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 2020  dicembre 06 Domenica calendario

Chailly racconta il suo Beethoven

Il mio primo incontro con la musica di Beethoven risale agli anni 60. Avevo tredici anni, anzi li stavo compiendo. Ero a Perugia, al Conservatorio Francesco Morlacchi. Ho diretto la prima sinfonia del sommo compositore tedesco con un’orchestra di allievi. I dettagli di quell’esecuzione si perdono nei ricordi, insieme ad altri legati al mio lavoro di direttore d’orchestra. Era un Beethoven trentenne l’autore di quelle note, che manifestava emozioni dal carattere conservativo; tuttavia, l’Andante cantabile con moto, aperto da un tema di canzone esposto dai violini soli, mi riportava al ’700 di Haydn. Già allora mi resi conto dell’impatto sonoro e della forza tellurica della musica beethoveniana. C’era e resta eternamente in questo compositore una grandezza che si può definire assoluta. E si rivela subito, a tutti. 
Da ragazzo, inoltre, ho iniziato l’ascolto di Beethoven grazie alla raccolta discografica di mio padre: avevo a disposizione le registrazioni di Paul Felix Weingartner con la Filarmonica di Vienna degli anni 30. A esso sono seguite le storiche registrazioni di Arturo Toscanini con la NBC Symphony Orchestra di New York.
Devo inoltre ricordare che per le sinfonie del grande musicista ho letto e meditato l’opera che a esse ha dedicato Igor Markevitch, Die Sinfonien von Ludwig van Beethoven (Edition Peters, 1983) ove, oltre l’analisi storica e numerose osservazioni pratiche, c’era qualcosa in più: lui aveva studiato vecchi materiali a Vienna, tra i quali ve n’erano alcuni d’orchestra usati da Gustav Mahler e da Willem Mengelberg. E inoltre ha approfondito lo studio con degli altri materiali dei Filarmonici di Berlino, Gewandhaus di Lipsia e Staatskapelle di Dresda. Un documento del genere è diventato da allora il mio punto di partenza imprescindibile.
Negli anni 80 fui ospite regolare dell’orchestra di Cleveland, nell’Ohio. In quelle occasioni ho avuto la fortuna di poter consultare per giorni le partiture di tutte le nove sinfonie di Beethoven del maestro George Szell. Ho scoperto non poche cose compulsandole attentamente. Lui, esperto di trasparenze, architetture sonore, fraseggio, bilanciamento tra le sezioni d’orchestra e disciplina ritmica collettiva, riusciva a rendere umano l’universo di suoni che abita nelle musiche di Beethoven; anzi, è come se mi avesse preso per mano indicandomi i momenti topici. Ho potuto trascrivere sulle mie partiture la sua lezione e, così facendo, ho scoperto che Szell fu discepolo fedele di Toscanini. Anch’egli procedeva nello studio delle sinfonie di Beethoven in maniera analoga.
Poi ci sono ricordi vissuti direttamente che non si cancellano e lasciano tracce indelebili. Indimenticabili quattro esecuzioni dal vivo. La prima? Con Karajan e i Filarmonici di Berlino alla Scala, fine anni 70. Aldilà della grandezza dell’interpretazione, ricordo la scossa sismica dell’attacco della Quinta. Un’altra: la Quarta e la Settima dirette da Carlos Kleiber con il Concertgebouw di Amsterdam negli anni 90: fu il trionfo della fantasia interpretativa con l’attenzione massima per il rispetto della forma e delle indicazioni dei tempi voluti da Beethoven. Inoltre resta per me incancellabile il Fidelio alla Scala, fine anni 70, diretto da Bernstein con la Filarmonica di Vienna. Ricordo un impatto emotivo per quel trionfo della libertà che ha sempre identificato questo direttore e che stregava la sala. Infine, Claudio Abbado. Con i Filarmonici di Berlino, nel febbraio 2001, all’Auditorio di Santa Cecilia, ha diretto due cicli integrali di Beethoven: tutte le Sinfonie e tutti i Concerti per pianoforte e orchestra. La modernità della lettura interpretativa, che è andata evolvendosi in questo direttore nell’arco di quarant’anni, l’ho trovata preziosa e l’ho sempre tenuta accanto a me.
Ho anch’io diretto un’integrale delle sinfonie con l’orchestra del Gewandhaus di Lipsia e tutto quello che ho raccontato mi è stato utile per realizzare questo progetto. Allora lessi anche le critiche che Schumann aveva mosso a Felix Mendelssohn, giacché sosteneva che si fosse allontanato dalle indicazioni di Beethoven. Credo però che in tal caso questo interprete abbia rispettato il metronomo originale del compositore. La polemica va posta nella cornice di quel tempo e una critica diventa per noi un’osservazione preziosa e rivela, sovente, una verità.
Quando si comincia a parlare delle sinfonie di Beethoven, si resta incantati e quasi diventa difficile proseguire nel suo catalogo. Nel ricordare i concerti non riesco a dimenticare la registrazione integrale che ho realizzato con Alicia De Larrocha (per la Decca) e durante l’esecuzione del quinto, il celebre Imperatore, nel secondo movimento in mi bemolle maggiore qualcuno dei professori disse: «È musica discesa dal cielo». Lo penso anch’io e ancora, a quasi trentacinque anni di distanza. Questa interprete fece lo sforzo di studiare la Fantasia Corale per pianoforte, coro e orchestra che non aveva mai eseguito. Durante le prove commentava: «Non riesco a dominare l’emozione continua che nasce da questa musica».
Qualcosa di celeste vi è anche nelle 32 Sonate per pianoforte, quelle che gli storici sovente chiamano “Il Nuovo Testamento” della musica, intendendo Il Clavicembalo ben temperato di Bach come l’antico. 
Di esse, fin da ragazzo, ho imparato ad amare l’interpretazione che ci ha lasciato Wilhelm Backhaus, cui è seguito l’ascolto di quelle di Claudio Arrau, un interprete che ho avuto la fortuna di dirigere due volte negli anni 70 in Germania nel Terzo concerto
Igor Stravinskij in un suo dialogo si allontana da tutti i grandi compositori dell’800 e inizio 900, tranne che da Beethoven. Lo collegava alla lezione di Haydn, continuamente e – dovremmo aggiungere – inevitabilmente. Un uomo d’avanguardia intendeva Beethoven in senso retrospettivo: il giudizio va meditato perché meglio di tanti altri ci ricorda che con questo compositore non cambia un’epoca ma la musica stessa. Qualcuno ha aggiunto che l’estetica musicale nasce con Beethoven, ma forse è opportuno pensare che con la sua musica la cultura ha avuto bisogno di uno strumento in più per orientarsi.
Vorrei chiudere questa testimonianza ricordando che con la Filarmonica della Scala ho progettato l’integrale delle sinfonie – in teatro sino a oggi ne abbiamo eseguite sei – e la Quinta e l’Ottavale abbiamo già portate con successo a Colonia, Anversa, Essen e Parigi. Devo inoltre aggiungere che ho avuto, tra i pochi, il privilegio di assistere alle prove di Karajan a Berlino. All’inizio degli anni 80, durante uno di tali momenti dedicato alla Missa solemnis, ho avvertito una specie di folgorazione. È una partitura criptica, grandissima; confesso che non ho mai raccolto il coraggio dell’istinto per affrontarne un’esecuzione. È tra le messe più imponenti della storia. Nella mia memoria si collega all’esecuzione che fece Giulini negli anni 80 con i complessi sinfonico-corali della Scala. Nel 1987 con la Radio-Symphonie Orchestra di Berlino ha inciso un’altra messa di Beethoven, quella in do maggiore op. 86. In essa il compositore usa una scrittura polifonica nel Gloria e nel Credo, cambia il rapporto tra solisti e coro, ha una visione drammatica del testo. Modulazioni e risoluzioni armoniche moderne la permeano. Gli fu commissionata dal principe Nicola II Esterházy, che non la capì e alla fine chiese: «Ma Beethoven, che cosa avete fatto?». La domanda, perso il senso negativo di allora, potremmo ripeterla ancora oggi dinanzi al catalogo delle sue opere.