Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 11 Venerdì calendario

Berlino Est resuscita in mille souvenir

Ce n’erano di tutti i colori, snello, aerodinamico e con il piattino incorporato. Si chiamava Eierbecher, aveva la sagoma di una gallina, becco in avanti, coda all’indietro, in mezzo la pancia e il posto per l’uovo, sodo o alla coque. Trasmetteva l’idea della colazione in famiglia, è stato uno degli oggetti simbolici del passaggio, un’icona della quotidianità nella Germania Est comunista convertito in brand commerciale della Germania unificata. Si trova nei negozi di souvenir, a Est come a Ovest, ormai privo di carica ideologica ma testimone di un travaso di segni compiuto tra le due Berlino. Come le sportine nere, i pelapatate della nonna, i giocattoli di legno, i burattini di stoffa, i garofani di plastica.
Tra le «Délicatessen» dei reparti alimentari di tutti i supermercati si trovano i cetrioli «Spreewald», vero oggetto transizionale tra generazioni nel film Good bye Lenin, o la «Nudossi», la Nutella dell’Est, Kakao Creme, spalamabile, 36% di nocciole (il triplo dell’originale). Dal comunismo al consumismo.
Ognuno di questi oggetti vive grazie a un’anima nascosta, che incorpora la storia della città, oggi libera di zigzagare attraverso la traccia in cubetti di porfido che sul suolo di Berlino ricorda il percorso di quel muro che ha diviso due mondi tra il 1961 e il 1989. L’innesto più simbolico è davanti all’Hamburger Banhof (la vecchia stazione di Amburgo) centro di arte contemporanea, dove in un residuo pannello di quel muro è stato installato un bancomat.
Nessuna di questi oggetti avrebbe il minimo valore, se non contenesse quella storia. Come diceva la trapezista nel più famoso film di Wim Wenders: «In questa città non ci si può perdere, si arriva sempre al muro». Era vero allora quando volavano gli angeli nel Cielo sopra Berlino; ed in parte è vero anche adesso, perché inevitabilmente si inciampa in una memoria del muro, pur essendo la città-cantiere (Baustelle-Stadt) per eccellenza che si demolisce e si ricostruisce in un continuo divenire. E senza che nessuno si faccia troppi problemi di skyline, visto che sono stati appena stati approvati i progetti per vari grattacieli sulla spianata di Alexanderplatz, dove ancora si trova il monumento a Marx e Engels, seduti, l’uno accanto all’altro, come due placidi pensionati.
Città marchiata dagli opposti totalitarismi del Novecento, laboratorio di simboli, ibrido di culture dove il più raffinato rigore ispirato al Bauhaus si accompagna al kitsch più pacchiano, personificato nelle due controfigure dei soldati americano e sovietico che si offrono ai selfie dei turisti al checkpoint Charlie. In 30 anni, dal mitico 1989 a oggi, il travaso di insegne, colori, umori e perfino odori è stato intenso. «Ostalgie» e «Wostalgie», due forme speculari di nostalgia per la Ddr, vista rispettivamente da Est e da Ovest, hanno trasformato in oggetti di culto i relitti di un mondo estinto.
Gian Piero Piretto, grande studioso di cultura visuale russa e dunque dell’intreccio tra politica e comunicazione, ha dedicato il suo nuovo saggio alla capitale tedesca (Vagabondare a Berlino, con illustrazioni di Manuele Fior, edito da Raffaello Cortina), seguendo il metodo del flâneur, il camminatore solitario, il silenzioso spettatore della vita di strada celebrato (a Parigi, però) dal filosofo berlinese Walter Benjamin. Chilometri e chilometri percorsi tra vie e angoli di assoluta quiete (dove il limite di velocità per le auto è di 10 km all’ora), che si alternano a punti di concitato traffico metropolitano. Non è città dal fascino magniloquente, come la capitale francese, o Londra o San Pietroburgo. Per godersela ci vuole un po’ di storia sul fondo, disponibilità alla fenomenologia classica, romantica, anarchica, pop, techno, punk… Bisogna sapere che dietro l’angolo può apparire all’improvviso uno squarcio di morboso squallore, che c’è sempre una gru sull’orizzonte, che si deve far attenzione alle biciclette silenziose e assassine sulle piste ciclabili spesso in condivisione con i pedoni sui larghi marciapiedi.
Il libro di Piretto si può leggere come una guida a un metodo di fruizione della città: smartphone e GoogleMaps spenti, penna e taccuino in tasca. Si consiglia di essere pronti a tutto, perché buttarsi per strada vuol dire «sposarsi alla folla», come diceva Baudelaire: l’innamorato della vita «entra nella folla come in un’immensa centrale elettrica».
In quel cantiere permanente la memoria della città è un inciampo continuo, perché viene custodita con «ossessione», come dice Piretto. Per questo va attraversata come si sfoglia un libro: di quartiere in quartiere cambiano le facce, gli abiti, le insegne. La Karl Marx Allee si chiama ancora così, come pure la Buchhandlung, la libreria dove finisce Le vite degli altri, il più emblematico e straziante film di quel passaggio d’epoca. Il negozio non c’è più, ma l’insegna è rimasta e quella grafica è stata copiata per altre insegne nell’Ovest. Su una parete di una casa della Schlesischestrasse che guardava oltre il muro, nel quartiere turco di Kreuzberg, dove qualcuno aveva scritto «Bonjour tristesse», s’è aggiunta un’altra scritta: «Bitte Lebn», per favore vivete. E vale ora per tutta Berlino.