8 dicembre 2020
In morte di Lidia Menapace
Concetto Vecchio, la Repubblica
Diceva: «Bisogna avere il coraggio civile di non avere paura, per fare in modo che il luogo in cui viviamo sia il più umano possibile. Restare umani è la cosa migliore che ci possa capitare nella vita». Grande e sincero è il tributo del frastagliato mondo della sinistra a Lidia Menapace, morta a 96 anni per Covid all’ospedale di Bolzano. È stata partigiana, femminista, sessantottina, pacifista, una biografia piena di senso attraversata con la freschezza di una ragazza.
Militante fino all’ultimo, ha accettato inviti ovunque la invitassero a parlare, mantenendo lucidità politica: «Non è possibile il ritorno al fascismo» disse, ad esempio, nei giorni del trionfo salviniano, lei che il regime di Mussolini lo aveva conosciuto da vicino. Cresciuta in una famiglia di mazziniani, si era presentata giovanissima al Comitato di Liberazione nazionale del Piemonte, premettendo che non avrebbe mai portato alcuna pistola. L’arruolarono lo stesso nella convinzione che «la Resistenza non si fa solo con le armi». Staffetta nella divisione Rabellotti in Val d’Ossola, col nome di Bruna: da cattolica, come un’altra grande italiana, Tina Anselmi.
Disse a Laura Gnocchi e Gad Lerner in Noi partigiani: «Se non ci fossero state le donne non ci sarebbe stata la Resistenza. Dopo l’8 settembre furono loro a ricoverare in casa l’esercito italiano in fuga, vestendo i soldati, nutrendoli, mantenendoli ». Si era laureata a soli 21 anni alla Cattolica, e fu il latino a salvarla ad un posto di blocco: al poliziotto che la interrogava disse che doveva andare a studiare da un’amica, e tirò fuori le Tusculanae di Cicerone. «Ma va fora dai bal, ti e il tuo latinorum », la lasciò passare l’agente.
«Era un marziano», dice Luciana Castellina. «Fece infatti parte del gruppo fondatore del manifesto nel 1969, ma provenendo dalla Democrazia cristiana, non dal Pci come tutti noi». All’anagrafe Lidia Brisca, nata a Novara, era cresciuta infatti nella sinistra dc, prima donna assessore democristiana nella Provincia di Bolzano, dove nel 1952 si era trasferita per amore, prendendo il cognome del marito medico, Nene Menapace.
Il Sessantotto è un bivio per tanti. Ha 44 anni quando, da assistente alla Cattolica, si schiera con la contestazione. Il 22 gennaio 1968 firma una lettera in cui chiede al rettore, insieme a Alberto Quadrio Curzio, Tiziano Treu e Gian Enrico Rusconi, di accettare «l’aspetto positivo delle richieste studentesche». Fatale le sarà la pubblicazione di un documento, "Per una scelta marxista". Non le rinnovano il contratto, passa dall’altra parte, si candida come indipendente nel Pci alle Regionali dell’ottobre 1968. «Venne a chiederlo anche a me», ricorda Marco Boato, «ma io ero sulle barricate di Sociologia a Trento e rifiutai». Da cattolica del dissenso a cattocomunista, il destino di tanti allora, da Lucio Magri a Fortebraccio. È l’inizio di una lunga biografia extraparlamentare. Cristiani per il Socialismo, Pdup, Rifondazione comunista, Potere al popolo. «Quando — ricorda Castellina — nel marzo del 1984 Enrico Berlinguer ci chiese di tornare nel Pci, noi del manifesto rientrammo, Lidia invece no». Ieri il presidente Sergio Mattarella ha ricordato che i valori in cui Lidia Menapace ha creduto — antifascismo, libertà, democrazia, pace e uguaglianza — «sono quelli fatti propri dalla Costituzione».
Consapevole anche degli orrori del Novecento, ha ripetuto spesso: «Fuori la guerra dalla storia ». E ha mantenuto la posizione fino all’ultimo giorno. Per i suoi meriti di partigiana ottenne il grado di sottotenente che però rifiutò, insieme al riconoscimento economico: «Non ho fatto la guerra come militare e ciò che ho fatto non è monetizzabile ». C’era in lei una radicalità che non è mai venuta meno. Anche perciò ha sempre goduto del rispetto devoto del popolo di sinistra. Lo stesso puntiglio che la fece criticare, da senatrice di Rifondazione comunista, le Frecce tricolori proprio alla vigilia della sua nomina a presidente della Commissione Difesa del Senato. Era il 2006 e al suo posto venne eletto per dispetto l’allora dipietrista Sergio De Gregorio.
«Soprattutto ha saputo usare le armi della politica e della cultura», prova a sintetizzarne il valore Nichi Vendola. Merce rara in un tempo in cui la politica si è ridotta ai 140 caratteri di un tweet. In una delle sue ultime apparizioni televisive, da Giovanni Floris, nel febbraio scorso, provò a spiegare le ragioni del favore popolare dei populisti nostrani, da Salvini a Meloni, perché l’ideologia non deve mai fare velo sulla comprensione dei fenomeni, anche se non ci piacciono. Ed è questa una lezione di lucidità, una delle tante, che Lidia Menapace lascia in eredità alle nuove generazioni.
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Paolo Franchi, Corriere della Sera
Se ne è andata a novantasei anni Lidia Menapace, partigiana, cofondatrice del Manifesto, dei Cristiani per il socialismo e del Pdup, pacifista, femminista: un pezzo di storia della sinistra italiana che non ha smesso, sin quasi all’ultimo, di stare sulla breccia. Se si pensa alla sua vicenda, vengono subito in mente la Resistenza e il Sessantotto. Ma pure Papa Roncalli, il Concilio, l’errore che va distinto dall’errante, la Pacem in Terris. E Palmiro Togliatti, che il 20 marzo del 1963 scelse Bergamo per uno dei suoi discorsi più importanti, dedicato al dialogo tra i marxisti e i cattolici. Non solo la religione non è più l’oppio dei popoli, ma può diventare un potente fattore rivoluzionario: «L’aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa». Non so se quella sera, al teatro Duse, ci fosse, assieme a molti giovani sindacalisti cristiani inquieti e a molti cattolici più o meno del dissenso, anche la partigiana Lidia, all’epoca ancora democristiana. Direi proprio di no, ma fa lo stesso. Nel senso che le sue scelte di vita non si capiscono senza quel clima: grandi paure (un anno prima, nei giorni della crisi di Cuba, il mondo è stato davvero sull’orlo dell’abisso nucleare), grandi speranze (sono gli anni di papa Giovanni, di Kruscev, di Kennedy), grandi attese di cambiamento. Di tutto questo Lidia è partecipe in primissima persona. E a modo suo, pagando la fedeltà ai propri principi. La sinistra Dc le va stretta, si avvicina ai comunisti. Forse avrebbe potuto avere un futuro politico nel Pci. In ogni caso, a togliere di mezzo questa possibilità provvede il Sessantotto, che segna in modo definitivo il mezzo secolo e passa di vita che il destino ancora le riserva. Non ne condivide i furori ideologici: raramente ho conosciuto una persona capace di sostenere con tanta insistente mitezza le sue convinzioni, comprese quelle più radicali. Ma allo spirito di quella stagione resterà sempre fedele.