Il Sole 24 Ore, 8 dicembre 2020
Il giallo su Khamenei accresce l’instabilità dell’Iran
È malato, molto malato. No, sta bene, e sta lavorando a pieno ritmo. I clamorosi annunci, seguiti da secche smentite, sulla sorte dell’ayatollah Ali Khamenei, la figura più influente dell’Iran, l’uomo che ha su tutto l’ultima parola, sono l’ennesimo scossone proveniente da un Paese condannato ad essere il grande protagonista delle cronache internazionali.
Nel bene o nel male. Comunque vada, l’Iran è infatti destinato ad essere la crisi più complessa del 2021. Quella che non potrà più esser rimandata. Troppi gli interessi in gioco, e soprattutto troppe le minacce che rischiano di divenire realtà, tra cui la possibilità che Teheran arrivi a disporre di uranio arricchito ad un livello(il 90%) adatto a sviluppare un ordigno atomico. Un traguardo che Israele, ricorrendo anche ad azioni “forti”, appare deciso ad impedire.
L’anno che si appresta a iniziare nel segno del Covid-19 vedrà anche svolgersi in Iran, il prossimo giugno, le elezioni presidenziali. Forse le più importanti degli ultimi 20 anni. Non solo. Nei mesi precedenti si valuterà la determinazione del regime a violare, in modo ancor più serio, il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), l’accordo sul nucleare firmato nel luglio del 2015, da cui gli Usa sono usciti nel maggio del 2018, ma in cui gli Stati europei, la Russia e la Cina credono, o mostrano di credere ancora.
La sorte della guida suprema è avvolta da un mistero. E la leadership del regime farà di tutto per non far trapelare notizie che possano incoraggiare gli oppositori e mettere a rischio il destino della Repubblica islamica. L’annuncio sulle condizioni di Khamenei, rilanciato da diversi media internazionali, è stato diramato lunedì da Momahad Ahwaze, un giornalista dissidente residente nel Regno Unito che aveva già messo in luce le grandi divergenze tra i contagi ed i decessi causati dalla pandemia di Covid-19 e il resoconto, edulcorato, del regime di Teheran. Secondo Ahawaze intorno alla guida spirituale vi sarebbe molta preoccupazione, al punto che Khamenei, 81 anni, avrebbe delegato a suo figlio Mojtaba diversi poteri, o lo avrebbe perfino designato a succedergli. Nomina in teoria contraria alla stessa Costituzione iraniana.
Al potere dal giugno del 1989, quando succedette all’ayatollah Ruhollah Khomeini e fu nominato guida suprema del Consiglio degli eletti, Khamenei ha sempre conservato la sua immagine di conservatore, diffidente nei confronti dell’Occidente e sospettoso verso il Jcpoa.
Il recente annullamento di una serie di importanti appuntamenti, tra cui quello con il presidente Hassan Rohani, ha rafforzato i timori sulla sua salute. L’Assemblea degli esperti, che in Iran ha il compito di nominare e revocare la Guida suprema, ha tuttavia smentito di aver tenuto una riunione straordinaria a seguito di un aggravamento delle condizioni di salute di Khamenei. Gli uomini vicini alla Guida spirituale hanno poi precisato che sta bene e che sta lavorando.
La notizia arriva in un momento delicato, dopo l’assassinio, il 27 novembre, dello scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh, noto per essere il padre del programma clandestino atomico iraniano. Teheran, che da sempre nega tale programma, ne ha subito attribuito la paternità a Israele.
In questo contesto rovente, il compito che attende il neopresidente americano Joe Biden si preannuncia molto difficile. Durante la campagna elettorale aveva ribadito di voler riprendere l’accordo nucleare del 2015 se l’Iran tornerà a rispettare i suoi termini. Il dilemma di Biden è ora se ritornare al Jcpoa oppure, come peraltro ha già accennato, rafforzarlo ed estendere alcune restrizioni che scadrebbero altrimenti i prossimi anni.
Non sarà affatto facile. Quattro anni di presidenza Trump hanno avuto come effetto collaterale (o forse voluto) quello di rafforzare l’ala oltranzista iraniana mettendo nell’angolo i moderati. Il problema maggiore è il tempo. Ne è rimasto davvero poco. Biden dovrà essere così abile da riuscire a concludere, o almeno ad avviare un dialogo, prima del 18 giugno, quando gli iraniani sceglieranno il prossimo presidente. Il quale, probabilmente, sarà un falco, ostile a un accordo con “il Grande Satana”.
Quattro mesi sono pochi, pochissimi. E se l’Iran dovesse passare in febbraio dalle minacce ai fatti, allora dovrebbe espellere tutti gli ispettori internazionali dell’Agenzia atomica dell’Energia (Aiea), come prevede la nuova “legge-rappresaglia” ratificata la scorsa settimana dopo l’assassinio del famoso scienziato nucleare.
Teheran comincia a guardare con circospezione anche gli alleati europei. Agli occhi del regime, il silenzio, anche europeo, seguito all’omicidio di Fakhrizadeh è stato assordante. Non solo. Lunedì gli E3, i tre Paesi europei che avevano firmato il Jpcoa, ovvero Francia, Germania e Regno Unito, hanno ammonito l’Iran a non mettere in atto la legge che prevede l’ulteriore arricchimento dell’uranio e l’espulsione del team degli ispettori dell’Aiea a meno che non vengano rimosse le sanzioni americane già in febbraio. «Se l’Iran è seriamente intenzionato a mantenere uno spazio per la diplomazia, allora non deve implementare questi passaggi», ha avvertito l’E3 in un comunicato scritto. Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha inoltre detto quello che Teheran non vuole sentire: che l’accordo sia «esteso» in modo da includere il ruolo che l’Iran sta esercitando militarmente nella regione e il suo programma di missili balistici. Richieste fatte in passato anche da Trump. «Non terremo colloqui su un accordo già negoziato e non faremo compromessi sulla nostra sicurezza nazionale» ha risposto il portavoce del ministero degli Esteri, Saeed Khatibzadeh.
Il problema, poi, è stabilire chi, tra Biden e gli ayatollah, inizierà a muovere i primi passi, e come. Un problema non da poco.