Corriere della Sera, 7 dicembre 2020
Il miraggio di crescere per legge
«Ripartiremo» è il ritornello che scandisce queste settimane, dagli spot pubblicitari alle esortazioni del presidente del Consiglio. Pochi si chiedono: per andare dove? Prima della pandemia il reddito medio degli italiani (misurato a parità di potere d’acquisto) era sostanzialmente fermo da un quarto di secolo (+8 per cento in 25 anni) e non aveva ancora recuperato quanto perso nella crisi del 2008-9. Nello stesso periodo è cresciuto in Francia di poco meno del 30 per cento, in Germania del 36 per cento. Quando un’economia non cresce l’invecchiamento della popolazione accelera, le diseguaglianze aumentano e soprattutto cresce la resistenza al cambiamento perché senza prospettive di migliorare la propria situazione, senza riuscire a prefigurare un futuro, le persone si aggrappano a ciò che possiedono. Se ripartire significa riprendere quel cammino impiegheremo quindici anni solo per recuperare il reddito perso durante la pandemia. Per capire i motivi della nostra assenza di crescita è utile ripercorrere l’esperienza del Giappone. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso il Giappone cresceva tanto rapidamente che ci si chiedeva quando avrebbe superato gli Stati Uniti. Poi improvvisamente, nel 1991, quella crescita si arrestò e da allora non è più ripresa. La spiegazione più comune è lo scoppio di una bolla immobiliare che aveva portato alle stelle i prezzi delle abitazioni. La crisi che ne seguì fermò la crescita.
I n realtà – come osservò per primo Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008 – i motivi della crisi giapponese sono più profondi. Negli anni Ottanta e Novanta il Giappone si era avvicinato con grande rapidità alla «frontiera» tecnologica: importava tecnologia sviluppata negli Stati Uniti e in Europa, spesso migliorandola: le macchine fotografiche Canon e Nikon erano un’evoluzione delle Leica tedesche; le Playstation della Sony e Walkman, il primo lettore portatile di Cd, usavano la ricerca di base sviluppata nei laboratori americani della Bell.
Come hanno osservato Daron Acemoglu, Philip Aghion e Fabrizio Zilibotti in un bellissimo articolo del 2006 («Distance to Frontier, Selection, and Economic Growth») crescere per imitazione non richiede grande immaginazione, né start-up promettenti: richiede piuttosto organizzazione, disciplina, grandi aziende e banche che le sostengano. Il modello giapponese dei keiretsu, raggruppamenti di imprese operanti in settori diversi, inclusa la finanza, si dimostrò vincente, come lo furono i chaebol nella Corea del Sud.
Quando però un’economia raggiunge la frontiera, per crescere non basta più usare tecnologia altrui. Bisogna imparare a svilupparne di originale. Servivano figure come Bill Gates e Steve Jobs, imprenditori che non potevano essere più diversi dai manager dei keiretsu giapponesi. Il problema non fu tanto che quelle figure in Giappone non esistevano, ma che i conglomerati che controllavano l’economia non accettarono di passare la mano. Sopravvissero oltre il loro tempo e bloccarono, e in qualche misura ancora impediscono, la crescita.
La storia economica dell’Italia negli ultimi settant’anni è simile. Anche noi dopo la Seconda guerra crescemmo importando tecnologia dagli Stati Uniti: elettrodomestici, ma anche la «colata continua». Diversamente dal Giappone qualche innovatore straordinario ci fu, fra tutti l’Olivetti con il Programma 101, una macchina che anticipò di almeno un decennio il primo computer da tavolo Ibm. Ma furono casi isolati. Al centro della nostra industria c’era l’Iri, una conglomerata che produceva dall’acciaio (Ilva), alle automobili (Alfa Romeo), ai gelati (Motta e Alemagna), che aveva il monopolio delle telecomunicazioni (Stet) e possedeva tre delle più grandi banche del Paese.
All’inzio l’Iri fu guidata da manager straordinari come Oscar Sinigaglia che dopo la guerra riorganizzò la nostra industria siderurgica. Con il passare dei decenni, però, il modello mostrò il suo tempo anche perché se ne impossessò la politica che lo gestì per massimizzare il consenso. Le privatizzazioni, lanciate da Carlo Azeglio Ciampi, Nino Andreatta, Mario Draghi e Romano Prodi avrebbero dovuto por fine a quel modello restituendo le aziende al mercato. Per un decennio ci riuscirono, nonostante fossero osteggiate, come nel caso del Giappone, da una struttura burocratica che non voleva perdere il proprio potere. L’Italia sembrava pronta a riprendere la crescita.
Oggi, a distanza di venticinque anni, lo Stato sta ri-occupando l’economia: la seconda banca del Paese, Unicredit, potrebbe tornare sotto il controllo pubblico; Tim anche, attraverso lo strumento della Cassa depositi e prestiti, un’istituzione sopravvissuta al suo tempo. E che, come accadde con l’Iri negli anni Settanta, potrebbe diventare facile strumento di politici assai disinvolti.
Il presidente del Consiglio sembra non conoscere la storia economica dell’Italia. Anziché usare Next Generation Eu per aiutare le imprese innovative e consentire che esse guidino la crescita, si appresta a nominare una task force di manager provenienti da esperienze in grandi imprese pubbliche ponendo fra l’altro Cdp al centro di questo sistema: e a capo di questa task force pone se medesimo. Con quale competenza? Giuseppe Conte è senza dubbio un ottimo avvocato, ma del tutto privo di esperienza aziendale o industriale.
Se «ripartire» significa sfruttare l’occasione della pandemia per affrontare i veri nodi che ostacolano la crescita, mi sembra si sia scelta una strada non solo sbagliata ma dagli esiti facilmente prevedibili.