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 2020  dicembre 08 Martedì calendario

Lo sciopero dei contadini in India

Proprio quando la lotta di classe sembrava morta, inchiodata alla bara e sepolta per sempre, ecco che invece, nella democrazia più popolosa del mondo, rialza la testa partendo proprio dai campi, dalle campagne e da quei pittoreschi e variopinti mercati dei contadini.
In India, quest’autunno, tre leggi del governo di destra di Narendra Modi hanno scatenato le proteste del settore agricolo che, dopo una prima ondata di manifestazioni a settembre, sono tornati a indire il più grande sciopero nazionale mai organizzato nella storia, con la mobilitazione di 250 milioni di agricoltori in tutto il Paese.
Dopo le controverse leggi neoliberiste mirate ad abbattere il prezzo garantito per frutta e ortaggi nei famosi «mandi», mercati intermediari gestiti dal governo, in una prima fase le proteste erano mirate a negoziare con i governatori dei singoli Stati in quella fascia dell’India del Nord che comprende l’Haryana, l’Uttar Pradesh, il Chhattisgarh, l’Uttarakhand, l’Himachal Pradesh e soprattutto il Granaio dell’India, il Punjab. Ma, da due settimane, le carovane di decine di migliaia di contadini confluiscono da queste regioni, al grido di «Dillo Chalo!» (tutti a Delhi!), verso la capitale. Lì, hanno occupato le strade con i loro camion a rimorchio, istallando accampamenti con grandi cucine per sfamare gli scioperanti.
L’accoglienza della polizia non si è fatta attendere con le prevedibili bastonate, colpi di idranti e spintoni degli agenti sempre più violenti e bellicosi verso i manifestanti, i quali sono stati accusati d’essere «elementi anti-nazionali» dalla stampa di destra, che etichetta così chiunque critichi il governo di Delhi.
Altro che lo slogan di «giorni migliori» della campagna elettorale di Modi. «Achhe din? Ma quali "giorni felici"?», si lamenta un manovale di Ghaziabad, Sukhdev Prasad. «I datori di lavoro già ci stanno schiacciando come se ci stessero seduti sul petto. Siamo oppressi da queste riforme».
I sindacalisti che hanno organizzato l’occupazione del centro della capitale, in concomitanza con l’anniversario della Costituzione del ’49, promettono: «È solo l’inizio». La coalizione di operai, contadini, studenti, associazioni femministe e della società civile si preparano dunque a una lotta dura e senza paura che minaccia di tirare per le lunghe. Modi annuncia che aprirà ai negoziati solo quando le strade verranno liberate dai militanti. Questi ultimi dichiarano che non si muoveranno finché non inizieranno i negoziati. E intanto anche a Calcutta e a Mumbai, oltre ad altre metropoli dell’Est e Centro, nel cuore dell’India delle miniere e dell’industria, continua il «Bharat Bandh», lo sciopero nazionale. L’inverno indiano promette di essere freddo, difficile e pure in pieno rischio di contagio Covid.
Qual è il motivo del contendere? Modi giura che le sue intenzioni sono pure «come le acque del Gange» e che le tre riforme renderanno più libero e agile il mercato agricolo. In sintesi, questo «pacchetto neo-liberista», come lo definiscono i suoi detrattori, vuole consentire agli agricoltori di vendere a grossisti e ad esportatori senza intermediari. Sarebbe la fine del prezzo minimo garantito.
La seconda legge stimola l’aumento di investimenti diretti per ammodernare gli impianti del settore, che soprattutto nello stoccaggio sono ancora molto arretrati. Infine, la terza riforma si propone di promuovere il commercio dei prodotti agricoli attraverso investimenti del settori privato, costruendo catene di approvvigionamento e infrastrutture agricole.
Tutto molto bello, sulla carta. Ma nei fatti, secondo le decine di migliaia di lavoratori del settore agricolo, che pur producendo solo il 17 % del Pil dà lavoro al 60 % della popolazione, si tratta di svendere il settore agli amici di Modi, nello specifico i supermiliardari Mukesh Ambani, che con Reliance Industries è divenuto l’uomo più ricco dell’India e dell’Asia, e Gautam Adani, già implicato in uno scandalo di scambio di favori con il governo.
«La nostra terra è la nostra madre», ha dichiarato tra le lacrime l’agricoltore Mewa Singh al «New York Times», «Ci è stata data dai nostri genitori, che l’hanno ereditata dai loro genitori. E ora Modi vuole accaparrarsela per darla ai suoi amici ricchi».
Considerato che più della metà della popolazione indiana lavora nel settore agricolo, l’impatto elettorale futuro potrebbe essere forte. E difatti nel Punjab un partito si è già sfilato dalla coalizione di maggioranza del Bjp di Modi per protestare proprio contro queste riforme del settore agricolo.
Semplificazione settoriale con apertura agli investimenti privati o impoverimento ulteriore dei contadini, con l’allarmante aumento dei senza-terra, che dal 28 % del 1951 sono arrivati nel 2011 a essere il 55 % del settore agricolo? Leggi mirate a snellire un settore arcaico e mastodontico, oppure studiate per avvantaggiare le grandi aziende legate al potere? Molti sono convinti che, senza lo scudo del minimo garantito dei «mandi», altri piccoli proprietari saranno costretti a vendere alle corporation. Secondo gran parte degli studi, la corporativizzazione dell’agricoltura comporta spesso un peggioramento dei redditi agricoli. «Non esiste prova al mondo che dimostri che i prezzi di mercato avvantaggiano gli agricoltori», avverte Devinder Sharma, esperto agricolo di Chandigarh. E milioni di agricoltori infuriati sembrano essere d’accordo con lui.