«Ringraziando il Cielo, sto bene, “negativo” al virus e positivo nell’animo».
Quanti giorni è durata questa sua esperienza?
«Tanti. Da quando i medici hanno scoperto la mia positività, ho dovuto passare cinque settimane in isolamento ospedaliero, senza poter vedere nessuno, se non personale medico vestito da palombaro dall’aspetto umanoide».
Nicola Piovani è reduce da un periodo trascorso al Policlinico di Tor Vergata di Roma per il Covid-19, e al suo ritorno a casa ha manifestato gratitudine a professori, infermieri e addetti. Il pianista, compositore e direttore d’orchestra, premio Oscar nel 1999 per le musiche del film La vita è bella di Benigni, autore di colonne sonore per Bellocchio, Monicelli, Moretti, fratelli Taviani, Tornatore, Fellini, Amelio, e delle musiche di scena di tanti spettacoli (da Proietti a Arias), ha conosciuto una partitura tutta sua, segreta, esistenziale.
Un grande artista alle prese con la grande odissea di quest’epoca pandemica. Che riflessioni generali e sociali ha maturato durante la sua esperienza?
«La prima e fondamentale è che, nel nostro mondo occidentale, si è incrinata per tutti l’idea di invulnerabilità. Eravamo assuefatti a sentir parlare di gravi epidemie del terzo mondo, a guardarle nei telegiornali, a spedire aiuti di solidarietà a quei paesi lontani, “in via di sviluppo”. Oggi, in buona parte, un’epidemia ci riguarda tutti, grazie alla globalizzazione, alle migliaia di aerei che ogni giorno sorvolano il pianeta, trasportando uomini, beni di consumo e virus. Viviamo una precarietà della sopravvivenza che dovrebbe far rivedere a tutti noi le gerarchie dei valori».
A livello artistico, che pensieri le ha ispirato questa forzata quarantena?
«L’isolamento induce, oltre alla paura, anche a pensieri nuovi: dopo qualche centinaio di ore che non frequenti nessuno, il vuoto della testa ti può portare a capire meglio cosa vuoi da te stesso e dagli altri. Mi ha aiutato molto il mio tablet: a leggere giornali, a seguire l’informazione televisiva. E i libri: l’immancabile Simenon, Woody Allen, Cechov, La Capria, Muti-Cacciari, Carofiglio… Un aiuto particolare mi è venuto soprattutto da RadioRai3».
Il bilancio post-Covid che coscienza nuova le ha suscitato?
«Quando senti qualcuno che nella stanza accanto soffre, qualcuno che non ce l’ha fatta, quando vedi il lavoro faticoso e disagiato del personale ospedaliero, beh ti sembrano surreali certi dibattiti esterni: il diritto all’Happy Hour, il diritto a sciare sulla neve, a fare shopping, a ballare a Capodanno. Con le migliaia di morti causati da questo virus!».
Nel suo ambiente musicale, artistico, trova adeguato o no il trattamento governativo riservato al mondo dello spettacolo?
«Questo virus ha colpito alcune categorie di più, altre di meno; alcune si sono addirittura arricchite. La gente di teatro è fra quelle che più hanno sofferto, e tuttora soffrono, in modo pesante. Il ministro Franceschini mi sembra abbia lavorato molto per difendere la categoria dello spettacolo dal vivo. Sia con contributi sia con agevolazioni. Avrebbe potuto sicuramente fare di meglio e di più, ma questa è un refrain che va bene sempre per tutto».
Che suggerimenti darebbe in favore di artisti e addetti ai lavori dell’arte?
«I teatri pubblici stanno tenendo accesa la fiammella dello spettacolo con streaming e invenzioni fantasiose, alcune molto meritevoli. Possono farlo perché usano denaro pubblico. Ma il teatro privato, che vive fondamentalmente di incasso, al momento è alla fame. Mi riferisco al tessuto delle migliaia di lavoratori elettricisti, fonici, sarti, truccatori, mascherine, agenti organizzatori. E ai tanti eccellenti attori di teatro non famosi, che sono stati messi in serie difficoltà di sopravvivenza».
Come le viene da reagire ai provvedimenti presi per questo mese “delle feste”?
«Mi sembra che nessuno voglia attaccare o cancellare il Natale, che è una festività religiosa. Ma ridurre il senso del Natale - la nascita di Gesù nella povertà - a un fenomeno di consumismo, mi sembra blasfemo. Tenere aperti luoghi che per sicurezza dovrebbero essere chiusi mi sembra scellerato, e mi sembra anche una mancanza di rispetto per le migliaia di morti da Covid e per i loro parenti. Per un anno ci si può concentrare sull’aspetto sacro della Natività. Quando passerà questa “nuttata” avremo modo di imbottirci di nuovi capi d’abbigliamento, di tablet più moderni, di sciarpe di cachemire, di vacanze sulla neve, alle Canarie, nelle crociere o nelle modalità che ognuno ha il diritto di preferire. Ma ora è il momento di combattere la morte che avanza con numeri di centinaia al giorno. C’è chi ancora non ha capito e chi, purtroppo, ci marcia. Si può passare un buon Natale in pochi intimi, e magari ingegnarsi per organizzare tombole su Skype».
Che progetti ha?
«Tanti e interessanti. Sto leggendo sceneggiature, ho cominciato a scrivere musica per due film di due registi amici. Un mese e mezzo in isolamento senza poter toccare il pianoforte mi ha stimolato molte idee nuove di composizione. Magari brutte idee, ma nuove. Ovviamente, vivo aspettando il momento in cui il buio passi e si possa ricominciare a frequentare teatri affollati, concerti affollati, stadi affollati. Aspetto insomma il risveglio di Primavera. La scienza ci farà presto rinascere. Io sono uomo di fede - nel senso che ho molta fede nella scienza e nel lavoro degli scienziati».
Ha un’opinione sulla “Netflix della cultura” che Franceschini sta mettendo a punto?
«Gli streaming, il teatro in televisione, la diffusione della prosa e dei concerti attraverso le grandi reti di distribuzione, hanno un valore positivo suppletivo, in questo momento in cui il teatro è in letargo. Ma quando si scioglieranno le nevi, quando il teatro potrà essere di nuovo luogo affollato di pubblico teatrale - che è diverso dal pubblico televisivo - i sistemi di distribuzioni internet, parabolici, streaming su tablet, telefoni, potranno avere soltanto una forte funzione pubblicitaria: indurre a frequentare teatri. Ma pensare di “sostituire” il teatro con lo streaming per me è come sostituire l’amore con l’erotismo virtuale. Ho rispetto per l’eros virtuale, ma personalmente a quello virtuale preferisco sempre quello “vizioso”, lo spettacolo dal vivo in carne ed ossa. Ricordo una frase di Strehler: “Spero che la messa in onda dei miei spettacoli teatrali possa indurre qualche spettatore al rimpianto di non essere stato presente fisicamente lì quella sera, che gli susciti la nostalgia del non esserci”».