la Repubblica, 6 dicembre 2020
I robot intelligenti in guerra
«Hei Siri, elimina quel cecchino sulla sinistra». Una frase pronunciata dal soldato nel microfono dell’elmetto, come quando si usa l’assistente vocale dello smartphone. In questo caso però l’ordine arriva al robottino che lo affianca e che immediatamente apre il fuoco. La macchina non ha bisogno di sapere altro, perché i suoi sensori controllano tutto e hanno già individuato il nemico. Non è il futuro, ma il presente delle guerre: viene sperimentato dai militari di 40 nazioni.
Le indiscrezioni sull’uso di un’arma telecomandata nell’agguato al capo del programma nucleare iraniano, ucciso pochi giorni fa alle porte di Teheran, non sorprendono. Esistono già dozzine di automi da combattimento, pienamente operativi. Ricordate la Prima Legge della Robotica di Isaac Asimov? «Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno». Ormai è stata superata, per fare spazio all’avanzata delle macchine killer. Inarrestabile. «Ritengo che nel 2030 potremmo avere un esercito composto da 90 mila uomini e 30 mila robot», ha detto un mese fa Nick Carter, comandante delle forze armate britanniche. Dagli Usa gli ha fatto eco il generale Patrick Donahoe: «Non manderemo più i nostri fanti in un tritacarne, perché l’avanguardia sarà composta da automi».
Gli israeliani lo fanno già. Hanno imparato dagli errori del conflitto contro Hezbollah in Libano e concepito una falange di veicoli senza equipaggio: tutti telecomandati e autosufficienti nel muoversi. «All’intelligenza artificiale bastano frazioni di secondo per elaborare quantità colossali di informazioni», spiega Daniel Gold, l’inventore dello scudo antimissile “Iron Dome”. «Questa capacità diventa fondamentale negli scontri urbani, permettendo di individuare subito le minacce». In pratica, si vuole affidare ai robot le missioni più rischiose. Come scendere nei tunnel: se ne occupano mini-cingolati con visori all’infrarosso e sensori acustici. O come ripulire i campi minati: il compito di serpenti meccanici, che strisciano sul terreno. E stiamo parlando di apparati in servizio, non di prototipi. Quella che viene schierata oggi è la seconda generazione di robot, che grazie all’intelligenza artificiale agisce in modo quasi indipendente. La prima è formata da sistemi “a comando remoto”, diretti da una console simile a quella della playstation: li ha adottati persino l’Esercito italiano, che impiega in Afghanistan otto “Trp-2 Combat” armati con mitragliatrice o lanciagranate. Tutti i Paesi, poi, stanno cercando di trasformare carri armati ed elicotteri per fare a meno dei piloti. «È proprio come un videogioco», ha commentato un sergente americano dopo il primo test alla guida remota di un tank.
La terza generazione è in arrivo. Sono squadre di robot che dialogano tra loro. Il drone volante scambia dati con l’automa terrestre, insieme decidono chi è meglio che spari e in che momento: gli umani al massimo danno il via libera finale. Uno scenario apocalittico: sciami di macchine miniaturizzate si disperdono in c erca di prede, come vespe, e poi si riuniscono per colpire. «Il concetto è rendere questi sciami indipendenti», ha detto il responsabile del programma di ricerca del Pentagono. «Una volta assegnata la missione, saranno in grado di organizzarsi da soli, perlustrare il territorio, riconoscere i bersagli e eliminarli». Quasi sempre i nuovi modelli imitano la natura: insetti, serpenti, cavalli, gli americani hanno addirittura introdotto cani meccanici con quattro zampe e naso elettronico. Lo statunitense Black Hornet – “Calabrone”, appunto – sta nel palmo di una mano. Solo i russi cercano di progettare androidi dalle forme umane, ma l’esibizione del prototipo è stata accolta con perplessità dallo stesso Putin. In compenso Mosca ha un arsenale di mezzi teleguidati che si sono rivelati micidiali nelle città siriane. La Cina invece tiene segrete le sue realizzazioni: soltanto ad aprile la tv di Stato ha mostrato automi mitraglieri, ricognitori e altri che ricaricano le batterie di razzi: «Sono una presenza normale nell’Armata Popolare», ha sottolineato il presentatore.
La corsa agli armamenti robot è frenetica. Quando invasero l’Iraq, gli Stati Uniti potevano contare su una manciata di Predator: oggi hanno 7mila droni volanti e altri 12 mila terrestri. Ovunque stormi, flotte e brigate si preparano a diventare ibride: uomini e droidi che combattono insieme. Il problema è che ai soldati l’idea di andare in battaglia al fianco di automi letali non piace proprio. In questi giorni tiene banco il sondaggio condotto tra 800 militari australiani: una “significativa maggioranza” non ne vuole sapere di farsi coprire le spalle da un droide armato. Come superare la sfiducia? Il maggiore dei marines Daniel Yurkovich ha proposto di adattare i vecchi metodi alle nuove tecnologie: tante marce ed esercizi comuni, fisiche o al simulatore, fino a convincere i fanti che – parafrasando la formula usata per il fucile dal rude sergente istruttore di Full Metal Jacket — «questo è il mio robot, ce ne sono tanti come lui ma questo è il mio. È il mio migliore amico, è la mia vita».
Resta la grande questione, quella etica. Si può permettere la proliferazione di droidi che decidono quando uccidere e che presto saranno in grado di autoprogrammarsi? Non rischiamo di ritrovarci nell’incubo di Terminator, con automi killer in guerra contro l’umanità? Una mobilitazione internazionale sta già nascendo. E al Pentagono si aggrappano alla seconda parte del “credo” dei marines: «Questo è il mio robot, devo dominarlo come domino la mia vita».