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 2020  dicembre 09 Mercoledì calendario

QQAN80 Gli eroi del calcio negli album Panini

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Viale Emilio Po 380, Modena. L’indirizzo è scolpito nella memoria di almeno tre generazioni di vecchi bambini. È il luogo al quale si scriveva per chiedere le figurine mancanti o i regali guadagnati impilando le valide e le bisvalide. Letterine scritte a mano alle quali arrivava sempre una risposta, in una busta marchiata dal guerriero con la lunga lancia che da sempre caratterizza il logo Panini.
«Spesso da quell’indirizzo passavano i campioni: Riva, Mazzola, Rivera. Per noi era come il Vaticano», ricorda Leo Turrini, emiliano di Sassuolo, uno di quei vecchi bambini, che oggi ha scritto Panini, storia di una famiglia e di tante figurine (Minerva Edizioni), un’epopea che rivela come ci sia stato un tempo in cui il «sogno americano» poteva avverarsi anche nel cuore della Pianura padana.
Tutto comincia quando la guerra sta per finire. «All’alba del 6 gennaio 1945», racconta Umberto Panini in una delle molte interviste raccolte negli anni citate da Turrini, «noi due fratelli più piccoli, Franco e io (27 anni in due, pantaloni corti e calzettoni fatti in casa) andammo insieme ad aprire il chioschetto. Venimmo incaricati noi due perché Franco aveva una certa esperienza nel settore, era infatti garzone presso la cartoleria Gialuppi...».
Il «chioschetto» era una piccola edicola in piazza Duomo a Modena, che Olga Panini, vedova e madre di 8 figli, fece la follia di comprare in quei tempi bui, quando i giornali censurati dal regime in rovina non li voleva nessuno. Una scommessa visionaria, vinta qualche mese dopo, quando la voglia di libertà portò con sé la voglia di leggere e il progressivo benessere regalò ai bambini qualche spicciolo da dedicare al divertimento.
Se a Modena c’era Olga, a Milano viveva Luisa «Nannina» Grossi, un’altra donna intraprendente che pubblicava immaginette un po’ raffazzonate dei calciatori fin dal 1947. Nel ’60, Giuseppe Panini, il più grande degli otto fratelli, salì a Milano e comprò un lotto di figurine invendute, le fece imbustare a mano dai parenti e cominciò a distribuirle nel «chioschetto».
È l’inizio di una saga che nel giro di vent’anni avrebbe portato il «garzone di Gialuppi», a parlare da pari a pari con Roy Disney e i vertici della Rai. Una storia che racconta di macchine mai viste prima, come la «Fifimatic» per mescolare e infilare nelle bustine milioni di figurine. Di album a colori dedicate ai serial che la tv trasmetteva in bianco e nero («Almeno così qualcuno potrà vedermi con i capelli azzurri», dirà Gina Lollobrigida, la Fata Turchina del Pinocchio di Comencini). Di calciatori passati alla storia più come figurine che da giocatori: «Una volta incontrai a Gerusalemme monsignor Pizzaballa, il custode della Terra Santa», racconta Turrini. «Trovai che assomigliava moltissimo a Pierluigi Pizzaballa, il pezzo introvabile del ’64. Gli chiesi se erano parenti, rispose che erano cugini e che non ero il primo a fargli quella domanda».
Quella dei Panini è una dinasty dai sapori olivettiani («Nessun operaio perderà mai il lavoro per colpa di una macchina»), dove i valori romantici hanno sempre avuto il loro peso. Come nella prima raccolta, quando i fratelli vollero pubblicare le figurine del Grande Torino, 12 anni dopo la tragedia: «Immaginammo che un bambino, trovato il volto di Gabetto o di Loik, sarebbe andato dal papà a domandare chi fossero. E allora il padre gli avrebbe raccontato la leggenda. E la storia non sarebbe mai andata persa».
Oggi i fratelli non ci sono più, e il marchio Panini è diventato un brand internazionale che, per gli strani giri della finanza, ha unito sotto un’unica insegna anche le altre passioni dei vecchi bambini: Topolino e i Supereroi. La sede è sempre quella di viale Emilio Po. Ed è bello pensare che all’indirizzo che era stato di Pelè e Gigi Riva, oggi Messi e Ronaldo convivano con Spiderman e Paperino.