tutti bisogno del nostro angelo custode, come ci raccontano da bambini, il Vecio ne veste i panni anche in età matura. Resiste a ogni pressione per difendere il suo centravanti impantanato. Si brucia tutti i ponti alle spalle, dall’ultima opportunità — l’ordalia con un Brasile da favola — si procederà in gloria o si verrà inghiottiti. Paolo entra in campo, e una luce diversa illumina il suo sguardo. Ha ritrovato il tempo. La stagione di caccia è aperta.

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Maurizio Nicita, La Gazzetta dello Sport
Soppesa le parole, ma non vuol farle mancare in un momento così importante. Dino Zoff insieme a Paolo Rossi è l’icona di quella Italia vincente del 1982. E oggi che se n’è andato un altro amico avrebbe voglia di rinchiudersi nei suoi ricordi. Invece accetta un’intervista che avrebbe voluto evitare. Capisce che è importante parlare per fissare valori fondamentali in questo Paese: «Quel Mondiale dovrebbe essere nella memoria anche dei più giovani che non l’hanno vissuto. Perché nato da un gruppo che era una grande famiglia e aveva in Bearzot il papà».
Prima di riavvolgere il nastro: il suo ultimo ricordo?
«Un pranzo al Circolo Aniene, un paio di anni fa. Paolo era a Roma per curare un documentario che lo riguardava. Organizzò Marco Tardelli e siamo rimasti insieme, con semplicità. Come si fa con gli amici veri. Lui era molto più giovane di me, ma mi ha sempre affascinato la sua intelligenza, il suo modo di pensare rapido, come era in campo. Anche quel giorno ci siamo punzecchiati con ironia e confidenza. Paolo poteva permetterselo con me».
Eravate arrivati entrambi nell’estate del 1972 alla Juventus. Lei trentenne portiere affermato per oltre 350 milioni di lire, lui sedicenne ala promettente per 15 milioni. 
«Giocava nelle giovanili e non ci fu modo di incrociarci. Ma quel ragazzino mi colpì, e quando passò al Como chiedevo notizie al mio ex compagno di Mantova, Beniamino Cancian, che lo allenava».
Poi insieme in Nazionale, l’esperienza al Mondiale del ‘78 dove Rossi diventa Pablito. 
«E quella squadra era già molto forte. Arrivammo quasi a un soffio dal titolo. Io stesso non fui impeccabile su alcuni tiri da fuori, ma Paolo si mostrò al mondo a soli 22 anni».
Dunque la squalifica per il calcioscommesse di Rossi, che ritrova compagno alla Juve.
«E lì fu bravissimo a rialzarsi dopo quella mazzata incredibile. Quasi due anni fuori dal campo, con gente che ti giudica senza manco sapere. Rientrò un paio di mesi prima del Mondiale. Non era facile».
E coraggioso pure il c.t. Bearzot a puntare su di lui e anche su lei quarantenne ritenuto ormai vecchio e superato...
«Chi conosceva bene Bearzot, la sua onestà intellettuale, la competenza, la capacità di valutare gli uomini, non poteva essere sorpreso. E infatti fra noi, come già in Argentina, creò un gruppo eccezionale. Forte moralmente prima ancora di scendere in campo».
Complicata però quell’esperienza, almeno in avvio. Con il c.t. che cacciò dalla sede del ritiro un giornalista che aveva alzato la voce. 
«Un segno che diede alla squadra mostrando la sua piena fiducia. Il giornalista faceva parte di un gruppo romano che allora criticò l’esclusione del romanista Pruzzo, capocannoniere in campionato, per scegliere Paolo. Le critiche ci saranno sempre nel calcio, ma Bearzot ci diede la grande lezione di puntare sugli uomini prima che sui calciatori».
E scelse Zoff e Rossi.
«Noi lo sapevamo e ci sentivamo maggiormente uniti dal senso di responsabilità. Le pressioni erano tante. Ma Bearzot aveva visto bene scegliendo quegli uomini, e non parlo solo di Paolo e me».
Contro il Brasile la partita perfetta. Pablito fa tre gol, lei blocca con una mano sulla linea il colpo di testa di Oscar che valeva il 3-3 e significava eliminazione per l’Italia.
«Il Brasile era dato favorito ma noi non ci sentivamo inferiori e sapevamo di poter vincere. Paolo fu straordinario. Io? Certo, la mia parata più bella. Forse la più importante, ma quel giorno Rossi avrebbe segnato probabilmente anche il quarto gol. Sempre uno in più di loro...».
Con Paolo ha giocato anche la sua ultima stagione in campo, successiva al Mondiale.
«E abbiamo anche condiviso la grande delusione per la finale di Coppa dei Campioni persa contro l’Amburgo. Del resto lo sport è questo. Devi anche saper perdere. Di Paolo mi resterà sempre impressa la sua velocità pure in allenamento, quando in una frazione di secondo castigava difensori e portiere. Velocità che era anche di pensiero. Di una persona intelligente e sensibile che aveva preferito non parlare della sua malattia. Tanto da sorprenderci una volta in più».
Bearzot, Scirea e Rossi: come se li immagina ora?
«In un luogo dei giusti. Dove spero possano godere di quanto si sono meritati in vita».

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Giuliano Ferrara, Il Foglio
La morte di Paolo Rossi, amabile goleador della Nazionale campione del mondo, addolora in sé e come scansione del tempo. Si tira dietro la riproposizione in prima dell’Italia degli anni Ottanta al suo esordio. Quando chi dirige, sviluppa, cambia e irrobustisce questo giornale appena nasceva, e coloro che lo hanno fondato un quarto di secolo fa avevano trent’anni già compiuti, bene o male, più male che bene (ovvio). Riecco Pertini, lo scopone, i governi Spadolini II, Fanfani V, l’imminente svolta dell’esecutivo Craxi in folla con i Bearzot, gli Zoff, i Tardelli e Freddie Mercury, tanto per cantare. Con il telefono a gettone, i sindacati, gli operai, i turni, il Pci che celebra i cent’anni l’anno prossimo a tanto tempo dalla dipartita, gli ineleganti calzoncini corti dei calciatori in un mondo bianco dove non si vedeva ancora il geniale, talentuoso ma ingombrante testone di un Lukaku. Niente virus prostranti, al massimo passate batteriche di colera. Non furono male quegli anni, sebbene non proprio formidabili, bisogna vantarsi solo del futuro, che almeno non c’è e la vanteria ci lascia passabilmente sobri.
Il terrorismo era in fase calante dopo i successi sanguinosi del decennio precedente, i governi italiani fino a Bettino duravano poco e realizzavano abbastanza, le comari litigavano, il socialismo era un mito politico e di liberali c’erano solo piemontesi al Barolo e Pannella, gran rompicoglioni della Repubblica. La chiesa era appena caduta nelle mani capaci e combattive di un santo gran figura di teatro e di un teologo geniale, nel cocktail giovanpaolino e ratzingeriano si agitavano Cristo, fede e ragione. L’Europa era un serpente senza moneta, ristretto, e l’America si godeva Reagan mentre in Russia regnava il Politburo e in Cina il solforoso Deng preparava la rinascita liberalturbocomunista. Esplodevano contemporaneamente la famiglia, i consumi, l’aborto, la Borsa, la rivoluzione della proprietà popolare della Thatcher, e i salari livellati dal sindacalismo Lama-Agnelli della scala mobile furono rimessi in corsa emulativa dal decreto Craxi e dal referendum in cui i cittadini votarono a favore di un taglio dell’assistenza e di una riforma del capitalismo, come si dice ora, guidata da un socialista autonomista che esercitava egemonia sui democristiani di De Mita e sulle terze forze. Un guazzabuglio. 
Come si dice nel calcio e nel tennis, l’Italia entrava di nuovo in fiducia, dopo le illusioni e la sbornia e le tempeste di fuoco degli anni Settanta. E al comunitarismo classista delle ideologie si sostituiva gradualmente un nuovo individualismo poi consacrato dalla distruzione del sistema chiuso del comunismo di matrice sovietica e dal provvisorio trionfo della società aperta (c’era già un Soros a fare scuola a suo modo). Di quella fiducia e di quella corsa dell’Io oggi sembra restare poco, tutti sono confluiti a quanto pare o rifluiti nel Noi e nell’Altro, il mondo com’è per certi aspetti sconcerta, ma nel gioco ciclico della storia, che è lineare fino a un certo punto, i calci al pallone del furetto Paolo Rossi furono avvio di un’epoca di cui siamo ancora tributari. La trasformazione pretecnologica ebbe un prezzo, tutto negli anni Ottanta aveva un prezzo, ma ciascuno era convinto di poterlo pagare. Questa la differenza o, come si dice nel calcio e nel tennis, e anche nel rugby e in ogni altro sport, è ciò che fa la differenza.

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Nino Minoliti, La Gazzetta dello Sport
L’aveva voluto sottolineare anche nell’ultima intervista alla “Gazzetta”, dedicata proprio a quella esperienza irripetibile: «Il periodo di Vicenza è stato il più felice della mia vita». E del resto, le imprese di Paolo Rossi col “Real Vicenza”, come venne ribattezzata la squadra costruita e diretta da G.B. Fabbri, sono rimaste scolpite nella storia del nostro calcio e nella memoria di chi ne è stato testimone: stagione 1977-78, secondo posto in campionato alle spalle della Juventus, tuttora il miglior risultato di una neopromossa (quel Vicenza veniva dalla B!) in Serie A, attacco più prolifico del campionato (50 gol), Rossi capocannoniere con 24 reti e conseguente passaporto azzurro per il Mondiale in Argentina, dove Paolo sarebbe diventato per sempre Pablito.
Ma cos’aveva di speciale quella squadra? Semplice: giocava bene. Raccontava Fabbri che una domenica in spogliatoio (allora si poteva) arrivò il grande Gianni Brera: «Venne a congratularsi e fu un onore. Mi disse: “Non avrei mai creduto che una squadra di provincia giocasse al calcio come ha giocato il Vicenza”». A distanza di pochi anni dalla Lazio di Tommaso Maestrelli, il nostro movimento assisteva a un altro piccolo miracolo: fatto di agonismo e al contempo di immaginazione, di concretezza e di estro, di difensori che impostavano e segnavano e di “tuttocampisti” che anticipavano di quarant’anni modelli contemporanei. E, naturalmente, di un attaccante speciale, Rossi appunto, nato ala destra e che proprio Fabbri spostò al centro dell’attacco, un po’ per necessità - il titolare Vitali si era reso improvvisamente indisponibile - e molto per intuito. Prove generali nel vittorioso campionato di B ed esplosione definitiva l’anno successivo, quando al gruppo che aveva trionfato tra i cadetti si aggiunsero i polmoni di Mario Guidetti, un Marchisio ante litteram che oltre al dinamismo dava un prezioso contributo di gol (furono 6 in quella stagione). Un gruppo in cui la fantasia mancina di Franco Cerilli, il trequartista, trovò l’ambiente giusto dove liberare il proprio talento. E poi i polmoni di Roberto Filippi, che con le sue sgroppate sulla fascia terremotava le difese avversarie, la sicurezza del libero Giorgio Carrera, che senza i tanti infortuni avrebbe sicuramente raccolto molte altre soddisfazioni, la sapienza del regista Giancarlo Salvi, il metronomo, l’esuberanza dei terzini Vito Callioni (3 gol) e Giuseppe Lelj, la tenacia dello stopper Valeriano Prestanti (3 reti pure per lui), la concretezza della mezzala Renato Faloppa (a segno 4 volte) e il rendimento costante del portiere Ernesto Galli, anche lui purtroppo scomparso di recente. Una cavalcata sorprendente, partita tra qualche titubanza (3 punti nelle prime 5 partite) e poi diventata quasi inarrestabile. Un’impresa che stupì il nostro calcio e piacque alla gente, tanto che quel Vicenza raccolse applausi ovunque, come per esempio accadde a Roma contro la Lazio e a Napoli, dove pure i padroni di casa vennero battuti rispettivamente per 3-1 e 4-1. E se di quella favola, Fabbri - premiato poi con il Seminatore d’Oro - fu lo scrittore-narratore, Rossi, con la freschezza dei suoi 21 anni e i lampi dei suoi gol, ne divenne il simbolo. Era nata una stella, che nel 1982 avrebbe abbagliato il mondo.