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 2020  dicembre 06 Domenica calendario

La stanza di Nanchino

Per 40 giorni, il nostro corrispondente dalla Cina, Filippo Santelli, è stato confinato dalle autorità cinesi in una stanza di 18 metri quadri di un ospedale di Nanchino, a Nordovest di Shanghai. Un cubicolo di plastica completamente isolato dall’esterno e privo di luce naturale, dove era stato messo in quarantena a metà ottobre perché risultato positivo al Covid al suo rientro in Cina dall’Italia. Questo è il racconto della sua esperienza. Un viaggio andata e ritorno nella deprivazione di ogni umanità, nella perdita della libertà, nella paura. E nel sistema con cui la Cina ha contenuto l’epidemia. Quello in cui il “contagiato”, ancorché asintomatico, è ridotto alla sua essenza biologica. Corpo da curare. Corpo da testare e misurare con routine ossessiva. Soprattutto, corpo da contenere e isolare per proteggere la salute del popolo che sta fuori. Una salute fragile, a ben vedere. Come la promessa di normalità che Xi Jinping ha fatto ai suoi cittadini: l’epidemia è sconfitta e non tornerà più.

Sono pronto a ripartire. Ho passato un mese in Italia con la famiglia. Ne è valsa la pena, nonostante la quarantena che mi è toccata all’arrivo a Roma e quella che mi aspetta ora al ritorno in Cina. So cosa mi aspetta: ne ho già fatta una a giugno, la prima volta che sono tornato a Pechino dopo l’inizio della pandemia. Forse l’hotel di Nanchino, la città dove atterreremo e verremo isolati, non sarà il massimo. Ma due settimane passano in fretta.
Mi presento all’imbarco a Malpensa con una robusta scorta di prodotti alimentari, un correttivo ai pasti cinesi che mi servirà l’albergo in quarantena. In una cartellina nera tengo invece il plico di documenti richiesti dalle autorità cinesi all’ingresso. A cominciare dal tampone negativo fatto tre giorni fa. Ormai di aerei in tempo di pandemia ne ho presi diversi. Il primo era stato quello per fuggire da Wuhan la mattina del 23 gennaio, qualche minuto prima che sulla città dove tutto è iniziato calasse il lockdown. Ci ripenso: quasi un anno a schivare il virus, avanti e indietro tra Cina e Italia, per poi ritrovarselo sempre e comunque tra i piedi.
Il volo Milano-Nanchino è quasi pieno. Sono contento di scoprire che tra me e il passeggero più vicino, una signora cinese, c’è un sedile vuoto. Durante l’estate, quando in Europa la curva dell’epidemia è scesa, Pechino ha iniziato ad autorizzare più collegamenti dall’estero e tolto il tetto al numero di passeggeri per volo. Non tanto per facilitare la vita agli stranieri residenti, quanto per semplificare un eventuale ritorno ai cinesi d’oltremare. Oltre a me, sull’aereo ci sono solo tre italiani. Prima dell’imbarco, ci siamo scambiati il contatto WeChat. Gli altri sono tutti cinesi. Tante famiglie con i bambini, persone che hanno deciso di ripiegare in patria, impaurite dalla seconda ondata che sta montando in Italia e in Europa. È frequente per i cinesi che vivono all’estero riportare per un periodo a casa i figli, cresciuti con accento pratese o milanese, in modo che perfezionino il mandarino. E molti hanno considerato questo il momento giusto, visto che la Cina è più sicura dell’Italia. Come dare loro torto? Ormai da mesi il Dragone, con la decisione di chi conosce le pandemie, i modi bruschi di un regime autoritario e la disciplina confuciana dei cittadini, ha di fatto azzerato la circolazione del virus. Durante la torrida estate a Pechino, prima di tornare in Italia, anch’io avevo vissuto quella normalità post-pandemica, andando al ristorante, ai concerti, in viaggio di piacere nello Yunnan o di lavoro nel Guizhou, luoghi dove perfino la mascherina era un ricordo. A Wuhan, a Ferragosto, i ragazzi si erano concessi un mega party in piscina. Scene che il resto del mondo aveva guardato con un misto di invidia e incredulità. Ma non c’era nessun mistero: quella festa tamarra la gente di Wuhan se l’era meritata stando chiusa in casa per 76 interminabili giorni.
Inizia il conto alla rovescia Nanchino, giovedì 15 ottobre. Sera So anche cosa mi aspetta allo sbarco. Dopo aver domato l’epidemia in casa, le autorità hanno spostato l’attenzione sui casi di virus “importati” dall’estero, da stranieri o cinesi di ritorno. Un po’ buon senso e un po’ politica. Il tentativo di far dimenticare al mondo, o almeno ai cittadini, dove tutto è cominciato. Contro il pericolo che viene da fuori bisogna controllare le frontiere. E così tutte le persone che mettono piede sul territorio cinese vengono subito incanalate in un percorso sanitario che le porta direttamente alla quarantena di due settimane in hotel, senza contatti con il mondo esterno.
Fuori dal portellone ci aspetta il solito esercito di persone bardate come astronauti, per indirizzarci nel percorso di procedure burocratiche e sanitarie: controllo temperatura, registrazione dati, dogana. Per tutti il benvenuto è un bel tampone infilato nel naso. Un’oretta dopo siamo sui bus verso l’albergo, uno Holiday Inn alla periferia Sud di Nanchino. Finora tutto si è svolto in ordine, ma al check-in le persone iniziano ad accalcarsi, esauste per il viaggio e le nuove formalità da sbrigare. I bambini piangono, il distanziamento salta.È ormai pomeriggio quando arrivo in stanza. Metto giù le valigie, dispongo le mie cibarie su un tavolinetto. Vederle mi mette buonumore. Collego il pc e la saponetta per il collegamento a Internet. Dormo un po’. A sera non è arrivato alcun messaggio d’allarme: il tampone fatto all’aeroporto è negativo. Due settimane per uscire, il conto alla rovescia è iniziato. Non mi passa neppure per la testa che possa essere più lungo.


Il messaggio
La prima notte dormo bene, la seconda è da incubo. Mi succede sempre: il jet-lag colpisce con un giorno di ritardo. Ho anche dei dolori piuttosto intensi alle gambe e alla schiena. Ma non do importanza alla cosa, saranno le scomodità del viaggio. Tutti gli ospiti del Covid hotel sono stati inseriti in un gruppo WeChat, il social network della Cina. In teoria dovrebbe servire per le comunicazioni di servizio del personale. In pratica diventa subito un microcosmo del web mandarino: ordinazioni a domicilio di ogni tipo, lamentele e richieste improbabili, relative prese in giro, consulenze psicologiche e incoraggiamenti reciproci, notizie vere, verosimili o false. Domenica qualcuno scrive che sull’aereo sono stati trovati due casi positivi, per questo la mattina erano passati camera per camera a farci un altro tampone. Per me era solo l’ennesimo esempio della metodica moltiplicazione di controlli con cui la Cina sta affrontando il virus, all’insegna del rischio zero. Verso le 20.30 però ricevo una strana chiamata in camera: dalla reception mi chiedono che tipo di rapporto abbia con gli altri italiani sul volo.
Pengyoumen, “amici”, rispondo nel mio mandarino elementare, ma non viaggiamo insieme. Richiesta bizzarra, però. Sento salire una strana ansia. E dieci minuti dopo quell’ansia diventa una tragica certezza. Lo schermo del telefono s’illumina, messaggio WeChat da un contatto sconosciuto. Prima ancora di premere il tasto della traduzione automatica dal mandarino, so già cosa mi vogliono dire. «Il campione prelevato oggi è risultato positivo ed è stato inviato al Centro di controllo delle malattie di Nanchino per una revisione. Ho alcune domande da farle». Segue emoticon con pugno chiuso su mano aperta, il saluto delle arti marziali.
Positivo. Positivo. Positivo. Succede tutto troppo in fretta, ed è un bene: non posso fermarmi a mettere a fuoco il significato senza appello di quella parola. Giusto il tempo di avvertire mia moglie e i miei genitori, a sei fusi orari e troppe migliaia di chilometri di distanza, di provare a tranquillizzare loro per tranquillizzare me stesso. Ma devo muovermi. Mi ha scritto anche l’addetta dell’albergo dicendo che un’ambulanza sta venendo a prendermi per portarmi «da un’altra parte» dove mi faranno ulteriori esami, di fare in fretta a prepararmi.
Per prima cosa, rimetto nello zaino le cibarie. Decido di alleggerirmi, lasciando lì le due fette di Parmigiano e i due vasetti di tonno, ma me ne pentirò. Devo rifare la valigia con il telefono sott’occhio perché nel frattempo il mio interlocutore senza volto, foto profilo di un sole sopra il mare, ha iniziato con la sua sfilza di domande. È cominciato il contact tracing: deve ricostruire tutti i miei spostamenti da quando ho messo piede sull’aereo: dove ero seduto; con chi ho parlato; professione; luogo di residenza a Pechino. Sono tutte informazioni che ho già fornito tre, forse cinque volte, ma in Cina i dati sono big, grandi, non smart, intelligenti: nessuna autorità parla con le altre, quindi tutte ripartono da zero. Funziona, però. Nelle ore successive le persone che erano sedute nelle file vicino alla mia, compresi gli altri tre italiani, verranno trasferiti in un altro albergo “di osservazione”, dove personale medico potrà tenerli sotto controllo per 14 giorni. Sono contatti di un caso positivo.
Immaginate il sistema creato dalla Cina per contenere il virus come l’Inferno di Dante, una serie di gironi sempre più profondi man mano che aumenta il rischio. E io sto per finire in quello più stretto e abissale, quello riservato ai positivi. Due colpi di sirena e il riflesso delle luci blu sul palazzo di fronte segnalano che l’ambulanza è arrivata. Scendo nell’hotel buio e silenzioso, carico il valigione e gli zaini sotto gli occhi dell’autista in tuta bianca contenitiva, mascherina e visiera. D’ora in poi, per giorni, vedrò solo gente bardata così, vedrò solo occhi. Mi scrive via WeChat una dottoressa, si chiama Chen, foto profilo di un gatto stilizzato, e oltre a chiedermi le solite informazioni mi fa una serie di domande sul mio stato di salute.
“Zuo!”
Il viaggio dura un’oretta, durante la quale provo a recuperare i dati dell’assicurazione sanitaria e cerco di far sapere a chi deve, al giornale, all’ambasciata, dove mi stanno portando. Già, ma dove mi portano? Il navigatore ora dice che siamo a Ovest di Nanchino. Entriamo in una strada di servizio e quando il portellone si apre, nel buio della notte, siamo circondati dal nulla. Sembra aperta campagna. Di fronte a me c’è una struttura bianca, come un grande container. La porta è aperta e un’infermiera mi fa cenno di entrare: “Zuo!”, dice, “seduto su questo sgabellino!”, misura pressione e saturazione, mi chiede i dati: altezza, peso e una caparra. Sarebbero 5mila renminbi, più o meno 650 euro, ma ho dimenticato di caricare il conto Wechat, gliene posso versare al massimo 2mila. Per ora, bastano.
Ci addentriamo nella struttura, che capisco essere uno degli ospedali provvisori anti-Covid costruiti in tutta fretta dalla Cina alla fine di gennaio, all’apice dell’epidemia. Percorriamo un paio di corridoi deserti finché arriviamo davanti alla porta di una camera su cui è appeso un cartello: “Filippo”. L’infermiera apre la porta e mi fa entrare: è una piccola stanza ospedaliera, circa tre metri per sei, le pareti di un materiale plastico grigio, due letti, due comodini, un armadietto e il bagno. Le luci sono al led, la temperatura è gelida. Dietro alla porta ci sono due codici QR da scansionare: uno è quello del gruppo chat delle infermiere, l’altro del negozio dell’ospedale. Domani, potrò comprare le cose di cui ho bisogno. Nel frattempo, non c’è nulla, neppure la carta igienica. Unica eccezione un enorme thermos azzurro: per i cinesi l’acqua calda è un bene di prima necessità, con questo freddo non dispiace neanche a me.
L’infermiera esce e si tira dietro la porta. Tric troc, sento la serratura scattare, un rumore che mi rimbomba in testa e che fa tutta la differenza del mondo. Anche all’hotel non potevamo uscire dalla stanza, ma la porta era aperta, una piccola illusione di libero arbitrio, un attestato di fiducia del sistema nella nostra volontà di collaborare. Ma ora sono positivo, sono un pericolo, e la Cina non si può più permettere fiducia. È quasi mezzanotte, mi rannicchio vestito sotto la coperta. Domenica 18 ottobre, secondo Ospedale di Nanchino, padiglione Covid D1, letto 35. Sono in isolamento.


La cura
La mattina dopo, quando alle 6 mi svegliano per i tamponi di controllo, la coscienza della mia condizione mi assale in maniera paralizzante. Sono lontanissimo da tutte le persone a cui voglio bene, chiuso dentro una struttura inaccessibile di un Paese con le frontiere chiuse. Il girone più profondo. So di essere forte, ma sono contagiato da un virus che non ha cura e le storie che ho letto e raccontato in questi mesi, su come il Covid-19 uccida anche i trentenni, mi passano davanti agli occhi. Cerco di non piangere quando parlo con la mia famiglia, ma poi, appena chiudo, fatico a trattenermi. Oltre alla porta bloccata, in questa stanza non c’è neppure luce naturale: l’unica finestra, comunque sigillata, dà su un corridoio interno, da cui non arrivano i raggi del sole. Se premo l’interruttore diventa giorno, anche alle 3 di notte, se lo premo di nuovo è notte, anche alle 3 del pomeriggio. La luce dei led appiattisce il passaggio delle ore in una superficie fredda e uniforme come le pareti della stanza. L’impianto di aerazione manda un brusio sordo e costante. So bene che molti cinesi sono abituati a vivere in spazi estremi, in sotterranei senza finestre o dormitori sovraffollati. Ma questa struttura è stata costruita in dodici giorni ed è chiaro che si è badato a velocità ed efficienza più che al benessere psicofisico dei pazienti.
Per due giorni, faccio test di ogni tipo, mi prelevano fialette di sangue, mi fanno tamponi faringei e anali, mi scansionato i polmoni. Gli esami confermano che sono stato contagiato da Sars-Cov-2, ma la tac è negativa. Nella classificazione cinese, che fin dall’inizio della pandemia è diversa da quella degli altri Paesi, vengo schedato come caso “asintomatico”, una lista separata dal conto complessivo dei casi “confermati”. Perdo gusto e olfatto, ma i dolori spariscono in 48 ore e non ho mai la febbre. In Italia trascorrerei il mio decorso a casa (o, dove esistono, in un Covid hotel), monitorando la mia condizione e aspettando che il mio corpo produca gli anticorpi ed elimini il virus. Ma qui in Cina no. Oltre all’isolamento è prevista anche una terapia. La dottoressa Chen, che non vedo mai di persona, mi propone un farmaco di nome Arbidol e un aerosol di interferone. Mi informo sul primo: è un banale antivirale russo che solo alcuni studi cinesi ritengono efficace contro Sars-Cov-2. Dopo aver sentito qualche parere decido di rifiutarlo. Sull’interferone ci sono una serie di ricerche in corso, lo accetto. Mi propongono anche della medicina tradizionale cinese, il regime ci punta molto, ma rifiuto anche quella. Per i cinesi le cure sono gratuite, il governo lo ha deciso perché qui una malattia manda spesso le famiglie in bancarotta e il rischio era che le persone nascondessero il contagio. Gli stranieri invece pagano ed è la stessa dottoressa Chen a battere cassa a intervalli regolari, un po’ preoccupata per il fatto che la prima notte non avessi abbastanza soldi. Se stessi una trentina di giorni, mi dice, pagherei circa 12000 yuan, più o meno 1500 euro. E se non li avessi? «Parleremmo con l’ambasciata – dice lei – Cina e Italia sono amici». Già, ma quando potrò uscire? «Non l’avevo spiegato? », chiede la dottoressa. No, nessuno mi ha spiegato nulla. Ecco come funziona: per uscire bisogna che tre esami, espettorato, tampone orale e tampone anale, risultino negativi per due giorni di fila. Nessun limite di 21 giorni, come suggerisce l’Omsper bilanciare gli effetti negativi di un isolamento prolungato. Nessuna misura della carica virale. Solo positivo o negativo, cioè, per la Cina, contagioso o non contagioso, pericoloso oppure no. Una logica brutalmente binaria, senza via di mezzo, ogni soglia di rischio superiore allo zero è inaccettabile per il regime che ha proclamato contro il virus una guerra del popolo, e poi dichiarato vittoria. Dopo sette giorni, vedo di persona il primo medico: è la dottoressa Zhong, caporeparto. Si presenta con un traduttore simultaneo, un aggeggio a forma di registratore che funziona molto bene. Ne approfitto per chiederle quanto impiega di norma un paziente asintomatico a diventare negativo. Risponde che non si può dire, chi ci ha messo tre settimane, chi è stato qui dentro tre mesi. Ride, sono sicuro in modo bonario, ma io non lo trovo divertente. Mi butto a cercare in rete dei paper che ne parlino, ma la forchetta risulta sempre molto ampia. Spulcio gli articoli sulla positività degli atleti e il loro decorso: qualche calciatore ne esce in pochi giorni. Ci spero, anche se non ho certo il fisico di Ibra.


La passeggiata
Capisco che l’unica soluzione è darsi una routine. Così al mattino presto, quando l’infermiera mi sveglia per misurare la saturazione o riempire il boccione di acqua calda, infilo i calzini da ginnastica e inizio a camminare avanti e indietro con la musica nelle orecchie. Da un angolo all’altro della stanza sono otto passi. Sgambettando per 45 minuti calcolo circa tre chilometri. Mi aiuta a scrollare via il torpore e a scaldarmi, visto che nella stanza continua sempre a fare freddo. La pompa di calore manda un fiaterello flebile e va in blocco ogni mezz’ora.
Anche gli ingressi e le uscite delle infermiere danno regolarità al tempo. I pasti vengono consegnati puntuali, 7, 11 e 30, 17 e 30, e come in tutti gli ospedali del mondo hanno un aspetto sconfortante. Aver perso il gusto da questo punto di vista è una fortuna. Il migliore è la colazione: un uovo sodo, un baozi, un paninetto soffice ripieno di verdura o di carne, e il congee, la classica zuppa densa di riso. Pranzo e cena vengono serviti in un contenitore di plastica trasparente, nello spazio più grande c’è sempre un monoblocco di riso bianco, in quelli laterali, due tipi di verdure, pomodori, verze, cavoli o funghi, in quello centrale una proteina, per lo più carne, volatili indecifrabili, pezzi duri attaccati agli ossicini. Alle 17 e 30 non è scontato avere appetito, ma se si raffredda diventa immangiabile. Quando proprio non ce la faccio, integro o sostituisco con la mia dispensa, cercando di centellinarla il più possibile. Una volta al giorno entra un’addetta alle pulizie con un mocio, un’unica passata di 30 secondi che lascia sul pavimento più polvere e capelli di quanti ce n’erano prima. È comunque un momento bellissimo, perché in quel mezzo minuto la porta resta aperta e io posso piazzarmi sulla soglia e guardare fuori. Oltre il corridoio e le finestre si vede solo il cortile interno della struttura con delle grandi prese d’aria, ma almeno mi ricorda che fuori esiste il sole. L’altra cosa che mi tiene su è lavorare. Non è facile, visto che l’unico oggetto su cui posso sedermi, a parte il letto, è uno sgabellino alto 50 centimetri. Ho chiesto una sedia, mi hanno risposto che non ce ne sono, neppure per le infermiere. Lo accosto alla sponda del letto, con un cuscino sotto il sedere e uno dietro la schiena compongo una specie di ridicola poltrona, su cui riesco a stare per una trentina di minuti prima di avere il formicolio alle gambe.
Ma faccio quello che mi viene spontaneo: trasformare questa esperienza in un racconto. Su Instagram arrivano in pochi giorni migliaia di follower. Mostro la stanza, provo a usarla per spiegare il rigore delle misure con cui la Cina ha contenuto il virus, lo stesso rigore che oggi permette a chi sta fuori di vivere una vita normale. I commenti tendono a polarizzarsi, come spesso succede quando si parla del Dragone: da una parte chi dice che dovremmo imitare, altro che quarantena fiduciaria; dall’altra chi accusa la Cina di essere una dittatura. Ai primi provo a rispondere che questi strumenti sono quelli di un regime autoritario e che (per fortuna) da noi non si possono replicare. Ai secondi dico che è vero, i metodi possono e devono essere criticati, ma possiamo comunque provare a capire i principi che ci stanno dietro: è isolando tutti i positivi e i loro contatti, se occorreva trascinandoli fuori casa con la forza, che le autorità hanno iniziato a contenere il contagio durante la crisi di Wuhan.
Non so quanto l’esercizio di mediazione mi riesca. La pandemia è un evento unico, un groviglio di fattori biologici, statistici, sociali, economici, politici e culturali. Sfida le nostre categorie e il nostro senso comune. Poteva essere l’occasione di fare un passo in avanti nella comprensione della complessità, invece mi sembra che, ancora più di prima, abbiamo urgenza di risposte semplici, responsabili da accusare, immunizzazioni veloci.


Ospedale e prigione
Ma il luogo in cui mi trovo è più un ospedale o una prigione? Forse una via di mezzo. O meglio, una somma dei due. In questa stanza chiusa dall’esterno gli obiettivi si sovrappongono: curarmi e isolarmi. Solo che dopo un paio di settimane è ormai evidente che non ho sviluppato una forma grave di Covid-19 e che non ho più bisogno di cure. Da quel momento è rimasta solo la necessità per la Cina di proteggere chi è fuori dal pericolo che rappresento. Verrò tenuto qui dentro finché non ci sarà più il minimo rischio di contagio, perché il regime ha promesso ai cittadini che la circolazione sarebbe stata azzerata. Se tornerò negativo in poco tempo meglio per me. Se ci vorranno due, tre, cinque mesi non importa. La mia salute verrà sacrificata per una salute superiore, quella del corpo sociale nel suo complesso. Penso alle persone sequestrate per mesi, ai detenuti che restano per anni in carcere: so che c’è di peggio, ma la cosa non mi aiuta. L’ospedale non c’è più, dopo venti giorni è rimasta solo una cella, anche se i secondini che mi consegnano i pasti e mi chiudono la porta alle spalle sono medici e infermieri.
Un simbolo: i questionari psicologici. Negli hotel della quarantena per i passeggeri in arrivo vengono distribuiti dei test per valutare le condizioni mentali. Durante il mio isolamento di giugno le domande mi avevano fatto ridere, ce n’erano alcune molto confuciane. Tipo: «Sento di aver deluso la mia famiglia. Mai / qualche volta / spesso / sempre». E altre un po’ assurde. Tipo: «Sono felice come sempre nei contatti stretti con il sesso opposto». Tutto sommato però è il segno di un’attenzione verso la tenuta psicologica delle persone isolate, in caso di problemi c’è anche un numero da contattare (solo orari d’ufficio). Qui invece, in questa stanza senza luce naturale e rapporti umani, dove forse ci vorrebbe un po’ di sostegno, del questionario non c’è traccia. L’impatto emotivo di questa esperienza semplicemente non viene considerato. Non mi stupisce. Anche a Wuhan la malattia, i morti e il lockdown hanno lasciato uno strascico pesante di disturbi psicologici, problemi di cui semplicemente i media di regime non parlano. E se soffrissi di claustrofobia o attacchi di panico? Non credo che il dispositivo di contenimento mi riserverebbe trattamenti speciali. Non li hanno neanche i minori. Un giorno, durante la mia camminata del mattino, noto che in una delle stanze di fronte alla mia, oltre il corridoio, c’è una ragazza con una bambina in braccio, avrà circa tre anni. Penso a quanto possa essere dura per quella mamma e per sua figlia, spero che la piccola non si ricordi mai nulla.
La ragazza si chiama Ani ed è armena. Finora dei miei compagni di prigionia avevo percepito solo i rumori, le scatarrate di un uomo nella stanza di destra, il pianto dirotto e inconsolabile di una donna in quella di sinistra. Ari è la prima che vedo, dopo una ventina di giorni che sono qui dentro. Ci scambiamo il numero di telefono attraverso i vetri bloccati delle finestre, ma dopo qualche messaggio non abbiamo molto da dirci. Mi succede anche con le altre persone con cui nei giorni successivi entro in contatto, una coppia russa in un’altra stanza di fronte, due italiani che scopro essere nella mia stessa condizione, uno in questo stesso ospedale, un paio di cellette più in là, e un altro nella città di Xiamen. La domanda è sempre la stessa, «Da quanti giorni?», poi non resta che incoraggiarsi: forza. Aspettiamo tutti la stessa cosa, uscire il prima possibile.
È strano. È come se con la mia routine, la passeggiata, i panni da lavare, il lavoro, i pasti, io sia riuscito a ricreare in questa stanza un equilibro fragilissimo, in cui le interazioni umane non sono previste. Mi sto abituando a non averne? Quelle con i dottori sono puramente funzionali, “positivo”, “positivo”, “ancora positivo”, e spesso le informazioni vanno estorte loro con le pinze. Nel rapporto tra medico e paziente la sanità cinese deve ancora fare grossi passi avanti. E anche i dialoghi con le infermiere, che pure mi entrano in stanza, sono ridotti all’osso. Restano nella stanza il meno possibile, forse per paura di contagiarsi. Quando una per sbaglio si chiude dentro, per poco non ha un attacco di panico, mi dice di indossare la mascherina, per fortuna le colleghe vengono a liberarla dopo un paio di minuti. In un mese solo un’infermiera esce per un attimo dal copione: «Tu sei il giornalista? », «Sì». Fine. Ma vanno capite, hanno sulle spalle un’enorme pressione. Combattono nella prima linea della guerra del popolo, sono la trincea che il virus non deve assolutamente superare. E durante i loro turni, che durano qualche settimana, non dormono a casa con la famiglia, ma vivono a loro volta in isolamento. Il prezzo psicologico è altissimo pure per il personale sanitario, anche se in Cina se ne parla poco.
Dopo una ventina di giorni arriva il cambio della guardia: lascia un gruppo di infermieri e di medici, tra cui la dottoressa Chen, e ne subentra un altro, anche questo composto tutto o quasi da donne. Il problema è che i nuovi sono ancora più rigorosi o forse sono io ad essere ormai insofferente. Non ne posso più di quattro misurazioni della temperatura al giorno, assurde visto che non ho mai avuto una linea di febbre. Odio sentirmi ripetere quella parola, “positivo”. Mi sento ridotto a un corpo da alimentare, testare e misurare. Qualche tempo fa ho visto il documentario di Ai Weiwei sull’epidemia a Wuhan e raccontava proprio questo, come la macchina antivirus cinese schiacciasse gli individui, le loro emozioni, la loro umanità, in un ingranaggio. Inizio a non mandare la temperatura quando me la chiedono e per tutta risposta un’infermiera mi piomba in stanza alle 3 di notte per misurarla, svegliandomi di soprassalto. A un certo punto mi cade l’occhio sulla telecamera di sorveglianza che sporge dal muro. Ne avevo accettato la presenza indiscreta, che mi guardino pure, ma adesso, preso da un impulso, decido di staccare il cavo. È un gesto futile, una ribellione ridicola, ma è una forma di resistenza basilare, la necessità di rivendicare una libertà. Mi fa sentire un po’ meglio, ma nessu no sembra accorgersi di nulla, e quasi mi dispiace non poter litigare.

Ci sono momenti duri, di vero sconforto. Arrivano alla mattina, quando tutti in Italia dormono. Oppure all’inizio delle settimane, la terza, poi la quarta, poi la quinta settimana. In teoria non cambia nulla, qui un mercoledì è identico a una domenica. Ma la mia mente resta ancorata agli schemi temporali di fuori, per fortuna. Se all’inizio mi avessero detto che sarei rimasto in questa stanza oltre un mese probabilmente sarei impazzito. Ora il mese è passato e l’uscita ancora non si vede. So anche che dopo mi toccheranno due ulteriori settimane di quarantena in hotel. Sarò libero per il mio compleanno, il 12 dicembre? Sarò libero per Natale?
Al 33esimo giorno, un venerdì, arriva finalmente una buona notizia: il mio test dell’espettorato è negativo. Da domani, mi spiega il nuovo dottore Zhou, che dalla foto profilo di un campo di girasoli ritengo essere una dottoressa, inizierò a fare ogni giorno anche gli altri due test, il tampone faringeo e quello anale. Se tutti e tre saranno negativi per due giorni di fila potrò uscire. È un passo in avanti. Ma è anche l’inizio delle montagne russe. Perché per qualche giorno il test dell’espettorato si accende e si spegne, positivo e negativo. Probabile che la Cina usi delle misurazioni estremamente sensibili, che rilevano anche piccoli frammenti di Sars-Cov-2. E veder ricomparire quel positivo a un passo dal traguardo è una botta psicologica tremenda: ogni volta il conto riparte da zero. La notte prima dell’esame non dormo, il giorno dopo un risultato cattivo ci metto ore a risollevarmi. Al 35esimo giorno mi risveglio in una stanza gelata: fuori è xiao xue, la “piccola neve”, come i cinesi chiamano la prima ondata di gelo dell’inverno, e dentro la pompa di calore è andata. Mi spostano nella stanza a fianco, un’illusione di libertà che dura pochi secondi. Il vano è esattamente speculare al primo: il mondo si è rovesciato, ma resta comunque strettissimo. Tutto si è ormai ridotto a pura, assoluta, consumante attesa di due tris negativi. Vorrei gridare in faccia alle dottoresse che quel livello di rigore non ha alcun senso dal punto di vista epidemiologico, ma so benissimo che loro non hanno voce in capitolo, che subiscono regole scritte in alto, tanto quanto me. A volte avrei voglia di avere qui davanti un cinese qualunque, per dirgli quello che penso. Gli direi che in Occidente abbiamo una cosa che si chiama libertà, per cui non si può chiudere a chiave un cittadino in una stanza, che l’adesione alle regole si basa sul senso di responsabilità. Ma so già cosa mi risponderebbe: davvero funziona? Noi siamo stati chiusi in casa per settimane, da voi si litiga sulle vacanze di Natale in montagna. Gli direi che promettere ai cittadini di azzerare il rischio, come fa il regime, significa lasciarli in uno stato di minorità, uno stato che giustifica il regime stesso. Gli direi, un po’ parafrasando, che il grado di civiltà di un Paese si misura dal modo in cui tratta le persone in isolamento. Ma so già che indicherebbe il conto dei morti, Italia 53.667, Cina 4.634, e mi chiederebbe: il dir itto alla vita non è più importante? Il Dragone esce da questa pandemia più convinto della superiorità del suo sistema rispetto alle litigiose democrazie occidentali. E pur sapendo che esistono democrazie che hanno saputo contenere il virus senza limitare più del necessario le libertà personali, come la Corea del Sud o Taiwan, riconosco la potenza degli argomenti della Cina. E capisco perché abbiano cementato la fiducia dei cittadini nel regime.
Per lavare via il virus le provo tutte. Oltre ai gargarismi, sotto la doccia mi metto a sniffare acqua bollente dalle narici. Alla fine divento addirittura scaramantico. Non lo sono mai stato, ma ci si attacca anche alle piccole cose. Nello zodiaco cinese questo è il mio anno, il topo, notoriamente un anno sfigato. Decido di contrastare tirando fuori dalla valigia la mia maglietta preferita, con un bel tonno rosso (colore fortunato in Cina). E com’è, come non è, nei due giorni successivi arrivano le due triplette di test negativi. Mi ero tenuto un’ultima confezione di salmone da parte, una specie di sigaro della vittoria, che mangio con il riso. Sono euforico, ma dopo le illusioni dei giorni precedenti ho quasi paura a esultare: una cosa che ho imparato è che i nuovi regolamenti in Cina possono spuntare da un giorno all’altro, per i motivi più assurdi. Ma la mattina dopo, quarantesimo giorno di quarantena, mi fanno firmare davvero il modulo delle dimissioni. Devo aspettare che disinfettino le mie cose, poi verso le tre un’infermiera viene a chiamarmi. Do un ultimo breve sguardo alla stanza, la conosco a memoria. Ripercorro al contrario lo stesso corridoio della prima notte, ma con la luce del giorno ho un’idea della grandezza della struttura, le camere di isolamento sono decine, su due piani. Rivedo lo sgabello dove mi avevano fatto sedere per prendere la pressione, a fianco alla porta c’è un pulsante con scritto “exit”. Saluto l’infermiera, esco fuori. Il cielo grigio è bellissimo.


Fuori
Ed eccomi qui allora, di nuovo in quarantena in hotel, tornato al punto di partenza dopo una lunghissima deviazione. Nell’Inferno di contenimento del virus sono risalito un girone più in alto, forse addirittura in Purgatorio. Uscire dalla stanza è ancora vietato, ma la porta è tornata ad essere aperta e c’è una grande finestra che mi permette di guardare fuori. Soprattutto, c’è di nuovo un termine: due settimane e sarò libero.
Dalla finestra della mia stanza d’albergo, vedo un papà e una bambinetta camminare su uno dei vialetti di questo complesso. Lei porta una cartella, immagino stia andando a scuola. Saltella e ride felice, nessuno dei due porta la mascherina. Eccola la normalità post-virale, quella che la Cina si è conquistata con il rigore delle sue regole, la durezza dei suoi metodi e la responsabilità dei suoi cittadini. Quella di cui anche io la scorsa estate ho goduto, che mi ha permesso di prendere l’aereo e andare ai concerti, quella che mi aspetta all’uscita. Certo, non vedo l’ora di tornare lì fuori, tra i sani. La differenza è che ora conosco il prezzo di quella normalità. E non la guarderò più allo stesso modo.