Corriere della Sera, 11 dicembre 2020
L’ultima intervista a Paolo Rossi
Il 2 marzo scorso, alla sua maniera, guidando scanzonato tra le colline di Bucine con la linea che andava e veniva, Paolo Rossi ci aveva dato questa intervista. Era destinata a un inserto del «Corriere della Sera» che, causa lockdown, non ha mai visto la luce. La pubblichiamo perché, dentro, c’è tutto Pablito. Origini, amori, sogni realizzati e ancora da sognare. L’insostenibile leggerezza dell’essere Paolo Rossi: da Prato al mondo senza prendersi troppo sul serio.
«Sono nato in casa di domenica alle tre, mentre mio padre ascoltava la telecronaca della Fiorentina», racconta in «Quanto dura un attimo», la biografia firmata con la moglie Federica Cappelletti. Il destino già scritto di un Paolo Rossi non qualunque. Sono passati 38 anni dal giro di campo al Bernabeu accanto a Zoff serissimo, Causio a petto nudo, Selvaggi e Massaro con la tuta delle riserve, Tardelli rauco per l’urlo, Bergomi baffuto, Bearzot venerabile vecio. La notte più bella della nostra vita. E della sua.
Come è stata l’infanzia di un bambino venuto al mondo il 23 settembre ‘56, l’anno dei Giochi di Cortina, della prima seduta della Corte Costituzionale, dell’Oscar alla Magnani, dell’affondamento dell’Andrea Doria?
«Felicissima. Papà Vittorio ragioniere in una ditta di tessuti, mamma Amelia sarta. La casa era un porto di mare: io entravo e uscivo per andare nel campo di ulivi, lì accanto, a giocare a pallone».
Mai avuta la tentazione di diventare qualcos’altro?
«L’idea di fare l’astronauta l’ho avuta: l’immagine di Neil Armstrong sulla luna, il 20 luglio ‘69, mi rimase scolpita dentro. Avevo 12 anni. Nonno, ma come hanno fatto? E lui: hanno asfaltato la strada e sono andati su… Geniale!».
Che potere esercitò su di lei un pallone che rotola?
«Essere magrolino non è mai stato un impedimento: era un calcio diverso, si poteva sopperire con altre doti. Quando mi sono diplomato in ragioneria, ho letto negli occhi dei miei il desiderio che mi trovassi un posto sicuro, con la tredicesima e la quattordicesima a fine anno: la banca. Ma io volevo il calcio».
Il sacrificio più grande?
«I sacrifici li fa chi lavora in miniera. Il calcio è stato prima un piacere, poi una graditissima professione. Il sacrificio lo fece la mia famiglia: vedermi uscire di casa a 15 anni, senza sapere se e quando sarei tornato. Mia madre so che ha sofferto. Ma lì prevalse il bene per il figlio: lasciamolo fare la sua strada, si disse».
Moderna, mamma.
«Mah in realtà eravamo una famiglia tradizionalista, però i miei non sono mai stati invadenti. Un miracolo, se penso a certi genitori oggi».
Come li ricompensò con i primi guadagni?
«Alla Juve comprai una Fiat 127 per papà, scontata al 50%. Ma il nostro affetto non è mai stato fatto di cose materiali. Si viveva, molto dignitosamente, di quello che c’era».
Quali valori dei suoi genitori ha voluto passare ai figli?
«La semplicità: per me è un valore. I miei erano così facili da leggere, da interpretare: onesti, con principi importanti. E così sono io con i miei tre figli. Da papà ho preso la precisione nel fare le cose, da mamma volontà e bontà».
Paolo Rossi è un papà ingombrante?
«In famiglia ho sempre cercato di sminuire le conquiste dello sport, però senza sentirmi in colpa: mi piaceva il calcio e ho provato a vincere tutto quello che potevo. Alessandro ha 38 anni, è nato nell’anno del Mundial: forse è quello che ha patito di più la mia popolarità. Maria Vittoria e Sofia Elena sono cresciute con il Pallone d’oro come soprammobile, scherzandoci sopra».
Di cosa va più fiero?
«Della famiglia, e non è retorica. Se sei sereno dentro casa, hai tutto. Alla fine è la vita quotidiana che ti riempie, non un Mondiale, per quanto straordinario. Quello evapora. Ho il privilegio di poter fare ciò che mi piace: la scuola calcio, l’agriturismo, il vino, la tv, il cda del Vicenza Calcio».
Il cimelio a cui è più legato?
«La maglia azzurra numero 20 della partita contro il Brasile, quella della tripletta al Mundial. Ho raccolto i cimeli in una mostra itinerante, due tir che vanno in giro per l’Italia. Ho richieste da Dubai!».
Tornando indietro rifarebbe tutto, Paolo?
«Ogni singola cosa. A cercare il pelo nell’uovo vorrei rigiocare il Mondiale ‘78 in Argentina: quell’Italia in finale poteva arrivarci. Però è vero che il Mondiale perso è servito a vincere il titolo nell’82, che tanta gioia ha regalato».
E tra mille anni come vorrebbe essere ricordato?
«Come Pablito. O Paolorossi. Tutto attaccato».