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 2020  dicembre 07 Lunedì calendario

I miei amici Eliade e Cioran

I francesi amano la Francia, gli inglesi l’Inghilterra, i polacchi la Polonia, i russi la Russia. Ma c’è un fatto straordinario. Non esiste, in Europa e nel mondo, un caso come quello della Romania. La passione dei romeni per la Romania non ha né equivalenti né paralleli. Mircea Eliade scrisse: «Per me esiste un solo problema: la Romania». «Io ho sempre creduto nel destino della Romania: per me è l’unico destino esistente al mondo». Cioran affermava invece l’opposto (oppure l’identico?): «Riguardo al nostro paese sono piombato in una totale indifferenza. Giornali, riviste, libri – tutto quello che ricevoda laggiù – lo rimando indietrosubito,senza nemmeno dargli un’occhiata». E ancora: «La Romania è il mondo dell’assurdo, dell’eccentrico, del folle e dell’incompetenza».
Con mia moglie, ho vissuto due anni a Parigi, e ho passato la maggior parte di quel tempo insieme a Cioran e alla sua compagna, una donna deliziosa, Simone Boué. Abitavano presso il parco del Luxembourg, frequentato anche da un artista grandissimo, Joseph Roth, l’autore di un capolavoro, La marcia di Radetzky, e di altri libri molto belli. Quante volte, abbiamo salito quelle scale: un tempo Cioran abitava con Simone in piccole, modeste, tristi camere ammobiliate. Poi acquistò (o affittò: ho i più vasti dubbi sulle finanze di Cioran) un appartamento a Rue de l’Odéon. Arrivare fin lassù era un’impresa. Da principio non aveva ascensore: le stanze abitate da Cioran e da Simone erano al quinto o al sesto piano; e bisognava arrampicarsi e inchinarsi con tutta la forza della nostra giovinezza.
Poi qualche miracolo, o qualche oscuro, misterioso finanziatore, immaginò un ascensore. La casa era graziosissima. Non c’erano libri (Cioran doveva averli ingoiati tutti): il letto era quasi invisibile; e tutti mangiavamo intorno a un tavolo di vimini, su quattro seggiole di vimini, parlando senza fine, con una eloquenza, una chiacchiera, un amore del pettegolezzo, che Cioran giudicava come una delle vette dell’intelligenza umana. Quanto abbiamo chiacchierato! Quanto abbiamo riso! Mai, forse, nella mia vita, avevo riso tanto, con la collaborazione di Simone e di mia moglie, che si assomigliavano un poco.
Come i grandi malinconici, Cioran aveva la passione, l’estro, l’assurdità, l’immaginazione del riso. Restavamo per ore a chiacchierare: via via, il riso diventava più assurdo e inconcepibile; fino a quando, arrivati al culmine, Cioran indossava l’impermeabile, e usciva di casa, camminando a mezzanotte per le deliziose strade di Parigi, della sua Parigi, piovosissima, che egli amava con una passione travolgente, pur affermando di detestarla.
Non mi vergogno di dire che ho adorato Cioran. Mi riesce difficile descriverlo, sebbene ancora oggi, dopo tanti anni, pensi a lui con un grandissimo affetto. Amava il paradosso e la battuta: era spiritosissimo, e saliva su una scala immaginaria che aveva costruito con le sue dita così fini, a cui Simone aveva certo contribuito. Aveva letto moltissimo: per esempio Klages e Hartmann. Amava la metafisica: era la persona più naturalmente metafisica che abbia mai conosciuto – io che mi sento perduto, preciso, mediocre, preside, come diceva Federico Fellini. Era un genio del paradosso, e poteva giungere a un punto che si capovolgeva soltanto nella sua enorme risata.
Era anticristiano oppure fingeva di esserlo: ma, con molta più naturalezza, era confuciano, taoista, buddhista, pagano. Molto spesso non riuscivo a seguirlo. Era il più mistico degli scettici, il più scettico dei mistici: era ambivalente, e amava tanto il brillio delle apparenze quanto lo spessore della concentrazione baudelairiana.
I suoi veri avi erano La Rochefoucauld, Saint-Simon, Madame du Deffand, naturalmente Baudelaire: molto meno Sainte-Beuve. A volte prorompeva in scoppi d’intelligenza biblica: soprattutto Giobbee il Qohelet. Odorava di Settecento come di Verveine: maprofumava molto più di una profondissima vocazione anticristiana. Dubito di quel che pensava di Gesù Cristo: certo quei miracoli non gli piacevano; ma sentiva in san Paolo un fratello d’elezione. Fondeva la concentrazione e la leggerezza, lo spessore, la profondità e l’apparenza più futile e frivola. Amava compromettersi, con questa cosa stravagante che è la nostra terra. Scriveva con grande piacere, alternando gli stili. «Ho scalzato tutte le mie illusioni, le ho sbeffeggiate, e adesso eccomi costretto a vivere i miei sarcasmi, a trarne le conseguenze pratiche – vittima di una visione risibile. Come rimpiango i tempi in cui una frase ben tornita mi consolava di qualsiasi insuccesso! Ma a che pro continuare a lamentarsi? Bisognerebbe poter pregare». E come scriveva a Mircea Eliade, pregava profondamente, insinuandosi per qualche strada che lui solo conosceva nell’enorme, impossibile, assurdo paradiso.
Era malinconico, uno dei più grandi malinconici della terra. Conosceva tutte le forme della malinconia: la più ovvia, la malinconia disperata: la malinconia prodotta dalla rinuncia al tabacco, quella nata dalle facili amicizie, quella prodotta da un colpo di telefono inatteso; quella generata dall’abulia, o dalla più semplice gastrite; dalla macerazione di cui avevano parlato Kierkegaard e Baudelaire, o dalla demenza di Stavrogin. Pensava, spesso, che la vita non aveva alcun senso, e che la creazione era stata un errore, e una stoltezza, e un castigo di Dio. Era, al tempo stesso, brillante, pessimista, sterile, sarcastico, mistico, scettico, colpevole del peccato di Adamo e di tutti i peccati che, a partire dalla Genesi, gli uomini hanno compiuto sulla terra. Ma non amava affatto la Genesi: la detestava, come detestava gli antisemiti. Amava Tocqueville.
A Parigi, si sentiva dimenticato: a volte simile a tutti i giovani francesi che avevano rinnegato de Gaulle. Se Cioran elaborava una precisa autopsia del centro, Eliade cercava di raccogliere attorno a sé le “storie comparate delle religioni”.
Tutti avevano accusato Cioran di essere stato un nazista, o un filonazista; e in realtà nessuno era più mite e meno nazista di lui, malgrado le sciocchezze che aveva pronunciato da giovane, quando aveva immaginatodi essereuna Guardia di ferro. Non aveva nessuna passione politica: la politica lo disgustava, anche il modestissimo Pompidou, mentre aveva avuto una debole ammirazione per de Gaulle, così alto, così altero, così affascinante, che attraversava gli Champs-Élisées con le sue altissime gambe e il piccolo cappello da generale. De Gaulle detestava gli inglesi, che invece Cioran amava moltissimo, fino ad attraversare tutta l’Inghilterra in bicicletta, insieme a Simone, tappa dopo tappa.
Gli sembrava che lavorare fosse un peccato: il peccato di Adamo, di Mosè, di Giobbe, a cui non voleva assomigliare in nessun modo. Giobbe gli ripugnava. Non aveva unsoldo. Mircea Eliade lo finanziava generosamente. Presto Eliade andò in America, dove teneva conferenze, pagate stupendamente, all’Università di Chicago, sulla storia delle religioni. Teneva saggi sulle religioni del Tibet e della Mongolia, fino alle teologie ateistiche contemporanee. Eliade aveva letto assolutamente tutto: dalla dinastia cinese degli Shang a Confucio, al dio celeste Tien, che abita nell’Orsa Maggiore, nel centro del Cielo. Ricordava una frase del Tao Te Ching: il quale «circola dovunque nell’universo, ma sapeva di non potere mai essere fermato, e in lui non c’è posto per la morte». Eliade concluse con una frase cinesestupenda: «Tutto è puro spirito. Non lo toccano néil calore della boscaglia in fiamme, né il gelo delle acque straripanti; né la tempesta che solleva l’oceano con un frastuono spaventoso. Le nuvole sono i suoi attacchi, il sole e la luna le sue cavalcature. Egli vagabonda al di là dei Quattro Mari: l’alternarsi di vita e di morte non lo riguarda affatto, mai, in nessun caso, e ancor meno i concetti banali di bene e di male».
Eliade raccontava del Brahmanesimo e dell’Induismo, di Buddha e dei suoi contemporanei, dei Celti, dei Traci, d’Orfeo, di Pitagora, dei Misteri di Dioniso, dei Misteri di Mithra, forse di Cristo, dello sciamanesimo. Sapeva ogni cosa: nessuno poteva gareggiare con lui; e univa e fondeva l’idea di ordine e quella di grazia.