ItaliaOggi, 8 dicembre 2020
L’ultima erede di Dante Alighieri
Sulla scrivania, attorno alla quale scodinzolano tre simpatici golden retriever dai nomi ad alto tasso alcolico, Grappa, Gòto e Ombra, tiene una copia, farcita con post-it gialli, di A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia (Mondadori). Nel 2021 ricorre il settimo centenario dalla morte e Aldo Cazzullo, il più svelto di tutti, si è portato avanti con i compiti, consegnandoci sul gigante della Divina Commedia questo saggio da centellinare come un Amarone. «Una lettura appassionante. Appena cesserà il flagello della pandemia, inviterò il giornalista del Corriere della Sera qui a Gargagnago», si ripromette Massimilla Serègo Alighieri. Se a scriverlo fosse stata la simpatica quarantenne, avrebbe potuto intitolarlo semplicemente Lui, è così che in famiglia viene chiamato con affetto confidenziale Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante, nato a Firenze in un giorno imprecisato di maggio o di giugno del 1265 e morto in esilio a Ravenna nella notte fra il 13 e il 14 settembre 1321.Il 19 novembre 1980, nel reparto maternità dell’ospedale Sacro Cuore di Negrar, Massimilla inaugurò la ventunesima generazione discendente dal cantore della Divina Commedia. «L’équipe medica se lo ricorda ancora, quel parto, perché erano le 13 e dovette saltare il pranzo», sorride. Cinque anni dopo sarebbe arrivata la sorella Marianna. Il loro padre, il conte Pieralvise, nato a Gargagnago nel 1954, sposato con Francesca Chiarelli, è il ventesimo primogenito del casato Alighieri. La famiglia ha sempre abitato nel paesino della Valpolicella, in quelle Possessioni del Casal dei Ronchi che Pietro, primo figlio del Divino Poeta e di Gemma Donati, comperò il 23 aprile 1353 per la somma «di lire 450», sul regesto dell’epoca sta scritto così. È un complesso monumentale formato da villa, foresteria, cantina, barchesse, limonaia e varie altre pertinenze, immerso in 120 ettari di tenuta, dove i cipressi secolari sono circondati da vigneti a perdita d’occhio, compresi gli 11 miracolosamente sopravvissuti alla fillossera, il devastante parassita vegetale comparso a partire dal 1908, paragonabile per virulenza al Covid-19. Furono piantati nel 1875, in occasione della nascita di un altro conte Pieralvise, fondatore 100 anni fa della Scuola agricola a Gargagnago.
La storia della dinastia è piuttosto complicata. Francesco Alighieri, canonico a Verona, grande ingegno che tradusse e commentò tutte le opere di Vitruvio, si diede parecchio daffare per mantenere viva la progenie di Dante, violando ripetutamente la promessa di castità propria del celibato. Ma gli andò male: «ex improbo coitu» (tradotto: da un coito disonesto), come ammise nel testamento, generò tre femmine, Alighiera, Cornelia e Ortensia. Se gli fosse nato un erede maschio, avrebbe di sicuro rinunciato al canonicato. Affidate in adozione le figlie illegittime, con una dote di 1.000 ducati ciascuna, all’intraprendente prelato restava il rovello dinastico. Così nel 1563, sul letto di morte, lasciò il patrimonio, compresi i tenimenti in Valpolicella, al primogenito della nipote Ginevra Alighieri, maritata al nobiluomo Marc’Antonio Serègo. A una condizione: che egli aggiungesse il cognome Alighieri a quello dei Serègo. Il fanciullo, primo di una schiera di 15 fratelli, si chiamava, manco a dirlo, Pieralvise. Da allora, nella dinastia non si contano i nomi Dante e Pieralvise tramandati di padre in figlio.
Con lei si è interrotta la regola: Massimilla.
Ho preso il nome di una zia paterna, che si trasferì qui a Gargagnago dopo aver abitato a Roma. Si chiamava Dante il nonno. Mio padre intuì intorno agli 8 anni che c’era qualcosa d’importante nella storia di famiglia. Accadde il giorno in cui arrivò in villa un fotografo, che lo mise in posa davanti a un ritratto dell’Alighieri, una copia di quello dipinto da Giotto custodito agli Uffizi di Firenze.
Che cosa faceva nella vita suo nonno?
Il funzionario della Società delle Nazioni. Rappresentò l’Italia a Parigi e a Danzica. Al referendum istituzionale del 1946 votò per la monarchia. Si dimise per non dover giurare fedeltà alla Repubblica. Mio bisnonno Pieralvise, viticoltore, era morto da tre anni e così il figlio gli subentrò nella conduzione dei vigneti. Una scelta di campo. O di campagna, come dice mio padre.
Dev’essere stata dura per un diplomatico abituato a girare il mondo.
Penso di sì. Aveva lo stesso spirito avventuroso di Pietro Savorgnan di Brazzà, cugino di sua madre, l’esploratore che nel 1875 scoprì il Congo. La capitale Brazzaville prese il nome da lui.
Tutti fenomeni in famiglia.
Il bisnonno di mio padre, che si chiamava anche lui Dante, fu sindaco di Venezia per due mandati, fino al 1890. Aveva sposato una Venier, discendente dai dogi, ma era considerato un rivoluzionario. Istituì il primo servizio pubblico di vaporetti, un sacrilegio per i nobili abituati al gondoliere di fiducia. Fece scandalo anche la sua decisione di allargare la Calle 22 Marzo che dalla chiesa di San Moisè porta verso il ponte dell’Accademia. Ovunque a Venezia s’incontri il toponimo «calle larga», c’entra il nostro avo. Nelle vignette era raffigurato mentre taglia con un coltello la planimetria della città.
Quando sentì parlare per la prima volta della Divina Commedia?
Da bambina. Mio nonno Dante morì quando avevo 6 anni. Ero l’unica nipote, visto che la sua primogenita Ginevra partorì Andrea soltanto dopo che eravamo già nate io e mia sorella Marianna, e l’altra figlia, Fiammetta, non ebbe eredi. Era un uomo molto affettuoso. Dopo 35 anni posso svelarlo: mi dava caramelle e cioccolatini di nascosto dai miei.
Quando cominciò a studiare il poema?
Al liceo Stimate. Il docente di lettere era Emilio Cricchi, tanto odiato e tanto amato: mi spinse ad applicarmi. Ma la Divina Commedia era materia riservata al preside, don Vittorio Zanon, dantista irriducibile. Fu lui a farmela amare. Nel settembre 2019 mi ha chiamato a declamarla una volta a settimana per un gruppo di appassionati, compresi molti ragazzini. Siamo arrivati fino a metà del Purgatorio, poi è scoppiata la pandemia.
Chi le ha insegnato a recitare la Divina Commedia?
Frequento un corso di dizione per doppiatori tenuto da Laura De Biasi. E da 10 campionati sono la speaker ufficiale della Scaligera basket.
Sogna di darsi al doppiaggio dei film?
Non mi dispiacerebbe seguire le orme della grande Vittoria Febbi, la voce italiana di Liv Ullmann, Faye Dunaway, Susan Sarandon e Vanessa Redgrave. Complicato. Non è solo questione di corde vocali, ma anche di mimica facciale. Te ne accorgi doppiando Julia Roberts.
Bisogna essere anche attori.
In questo sono facilitata. Recito da 12 anni nella compagnia teatrale di Giorgio Totola. Ho interpretato le commedie goldoniane e, in mancanza di attori, una parte maschile nel Malato immaginario di Molière.
Che professione svolge?
Mi occupo di pubbliche relazioni. Rappresento nel mondo i vini Serègo Alighieri, commercializzati da Masi fin dagli anni Settanta, quando Sandro Boscaini strinse un accordo con mio nonno Dante. Quindi m’è toccato perfezionare inglese, tedesco, francese e andare a Salamanca a studiare lo spagnolo. Ho cominciato nel 2003, in occasione dei 650 anni della nostra cantina.
Rischiò di inaugurarla il Sommo Poeta.
Era morto da appena 32 anni quando fu fondata. È sicuramente la più antica della Valpolicella. Conserviamo una bottiglia che sull’etichetta reca scritto «Vino Serègo Alighieri 1672», ancora piena.
Pensa che Dante bevesse?
Altroché, benché Boccaccio abbia testimoniato che «nel cibo e nel poto fu modestissimo». Nel Purgatorio cita il vino due volte: «Guarda il calor del sol che si fa vino, / giunto a l’umor che de la vite cola». Ma poi ammonisce: «Velando li occhi e con le gambe avvolte, / a guisa di cui vino o sonno piega». Infatti è un nettare che rammollisce le gambe di chi non sa berlo.
Lei sa berlo?
Sono sommelier, come mia sorella Marianna.
Quale dei vostri vini predilige?
Il Vajo Armaron. Si ottiene da un cru acquistato intorno al 1450 dai nostri antenati. Pare che abbia dato il nome all’Amarone. Secondo altri, il toponimo deriverebbe invece dalle arèle, i graticci su cui si fanno appassire le uve, i quali, una volta accatastati, formano un armarón, un armadio.
Chi mise a dimora le prime viti?
Non c’ero, quindi di preciso non lo so. Si presume che esistessero già quando il figlio di Dante, Pietro Alighieri, l’unico che seguì il padre nell’esilio in riva all’Adige, acquistò le Possessioni di Gargagnago. Era giudice. Dopo la morte del padre, leggeva ad alta voce la Divina Commedia ai piassaròti in piazza delle Erbe. Verona fu nel 1302 la prima tappa di Dante, scappato da Firenze dopo essere stato condannato a morte per baratteria. Nel poema la fuga è raccontata in forma di profezia dal suo avo Cacciaguida: «Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello / sarà la cortesia del gran Lombardo / che ’n su la scala porta il santo uccello». Il gran Lombardo era Bartolomeo della Scala e il santo uccello era l’aquila che figurava nello stemma della signoria scaligera. A Cangrande della Scala, che lo ospitò dal 1314 al 1318, il Sommo Poeta portò in dono le prime due cantiche del Paradiso. E durante il soggiorno in città rivide la stesura dell’Inferno e del Purgatorio.
Era legatissimo agli Scaligeri anche il vostro trisavolo Marc’Antonio Serègo, vicentino.
Sì. Sembra che Cortesia Serego, capitano dell’esercito, avesse sposato Lucia della Scala. Per meriti di guerra ottenne vasti possedimenti nella Bassa e in Valpolicella. A Santa Sofia di Pedemonte c’è Villa Serègo, l’unica nel Veronese a portare la firma di Andrea Palladio, reclutato da Marc’Antonio Serègo, che in uno scambio epistolare si lamenta delle parcelle troppo esose presentate dal grande architetto.
So che suo padre ha cercato invano il manoscritto originale della Divina Commedia.
Esatto, partendo da un’annotazione di Scipione Maffei risalente al 1732: «Tradizion costante è rimasta che in certa casa posseduta dai suoi discendenti in Gargagnago di Val Pulicella una buona parte del poema ei ponesse». «Ei» sta per Dante, però Maffei ignorava che le Possessioni erano state acquistate più tardi. Mio nonno riceveva spesso un prete austriaco, dantista appassionato, che si mise a cercare il manoscritto addirittura con un pendolino. La mia prozia Marialena ordinò di rompere i muri qua e là. Era ancora suggestionata da un incontro avvenuto a Roma in gioventù. Aveva accompagnato un’amica da una chiromante, la quale le disse: «Voi portate un cognome famoso. In una località del Nord Italia è nascosto qualcosa di importante legato a questo cognome». Mio padre chiamò un muratore per continuare le ricerche. L’operaio non capiva perché dovesse sfondare i muri a colpi di scalpello.
In quale punto della casa?
In ingresso, dove c’era la cassa che conteneva la dote di Ginevra Alighieri. Non solo non venne alla luce niente, ma sparì anche la cassa dotale. Un furto su commissione: non era certo un pezzo da esporre nella vetrina di un antiquario. Accadde il 15 gennaio 1981, di notte, mentre i miei genitori dormivano al piano soprastante. Io non avevo ancora compiuto due mesi. Ci rimangono la carrozza nuziale che accompagnò Ginevra all’altare nel 1549 e i tre lauri che la contessa Anna da Schio, eroina risorgimentale sposata a un Serègo Alighieri, fece piantare nel parco in ricordo di Dante il giorno in cui invitò nel proprio salotto i poeti Vincenzo Monti e Ippolito Pindemonte.
Il motto del suo casato è «Memoriale così va».
La seconda parte viene omessa per discrezione: «Chi i soldi al prence presta, mai indietro non li g’avarà». Fu coniato dopo che un Serègo Alighieri prestò un’ingente somma ad Antonio della Scala. Costui fu cacciato da Verona e morì in circostanze misteriose prima d’essere riuscito a estinguere il debito. Serve da monito a noi eredi.
Dunque non presterebbe mai soldi a un «prence».
Dico la verità: all’attuale presidente del Consiglio li presterei. È Conte, non «prence».
Complimenti per la battuta. E lei che titolo nobiliare ha?
Per quel che conta, dovrei essere contessa, perdoni il gioco di parole. Pare che nelle famiglie di antica origine tutti i figli, non solo i primogeniti maschi, ereditino il titolo paterno. Ma non sono addentro a queste cose, quindi magari le ho appena detto una bestialità.
Sua madre è contessa?
No, però conta più di tutti noi messi insieme. Aiuta mio padre nel suo lavoro e manda avanti una casa che ha 50 stanze. In tutto parliamo di 6.000 metri quadrati di edifici. Solo per chiudere gli scuri c’è da ammattire ogni sera. In questo momento sono le 17 e restano aperte 27 finestre. Per fortuna da quattro anni le dà una mano Fernando Luxman, un collaboratore domestico dello Sri Lanka.
Chi è stato il Virgilio della sua vita, il suo spirito guida?
Ne ho avuti più d’uno. I miei genitori. I registi Carla e Massimo Totola, figli di Giorgio, che mi hanno fatto recitare nei loro spettacoli teatrali. Giorgio Boscagin, ex compagno di scuola, il mio idolo nella pallacanestro. E i tre Giovanni della Scaligera basket: Pini, Severini e Tomassini.
Torna volentieri a Firenze, la città che condannò a morte Dante?
Sì. Mi lasciano passare. Ho parenti e amici che vivono sull’Arno. E come Serègo Alighieri abbiamo un podere a Chinigiano, di fronte a Montalcino. Si chiama Bell’Ovile. Il nome l’ho scelto con papà: Dante definiva così la Toscana.
Quante copie della Divina Commedia avete in libreria?
Una quarantina, in varie lingue. Ma io ho imparato ad apprezzare il poema con le letture di Vittorio Sermonti. Una delle ultime la organizzammo in piazza dei Signori, meglio nota ai veronesi come piazza Dante. Indimenticabile. Un’altra si tenne a Ravenna, organizzata dai frati francescani accanto alla tomba del poeta. Ma la più memorabile fu quella nell’estate del 1997, quando Sermonti invitò tutta la nostra famiglia a una lectura Dantis all’aperto, per una cinquantina di ospiti, nella residenza estiva del Papa a Castel Gandolfo, e fummo presentati a Giovanni Paolo II.
I Serègo Alighieri hanno in programma qualcosa per i 700 anni dalla morte di Dante, che cadono nel 2021?
Più di qualcosa. Cominciamo già domenica prossima, con un brindisi a distanza che coinvolgerà le Società Dante Alighieri di Boston e Detroit. La coreografa Ghislaine Avan ci ha proposto una lettura di tutta la Divina Commedia nella ricorrenza della morte, il 14 settembre, con diffusione multimediale nei cinque continenti. Speriamo che faccia qualcosa anche Verona, la prima città che accolse Dante in esilio.
A quali terzine è più affezionata?
A tutto il Canto V dell’Inferno, in cui Dante racconta lo sfortunato amore di Paolo e Francesca. E al Canto XXXIII del Paradiso che celebra la Madonna: «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio».
Lei crede nell’inferno e nel paradiso?
Sì. Anche nel purgatorio.
(L’Arena)