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 2020  dicembre 07 Lunedì calendario

QQAN30 Beethoven visto dagli amici

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Il 19 luglio 1812, alla celebre stazione termale boema di Teplitz, accade un incontro epocale: Ludwig van Beethoven si imbatte per la prima volta in Joahnn Wolfgang von Goethe. Il compositore, allora poco più che quarantenne, nutre molta ammirazione per il grande autore. Entrambi hanno già sentito circolare nei rispettivi éntourages il nome dell’altro: lo scrittore di Francoforte sul Meno ha già pubblicato I dolori del giovane Werther (1774), Il Faust (1808) e Le affinità elettive (1809); Ludwig, da par suo, formatosi a Vienna alla scuola di Haydn, si è fatto già conoscere grazie alla Sinfonia n°3 (detta Eroica del 1802) e alla Quinta sinfonia (1808). Di quell’incontro, oltre a molte speculazioni, resta per primo un evento storico che ha fatto scalpore: in quei giorni, durante una passeggiata, i due si trovano faccia a faccia con l’imperatrice d’Austria e, mentre Goethe s’inchina e rende i dovuti omaggi alla nobildonna, Beethoven procede dritto per la sua strada senza né inchinarsi né fermarsi. Lo testimonia con il realismo dei pittori tardo romantici Carl Rohling nel dipinto L’incidente di Teplitz del 1887.
Tuttavia, restano moltissime, e tornan vive soprattutto in occasioni come quest’anno in cui ricorrono a dicembre i duecentocinquant’anni dalla nascita, le storie su Beethoven: che mentisse sull’età (il padre, Johann, musicista mancato, da piccolo gli tolse due anni poiché voleva farne un novello Wunderkind tale e quale a Mozart); che fosse figlio illegittimo di un re di Prussia; che avesse avuto un’infanzia sofferta; che vergognandosi delle origini borghesi abbia fatto di tutto perché il fiammingo “van” diventasse un tedesco “von” (nobiliare); che per i suoi tratti decisi si fosse guadagnato il soprannome “Der Spanier” (lo spagnolo); che la sordità lo abbia colto da giovane; che fosse basso, tracagnotto e sempre imbronciato. A quest’ultima leggenda possiamo credere, se mandiamo a memoria l’iconografia del maestro: su tutte, il ritratto da giovane immusonito e con le gote rosse che ne fa Willibrord Joseph Maelher nel 1804 e il famoso dipinto di Joseph Karl Stieler del 1820 divenuto un santino in cui il compositore – i capelli grigi e mossi, la redingote di velluto nero e la sciarpa rossa – sta scrivendo musica.
Scherzi a parte, dei giorni a Teplitz resta anche ciò che Goethe scrisse dell’incontro: “Non avevo mai incontrato un artista così fortemente concentrato, così energico, così interiore (…) il suo ingegno mi ha stupefatto”, come racconta Incontri con Beethoven a cura di Felix Braun (Il Saggiatore, edizione italiana a cura di Veniero Rizzardi e Benedetta Zucconi, pp. 200, euro 20) che, tra le molte pubblicazioni che fanno gli auguri al compositore, è di un’importanza assoluta, non foss’altro perché ci ricorda che la verità è documentale, cioè storiografica. Ciò che infatti fa il curatore originale, Braun (coevo nella Vienna tra Otto e Novecento di Zweig, Schnitzler e soprattutto di Hugo von Hofmannsthal, di cui fu anche segretario), è rivelare al mondo l’altro volto del titano, attraverso le voci di chi Beethoven lo aveva conosciuto davvero, rovistando nei loro ricordi. Ne sgorga il ritratto, sottolineano Rizzardi e Zucconi, di “un uomo maldestro, perplesso e incline alla disperazione”.
Così, veniamo a sapere che a colloquio con Rossini, dopo avergli dato buca una prima volta, fece una tremenda gaffe: se da un lato si complimentò per Il Barbiere di Siviglia – “un’opera eccellente” e ancora “l’ho letta con piacere e ne ho provato una vera gioia” –, dall’altro gli sconsiglia di cambiare genere, cimentandosi con opere serie, dato che “L’opera seria non è nella natura degli italiani”. In più, ai complimenti che Gioacchino gli tributa, sbuffa e risponde “Oh, un infelice!”. Scopriamo anche che, diciassettenne, si esibì di fronte a Mozart che non apprezzò l’esecuzione per la quale si era preparato ma fu rapito dall’improvvisazione che fece subito dopo su un tema suggerito dal maestro Amadeus, che ad alcuni amici disse: “Tenete d’occhio questo giovane: un giorno farà parlare di sé il mondo”. Diverso, invece, è il parere che ne ebbe Joseph Haydn: lo apprezzò quando gli sottopose i suoi primi lavori, giudicandolo “di grande talento”, tuttavia, nella sua musica c’era qualcosa di oscuro, ma anche di “strampalato”.
Una cosa è certa: la musica di Beethoven non è mai morta. Pensiamo al secolo da poco concluso: negli anni del nazismo, è la sigla delle trasmissioni di Radio Londra; negli anni ’70, mentre Kubrick rende il compositore l’idolo del tossico protagonista di Arancia meccanica, l’Inno alla gioia diventa la sigla dell’eurovisione fino ad arrivare al 2015, quando gli artisti dell’Opera di Magonza lo eseguono per fermare una manifestazione xenofoba delle destre. La musica, dunque, resta e le leggende (fondate o meno) passano, sebbene anche le storie su Beethoven appartengono alla sua storia.