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 2020  dicembre 06 Domenica calendario

Una giornata sul set con ambulanza fissa

“Spero che la gente non si disabitui ad andare al cinema”. Voce di uno che grida nel deserto delle sale chiuse: Maurizio Tedesco, produttore dal sangue blu, assistente al montaggio per Pasolini, sodale di Marco Risi ne Il muro di gomma e molto ancora (L’odore della notte di Claudio Caligari), un presente non abdicato.
Nonostante l’emergenza Covid, con l’autoambulanza fissa sul set, attori e maestranze nella bolla, i tamponi per rito, il cuore è oltre l’ostacolo, una certezza rischiara l’orizzonte: “Questo film ha un vantaggio, è senza tempo: un’analisi della cattiveria umana”. Il soggetto non è originale, viene da un libro premiato col Campiello nel 2017, tradotto in ventitré lingue, venduto in trecentomila copie, L’Arminuta. Tedesco lo legge complice la moglie Paola Poli, ci rimane sotto: “Un thriller, un giallo devastante: è Shining, è Stephen King”. L’autrice è Donatella Di Pietrantonio, abruzzese forte e gentile che al dente avvelenato ha preferito l’odontoiatria pediatrica, ma la penna è aguzza, dilaniante. Tedesco prova a portarlo davanti alla macchina da presa, i diritti però se li sono già assicurati: quando il progetto non si chiude, torna alla carica, lo fa suo, con Monica Zapelli e la stessa Di Pietrantonio alla sceneggiatura, Giuseppe Bonito, che “nella sua testa l’aveva già girato tante volte”, alla regia. Avrebbe dovuto essere, dopo l’esordio Pulce non c’è, l’opera seconda, è la terza, in mezzo ha diretto Figli di Mattia Torre, ed è all’amico scomparso che all’ultimo giorno di riprese a Montopoli, prima di trasferirsi sulle nevi svizzere, Bonito pensa: “Mi sento molto fortunato, molto grato a fare questo film, ma soffro che Mattia non possa più”.
Il passato non è una terra straniera, e nemmeno la Sabina dove è stata trapiantata l’Arminuta, ovvero “la ritornata”, la tredicenne contesa, si fa per dire, tra due famiglie di estrazione antitetica, tra modernità e arcaicità, città e radici nell’Italia del 1975: campo base a Montopoli, location a Fara Sabina e Bocchignano, prima in ottobre Fregene, Latina per ritrovare Pescara, Santa Marinella e Civitavecchia. La pandemia ha imposto uno slittamento dal previsto primo ciak a maggio, il meteo è stato clemente, i circa due milioni di euro di budget comprensivi dei duecentomila destinati alle misure anti-Covid, la bolla intatta, il contagio scampato. Fondamentali loro, le ragazzine, “la ritornata” e la sorellina Adriana, scovate sulle spiagge abruzzesi tra oltre duemilaottocento dalla casting director Stefania Rodà: rispettivamente, “la borghese” Sofia Fiore e “la locale” Carlotta De Leonardis. Poi serviva una madre, e non qualsiasi: “Che avesse dentro la consunzione”, pretendeva Tedesco, e con Bonito l’ha individuata in Vanessa Scalera, per il grande pubblico l’Imma Tataranni dell’omonima fiction. “Il ruolo – dice Scalera in una pausa di lavorazione – Giuseppe me l’ha venduto bene, me l’ha reso necessario. Raccontiamo una maternità altra: sono un albero secco, seccato dalla vita. Oggi siamo abituati a manifestare i sentimenti, una volta era impossibile: l’amore, le emozioni erano inesprimibili”.
“L’abbandono e le cicatrici, giacché siamo tutti abbandonati”, per zenit, la consapevolezza che “dai vuoti si creino i talenti” in questa finzione intessuta di verità, e lo sguardo disteso sulla realtà: “Spero che il film approdi sul grande schermo, che la nostra società smetta di vivere nella e sulla paura”. Nel cast anche Fabrizio Ferracane, L’Arminuta è una produzione italo-svizzera Baires Produzioni, Maro film, Kafilm con Rai Cinema, realizzata con il sostegno di Lazio Cinema International – Regione Lazio e Mibact: Tedesco e Bonito puntano alle sale di qualità, a un pubblico colto e al battesimo festivaliero, consci che “il Covid terrorizza, molto cambierà anche per il cinema, ma la speranza quella no”.
Affrancato dalla seriosità, “e dalla noia”, dell’autocertificato cinema d’autore, dentro la carne viva dei rapporti umani, degli atti mancati, delle corresponsioni fallite, le prevaricazioni esibite, l’adattamento vive senza controindicazioni la sua epoca, questi giorni strappati a un incubo, ma non peregrini: “Ritorno al futuro”, è il sottotesto di Bonito, che perfeziona l’adattamento tra le geometrie edilizie allargate e familiari della Sabina che fu, ed è ancora, con i telefoni che non prendono, “una benedizione”, con la comunicazione che “si riscopre da persona a persona, senza dispositivi intermedi”. Mentre “lo smart working apre al ripopolamento delle nostre aree interne”, il regista eleva il romanzo della Di Pietrantonio a potenza post-pandemica: “L’idea del ritorno a qualcosa che serbiamo dentro, alle nostre radici contadine, antiche”. Se non è più tempo di figliol prodighi, che lo sia di questa “ritornata” al futuro.