«Ho dei ricordi di Pavese. Lo ricordo proprio come persona fisica. Mi ricordo perfino una conversazione, deve essere stato nel ’48 forse, o nel ’49. Venne a casa nostra, a cena, e chiese a me e a mio fratello: ma cosa leggete? E noi rispondemmo: Salgari. E lui disse: dovete leggere La città del re lebbroso . Io non l’ho mai letto, però mi rimase impresso e poi retrospettivamente pensai che Salgari si era ucciso. Quindi, in qualche modo, la notizia della morte di Pavese, che io ricordo vivissimamente, s’intreccia sia alla lettura dei suoi scritti sia a questi frammenti di ricordo. Come ho raccontato altre volte, ho deciso di cercare di diventare uno storico quando avevo vent’anni. Ero a Pisa, e guardando uno scaffale, presi una decisione, una triplice decisione: cercare d’imparare il mestiere dello storico, lavorare sui processi di stregoneria, cercare di estrarre le voci, i comportamenti delle vittime. I libri e gli scritti che mi avevano spinto in questa direzione erano: i Quaderni dal carcere di Gramsci, Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi, Il mondo magico di Ernesto De Martino, e i Dialoghi con Leucò . Nei Dialoghi c’è, secondo me, l’incontro col mito, un tema centrale per Pavese».
Il fatto che fosse il libro da lui lasciato sul comodino ti aveva influenzato, secondo te?
«Direi che è un libro che ha agito in qualche modo senza che me ne rendessi conto. Cioè, è un libro misterioso, mi ha colpito. De Martino riceve Dialoghi con Leucò e non lo commenta mai, non dice una parola».
Forse perché rappresentavano proprio quella caduta nell’irrazionale che De Martino temeva.
«Diciamo che io su questo ho dei dubbi. C’è l’incontro di queste due persone, Pavese aveva letto Il ramo d’oro nel ’33, quindi il suo interesse per il mito è antico. Però certamente seguendo Il mestiere di vivere si vede come questo tema riemerge con forza negli anni Quaranta, in cui lui scrive il Taccuino segreto . Questo ritorno ossessivo sul mito è qualcosa che si ramifica in molte direzioni. Il mito ha radici anche nello sguardo infantile, e quindi nei paesaggi che ritornano fino alla fine in Pavese.
La visione ossessiva delle colline, dei luoghi in cui era cresciuto. De Martino, certo, aveva una formazione completamente diversa, però i due s’incontrano a Roma, se non erro nel ’42, e De Martino gli propone di essere parte di una società di metapsichica, e Pavese non dice no, accetta questa avance di De Martino. Ora, a mio parere, questo confuta la possibilità di mettere De Martino sul lato della razionalità e Pavese sul lato dell’irrazionale».
Diciamo che poi c’è stato un secondo De Martino, collegato al Partito Comunista...
«Allora questo è vero anche nel caso di Pavese. Negli anni in cui Pavese riflette così profondamente sul mito, legge Vico, e scrive, comincia un nuovo periodo della sua produzione letteraria, se posso dire, che arriva fino a La luna e i falò , in cui il rapporto con l’etnografia e la riflessione sul mito sono profondissimi. Sono gli anni in cui lavora con De Martino alla Collana Viola. Sono gli anni in cui Pavese scrive quel Taccuino segreto . E mentre Il mestiere di vivere lo destinava alla pubblicazione, questo Taccuino segreto era rimasto tra le sue carte. È stato trovato da Lorenzo Mondo, che l’ha mostrato a Calvino poco dopo la morte di Pavese. Calvino ne fu estremamente turbato».
Anche tua madre Natalia poi l’ha ripreso...
«Sì, c’è un saggio di Carlo Dionisotti in cui cerca di fare i conti con il significato politico, sconvolgente, di questo
Taccuino segreto , la battuta sprezzante sugli antifascisti, non nominati, e poi un passo che aveva particolarmente sconvolto mia madre come credo tutti quelli che l’hanno letto: “Tutte queste storie di atrocità naziste che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero vere, la storia non va con i guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci”. Ora, io penso che, effettivamente, preferirei non averlo mai letto. Però bisogna farci i conti. E io credo che il primo a fare i conti sia stato Italo Calvino, che dice: “Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant , a scrollata di spalle, come quando già tutto è inteso e non vale la pena di spendere altre parole. Non c’era nulla di inteso invece. Il punto di sutura tra il suo comunismo e il suo recupero di un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito”».
A proposito di distacco dello storico, tu pensi che sia possibile o auspicabile distinguere il Pavese letterato dal Pavese uomo?
«Questa domanda mi mette in imbarazzo perché io, da un lato, ho introiettato, come dire, l’antibiografismo di Croce. Quindi sarei portato a dire che bisogna distinguere. Certo, nel caso di Pavese è difficile distinguere l’intreccio tra l’uomo e lo scrittore».
Per concludere, qual è secondo te il suo lascito più importante?
«Io penso che sia Lavorare stanca sia una buona parte dei suoi romanzi siano estremamente importanti e continuino a essere vivi e inquietanti».
Pensi che Pavese possa essere considerato un classico?
«Mah, sai, io ci credo poco a questa categoria, ma come dice Calvino “classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”. Forse sì. Per quanto mi riguarda, allora, sono portato a ripensare che Pavese è Dialoghi con Leucò ed è anche la sua collaborazione con De Martino, e quindi anche ilTaccuino segreto, e quindi anche questa rielaborazione ossessiva della nozione di mito, e il fatto che l’infanzia e l’adolescenza sono coinvolte in questa idea di mito.
Allora si torna a quello che tu dicevi, cioè la copia dei Dialoghi con Leucò lasciata lì nel momento in cui si uccide».