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 2020  dicembre 08 Martedì calendario

La malattia nel Palazzo, da De Gasperi a Lamorgese

Ma la malattia è sempre più forte della politica; è un potere più potere di qualunque altro, specie quando si manifesta in pubblico, nel mezzo dell’azione, all’interno dei luoghi deputati e con l’aggravante decisiva dell’imponderabilità. In cuor loro potenti lo sanno così bene, e tanto ne sono atterriti, da dimenticarsene. O meglio, vivono, comandano e si regolano come se non potesse mai accadergli. È comprensibile e anche umano: la fatica fisica, le responsabilità, il consenso, le protezioni, i privilegi, le lusinghe, le beghe, tutto insomma contribuisce a fargli considerare l’ipotesi di ammalarsi come assai remota, quasi impossibile. I più determinati finiscono così per ritenersi, se non immortali, almeno invulnerabili. È ovviamente un’illusione, una specie di ansiolitico per governanti. Ecco però che anche in questo la pandemia fa saltare le regole e con esse le inconfessabili contromosse psicologiche mettendo a nudo la comune fragilità.
C’è da dire che non sempre, per fortuna, finisce tragicamente. Il caso Lamorgese, con la brusca sospensione del Consiglio dei ministri, i tamponi e l’isolamento, è un inedito assoluto. Ma nel dicembre del 1945, proprio nel momento in cui durante una riunione al Viminale, i partiti del Comitato di Liberazione stavano per varare il primo, se non il secondo governo politico, Alcide De Gasperi, che di lì a poco l’avrebbe presieduto, fra un colpo di tosse e un altro pregò i colleghi che lo scusassero un momento; “Vado a telefonare”, disse; quindi si alzò dalla sedia, si fece pallido pallido, poi si accasciò con la testa reclinata sul petto, le braccia ciondoloni, dondolandosi un po’ sulla poltrona prima che i vicini premurosi non lo sostennero. Era svenuto.
Con doverosa malizia Vittorio Gorresio sostenne che quell’incidente, con interruzione della riunione, servì non poco ad appianare i contrasti accelerando la nascita del governo. Ma in diversi altri casi la storia insegna che proprio sul confine tra sfera pubblica e privata è impossibile rinviare i conti con l’imprevedibile.
Nell’estate del 1964, al Quirinale, il presidente del Consiglio Moro e il ministro degli Esteri Saragat stavano discutendo, pare animatamente, della politica estera italiana con il Capo dello Stato quando Antonio Segni fu colpito da una trombosi cerebrale che lo mise fuorigioco per sempre. Vent’anni dopo, mentre si trovava sul palco di un comizio a Padova, capitò più o meno lo stesso a Enrico Berlinguer. Nel vivo della loro attività si ammalarono seriamente il segretario del Pci Natta, poi Bettino Craxi e poi ancora il ministro dell’Interno Gava; tutti e tre i casi ebbero considerevoli effetti sugli equilibri politici. Nel dicembre del 1999, durante le votazioni della legge Finanziaria, sui banchi di Montecitorio ebbe un fatale malore l’ex ministro Nino Andreatta.
La lunga stagione berlusconiana, con un’appendice che si estende alla figura di Bossi, è fitta di mancamenti, malanni, infermità, operazioni d’urgenza, più o meno lunghe convalescenze. In tali frangenti la vita pubblica italiana, di solito così litigiosa, è costretta ad attenuare in qualche modo i suoi tradizionali conflitti perché è impossibile prendersela con qualcuno.
Da questo punto di vista la pandemia è certo un guaio, ma se non altro colpisce tutti, senza distinzione di schieramenti. A chi tocca, tocca. Proprio in quanto più forte, la malattia nemmeno guarda in faccia il potere.