La Stampa, 5 dicembre 2020
QQAN30 22QQAN40 Intervista a Skin
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L’infanzia sparpagliata tra le voci e i rumori di Brixton, gli album di famiglia e i ricordi delle origini in Giamaica, i piccoli passi dopo aver ricevuto una chitarra in dono e i primi dischi scelti come dj negli anni della scuola. Skin, timbro del rock e frontwoman degli Skunk Anansie, si racconta nell’autobiografia It Takes Blood and Guts (Solferino) firmata a quattro mani con la scrittrice Lucy O’Brien. In 300 pagine sono condensati decenni di trasformazioni sociali dagli Anni 80 in poi. Ci sono le notti insonni londinesi, i semi dell’attivismo politico fatto di manifestazioni e partecipazione che hanno reso Skin in prima linea nel contrasto al razzismo o in difesa della community LGBTQ+. C’è un viaggio di formazione fatto di scoperte ed errori, il caleidoscopio di influenze musicali, gli open mic a Tottenham Court e i locali nell’allora poco raccomandabile King’s Cross. Ci sono cambi di pelle e d’abito, i punti di svolta, le hit che sbriciolano classifiche, il palco di Glastonbury e l’incontro con Mandela. «Il titolo del libro rimanda al duro lavoro necessario per raggiungere risultati»spiega Skin, al telefono da New York.
Perché ha iniziato a scrivere?
«L’anno scorso con gli Skunk Anansie abbiamo festeggiato i 25 anni di carriera. Era il momento perfetto ma ho aspettato tre mesi prima di iniziare la mia biografia. Poi ho notato che era uscito l’ennesimo volume sul Britpop. Tanti libri sugli Anni 90 a Londra non citano né noi né altri nomi della scena musicale nonostante il successo e l’influenza su generi successivi. Si pensi al peso che ha avuto l’elettronica. Ero stanca di sentire parlare sempre e solo di Britpop. E’ un genere a mio avviso abbastanza conservatore, poco inclusivo. Quando si è giovani spesso si è modesti e si lascia che la storia la raccontino gli altri, con l’età ho imparato: questa volta no, volevo raccontare io la mia».
E’ vero che il suo percorso artistico inizia da un sogno ricorrente?
«Sì. Da bambina avrei voluto fare la fotografa, crescendo sognavo spesso un episodio: qualcuno era su un palco e si esibiva davanti a un pubblico gremito. Aveva il microfono in mano e urlava con tutte le sue forze. Non ero io quella persona ma ho visto la scena come un presagio. Durante la scuola poi, la Royal Shakespeare Company venne da noi e recitò il Macbeth. Judi Dench era Lady Macbeth e il suo urlo sembrava provenire dall’anima. Anima e corpo mi dicevano che era questo a cui tendere, così ho seguito la mia strada».
Deve essere stato tutt’altro che semplice…
«Si iniziava dai testi, la voce è venuta dopo, mi sono chiusa in casa giorni a scrivere. Quello che all’establishment non piaceva di me era ciò per cui la gente mi amava. Io sono la stessa persona con tutti, quando scrivo condivido un punto di vista, chiunque può ritrovarsi. Siamo diventati una band di successo grazie al pubblico, certo non grazie alla critica. Per noi è stato difficile soprattutto in Inghilterra, in Italia invece la gente leggeva i testi, ci capiva… Forse se avessi fatto RnB sarebbe stato diverso ma uscivamo dalle righe e dai cliché e spesso radio e magazine non sapevano come trattarci».
«Tutto è politico» dice un vostro brano. Qual era il significato allora? E oggi?
«Se tutto è politico perché si vuole evitare la politica? Tutto quello che fai, ciò che mangi ne è intriso. Non possiamo discutere di come arginare i cambiamenti climatici se non parliamo di politica. Non si può separare tutto ciò dalla vita di tutti i giorni, era questo il significato della canzone. Non eravamo una band politica ma la politica era in quello che facevamo. La ragione è semplice: sono cresciuta a Brixton, a quel tempo aveva pochi stimoli e ancor meno sovvenzioni economiche, il governo ci ignorava. In me è nato un modo di sentire politico sin da quando ero giovanissima perché vedevo e mi rendevo contro delle ingiustizie che avevo intorno. Questo era inevitabile si rispecchiasse nella musica, per questo motivo, almeno agli inizi, abbiamo avuto difficoltà a far passare i nostri brani radio. Lì cercavano visioni imparziali».
Ora vive a New York. Quale sentimento collettivo ha percepito dopo l’elezione di Biden?
«C’era qualcosa nell’aria. Il voto per la prima volta non aveva a che vedere con la solita disputa repubblicani vs. democratici era piuttosto un confronto tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Trump ha nuociuto in molti modi all’America e riacceso sentimenti di odio, il fatto che riuscisse ad avere tanto consenso destava sgomento. Appena la gente ha visto che ha perso le elezioni si è riversata in strada. Era un risultato inaspettato. Nessuno sapeva davvero come sarebbe andata, soprattutto dopo le scorse elezioni, nessuno credeva più ai pronostici. Quando il pericolo è stato allontanato l’atmosfera era improvvisamente diventata più leggera. Che ci piaccia o meno, Biden saprà affrontare l’emergenza sanitaria e dare risposte».
Il libro è pervaso da atmosfere di una Londra ormai lontana…Come era vivere e respirare questi stimoli a diciott’anni?
«La prima cosa che posso dire è che c’era privacy, negli Anni 90 era possibile sbagliare: se facevi qualcosa di cui ti pentivi, poi imparavi la lezione, si poteva fallire, credo che nel passaggio tra l’infanzia e la vita adulta sia importante. Poi c’era anche un’altra cosa, se perdevi un concerto perdevi tutto quello che c’era in settimana, non c’era modo di recuperarlo. Dovevi conoscere, intuire le location, magari trovare una macchina per raggiungere un posto tra i boschi e guidare cinque ore per ritrovarti in un luogo incredibile in mezzo al nulla. Ovunque in città suonavano band, il mio luogo del cuore era The Water Rats in King’s Cross, allora una zona con una cattiva fama. Noi correvamo dall’uscita della metro al locale come pazze per non imbatterci in situazioni pericolose..»
E oggi l’underground è ancora vivo?
«Sì, per me l’idea di underground oggi è più radicata che mai. Non è mai stata una realtà così ricca se si pensa ai generi che intercetta. Ci sono band strepitose ancora da scoprire, musicisti che hanno allestito uno studio in camera e non hanno ancora un’etichetta. La musica che si trova ascoltando playlist è incredibile al pari della creatività che c’è».
A proposito di creatività, cosa significa essere un’artista in questo periodo?
«Certamente aiuta. Siamo bravi a cambiare e ad adattarci alle condizioni esterne, poi è la prima volta da quando avevo 18 anni che sono nello stesso posto per un po’, quando lavoro come DJ prendo uno o due aerei alla settimana. Credo il punto sia questo: allenarci a trovare un po’ di serenità in questa situazione drammatica. E rimanere creativi guardando le cose da nuovi punti di osservazione».