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 2020  dicembre 09 Mercoledì calendario

Mankiewicz come Flaiano, vita da uomo nell’ombra

Un passo indietro, tra le quinte, lontano dai riflettori. Nell’arte succede spesso, la genesi dei capolavori, attribuita agli autori celebrati, andrebbe condivisa con altri nomi meno noti, trascurati, talvolta caduti nell’oblio, ma non per questo meno cruciali. Succede in Mank, il magnifico affresco in bianco e nero con cui David Fincher ridisegna la nascita di uno dei film più importanti della storia del cinema, Quarto Potere, in linea con le convinzioni della critica Pauline Kael, nel suo saggio del 1971: i meriti dell’opera sarebbero da ascrivere, in massima parte, allo sceneggiatore di origine tedesca Herman Mankiewicz. Bevitore accanito, irrequieto, brillante, cinico fino all’autolesionismo, «Mank», interpretato da Gary Oldman con un’adesione spirituale ben oltre la bravura attoriale, campeggia nel film con la potenza del suo estro, relegando per una volta nell’angolo il personaggio di Orson Welles (Tom Burke) che appare, invece, come un giovane avido, pronto a mettere le mani su una materia non sua.

Quelle liti per La Dolce Vita
Le polemiche su questa rappresentazione inedita accompagneranno Mank lungo il cammino verso l’Oscar ma riapriranno anche tanti casi simili. Accade di frequente che idee vincenti vengano concentrate su un solo nome, tralasciando chi le ha realmente ispirate. Nel rapporto tra Ennio Flaiano e Federico Fellini l’avvio del risentimento del primo nei confronti del secondo, risale ai tempi dei Vitelloni che, a detta di molti, avrebbe potuto essere ambientato non solo a Rimini, città del Maestro, ma anche a Pescara, città dello sceneggiatore. Lo stesso vale per la scintilla creativa della Dolce Vita, trasferita sul grande schermo a partire proprio dalle memorie autobiografiche di Flaiano. Gli screzi culminarono con l’allontanamento tra i due, dopo i tentativi di collaborare per Giulietta degli spiriti: «Poco alla volta - scrive Tullio Kezich in Federico Fellini, la vita, i film (Feltrinelli) - Fellini si è fatto l’idea che Ennio sta covando nei suoi confronti una strana gelosia, non tanto personale, quanto da uomo di lettere di fronte all’uomo di cinema; e lo scrittore va ripetendo in giro che Fellini si è montato la testa. Da una parte Ennio si lamenta che Federico non lo consulta, dall’altra il regista deplora che lo sceneggiatore non scriva».

Il tempo non cancella
Il tempo non cancella le cicatrici, anzi, guardate da lontano, le divergenze spiccano. Nella celebre intervista di Peter Bogdanovich, riportata nel libro Io, Orson Welles (Baldini&Castoldi), il regista di Quarto potere ammette l’enormità del contributo di Mankiewicz definendolo «il più amareggiato, il più deluso, il più divertente» tra gli sceneggiatori. La collaborazione tra i due era stata turbolenta, e Welles non ne fa mistero: «...alla fine ho lasciato Mank lavorare da solo, perdevamo troppo tempo in litigi. Così, dopo un accordo di massima su trama e personaggi, Mank se ne andò via e scrisse la sua versione, mentre io restavo a Hollywood a scrivere la mia». Immobilizzato dall’ingessatura di una gamba, assistito dalla segretaria (Lily Collins), Mank, in perenne lotta contro la lusinga dell’alcool, stende, nel film di Fincher, la sceneggiatura di Citizen Kane. «Alla fine dei conti - dirà Welles implacabile a Bogdanovich -, ero io che facevo il film, che dovevo prendere le decisioni. Della versione di Mank ho usato quello che volevo, e ho tenuto, a torto o a ragione, quello che mi piaceva della mia».