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 2020  dicembre 09 Mercoledì calendario

Ritratto di Vitaliano Trevisan

Quando ci vedevamo a Sermide, Vitaliano Trevisan arrivava in moto. Aveva una Bmw grigio metallizzata da strada. Penso fosse un modello degli anni Ottanta. Una strana Bmw dal serbatoio enorme, molto adatta a lui. Veniva giù da Vicenza per le strade basse: Alte Ceccato, Lonigo, Legnago. Di solito la sera avremmo fatto una presentazione da qualche parte. Aveva già scritto quella raffica di pensieri nella testa dei protagonisti maschili che erano Quindicimila passi e Un mondo meraviglioso. Lì in mezzo aveva pubblicato dei racconti per Theoria intitolati Trio senza pianoforte che Giulio Mozzi mi aveva fatto leggere in una versione tipografica, penso autoprodotta. Anzi no, di Trio senza pianoforte mi fece leggere, in fotocopia, solo Uccelli. Ordinai successivamente in biblioteca Trio senza pianoforte e lo lessi dopo gli altri due. La bibliotecaria di Sermide prendeva nota dei libri che chiedevo di acquistare. Sceglievo libri «strani», diceva.
Vit arrivava a Sermide e di solito dormiva da Giulio&Stefano che lo ospitavano a casa loro in campagna. Trevisan è uno che non parla molto, e quando ascolta ti interrompe e spesso ti contraddice. Parla a denti stretti, muove solo le labbra, non so se ci avete fatto caso. E fuma le sigarette fatte da lui con cartine e tabacco. Ingenuamente Giulio di Giulio&Stefano gli faceva domande di ogni tipo: letteratura, musica, poesia. Lui rispondeva a monosillabi, ma con fastidio. Eppure è uno che, a suo modo, ti vuole bene. Alle presentazioni era glaciale. Io le prime volte facevo brevi introduzioni, per dare più spazio allo scrittore. Con gli altri funziona, anzi alcuni non riesci a interromperli nemmeno con le bombe. Con Trevisan no. Taceva. Poi quando mi accorsi che in 5 minuti avevo esaurito tutte le domande e lui rispondeva sempre «Sì», «No», «Può darsi», allora aumentai il minutaggio delle mie introduzioni.
Grosso problema questo di parlare molto dei suoi libri perché spesso, in pubblico, ti segava le gambe. In effetti aveva ragione lui: più si parla e più aumenta il rischio di spararle grosse. C’era poco da dire: Thomas, il protagonista di Un mondo meraviglioso in un lungo monologo parlava di sé, delle ossessioni di una società, la nostra e quella veneta in particolare. Parlava del padre, del lavoro. Diceva già tutto Thomas e cioè Trevisan, e quel Veneto era il Veneto che c’è in qualsiasi luogo agricolo-industriale che si può trovare in ogni parte del nostro Occidente in caduta libera. Il Veneto francese, il Veneto tedesco, il Veneto austriaco, il Veneto inglese erano raccontati con minuzia e maestria in quel libro. La scrittura era precisa, ma si sentiva che era un libro scritto con rabbia e velocità. Cosa ci trovavo? Ci vedevo la collera e i prefabbricati e la testa della gente. Parlo appositamente di testa e non di cervello perché un giorno Trevisan sparò una frase sibillina: «La gente ha testa, non ha cervello».
Agli incontri non te ne faceva passare una. Era un bel bagno di umiltà parlare con lui in pubblico, perché bene o male chi lo presentava faceva sempre un po’ la figura del coglione e a me serviva per forgiarmi. Con Trevisan passare per coglione era un attimo. Che ne so, partivi con: «Il tuo romanzo Quindicimila passi...» e lui: «Non mi sembra un romanzo...» «Come no? Non è un romanzo?» e lui: «Per me romanzo non significa niente...» Sbam! Intanto fuori dal contesto pubblico si fumava e si beveva. Rosso per Vit. Rosso fermo. Adesso sono qui che mi chiedo: «Ma Trevisan mangiava?» perché in ogni contesto in cui ci vedevamo, in ogni luogo di ristoro, non ricordo di averlo visto aprire bocca per mangiare. Forse da Giulio&Stefano un po’ di farro o orzo con verdure, ma non ne sono sicuro. Quando facevo il suo nome per qualche presentazione, tutti a dire: «Eh ma lo presenti tu Trevisan eh!». Avevano il terrore. Non fa piacere a nessuno passare per coglione, ma io ero abituato e mi piaceva spararle per essere contraddetto. Era il periodo in cui stava per uscire il suo libro di brevissimi racconti Shorts con due tremendi e bellissimi testi che parlavano rispettivamente di ghiri che urlavano e morivano tra le grondaie di una casa di montagna e di un operaio ferito a un occhio da una sparachiodi difettosa della Hilti. Lì in mezzo c’è racchiuso tutto il Trevisan che ho in mente io: lo scrittore che vede la crudeltà e la sa raccontare, lo scrittore che racconta quanto può essere spietato il caso. Vabbé, sono sicuro che adesso mi contraddice perché ho detto che il caso è spietato mentre so benissimo che il caso è il caso e basta.
In un certo periodo della sua vita ha fatto il lattoniere, in un altro periodo della sua vita ha fatto il portiere d’albergo. Io l’ho conosciuto proprio quando faceva il lattoniere che poi, a ben pensarci, non sapevo nemmeno che lavoro fosse, ma nel frattempo avevo capito che per evitare lunghi silenzi in pubblico, frasi smozzicate, denti stretti, Trevisan preferiva leggere. Mentre leggeva era uno spasso. Lo si poteva vedere in due versioni: Trevisan con t-shirt nera e jeans neri. Trevisan con jeans neri e maglione nero. Le scarpe erano sempre delle specie di stivaletti neri con suola in gomma. In entrambe le versioni leggeva molto bene, con un’inflessione vicentina appena accennata, per niente fastidiosa.
Anche nel libro Quindicimila passi c’è Thomas. Anche qui Thomas cammina molto. Nel testo Thomas sta andando da un notaio perché gli verrà letto un testamento. Anche qui un guazzabuglio di pensieri straordinari, di indimenticabili freak, di sorelle e padri. Un giorno venne a Sermide perché avevo organizzato al bar della stazione un incontro con lui. Era il periodo in cui c’era Primo amore di Garrone al cinema. Al Capitol in quel fine settimana davano proprio quel film. Era arrivato in moto. Lì a Sermide, dove adesso c’è un negozio di ottica, c’era un bar in cui potevi collegarti a Internet. Si chiamava Netcafe e lo gestiva una ragazza sudamericana. Nel 2004 un bar con Internet era l’avanguardia. Andammo a fare colazione lì e Trevisan si intrattenne a parlare con questa ragazza sgargiante. Scherzavamo sul fatto che il protagonista di un film di Garrone, il protagonista del film che avrebbero proiettato al cinema Capitol, ora era lì a bersi un caffè e a mangiare un cornetto decongelato. Mi sembrava per la prima volta garrulo. Parlava. A denti stretti, ma parlava. Mi disse che aveva letto da poco Aut-Aut di Søren Kierkegaard. Mi disse che non era per niente d’accordo con l’idea di mantenere interessante la propria vita per poter scrivere.
Trevisan è talmente complesso da dirti una cosa e presupporne altre. All’interno di Aut-Aut c’era un saggio intitolato Primo amore, come il film di cui era protagonista. Trevisan non è uno che ti spiega la rava e la fava, ma quando cita e dice le cose, hanno sempre un senso. È così anche nella sua scrittura: dice alcune cose e hanno sempre senso. Per me il suo Works racchiude tutti i libri scritti fino a quel momento. Anche se lì la scrittura è meno sporca, meno buttata lì, più meditata. Works è il libro dei libri di Trevisan. Per capirlo però bisogna leggere tutti gli altri. Più che altro la cosa migliore da fare con Trevisan, è stare in silenzio. Compiere gesti. Tirare fuori la bombola dell’acetilene e mettersi a saldare con lui. Secondo me Vitaliano Trevisan è l’unico scrittore italiano capace di saldare a filo e con l’acetilene. Potrei scommetterci!