La Stampa, 5 dicembre 2020
I Rohingya deportati sull’isola nata dal nulla
Mille e seicento pionieri sono partiti ieri mattina, stipati su barconi sotto il sole cocente del Golfo del Bengala. Destinazione: l’isola che non c’è. O meglio, che non c’era fino a quattordici anni fa, ma che adesso il governo del Bangladesh vuole far diventare la cittadella modello per una parte dei 700mila Rohingya fuggiti dai massacri dell’esercito birmano nel 2017 e da allora bloccati in squallidi campi profughi. Bhasan Char è diversa, così come lo sono le idee che si son fatti i pochi che l’hanno vista. Un paradiso, per chi l’ha architettata. Una gabbia dorata, per un profugo mandato in avanscoperta. O «l’Alcatraz dei Rohingya», secondo Human Rights Watch.
Tutto a Bhasan Char è talmente recente che su Google Maps l’isola di 53 chilometri quadrati è una macchia verde con una sola struttura: una moschea. Ma su questo accumulo di sedimenti che arrivano fin dall’Himalaya, portati dal fiume Meghna, in pochi anni il governo di Dacca ha piantato alberi, creato barriere anti-allagamenti in collaborazione con gli olandesi, spianato 43 chilometri di strade, installato pannelli solari e costruito una griglia ordinata di abitazioni, spendendo 350 milioni di dollari. L’ambiente è a dir poco sterile, una specie di caserma ai Tropici senza vita. Ma la vita verrà, e in fretta: il progetto è di portarci centomila Rohingya da qui a maggio, prima che la stagione dei monsoni renda il mare impraticabile, e l’isola chissà: con l’alta marea va sott’acqua un’ampia fascia di costa.
L’abitabilità se l’è data da solo il governo dell’autoritaria Sheikh Hasina, che si è felicemente appropriata del soprannome di «Madre dell’umanità» datole da un canale tv britannico per aver accolto i Rohingya in fuga dall’orrore. L’Onu non è stato consultato, e quindi non ha potuto fare nessun rilevamento sul campo. I giornalisti stranieri non sono ammessi, e i reporter locali portati sull’isola sono felici di compiacere il governo. Le Ong ci vedono una deportazione verso una prigione a cielo aperto camuffata da nobili intenti umanitari. E molti Rohingya lamentano di essere stati raggirati, se non proprio costretti al trasferimento.
«Ci hanno portato di forza. Quando ho saputo che la mia famiglia era sulla lista sono scappato, ma mi hanno preso», ha detto piangendo alla Reuters un profugo mentre montava sul bus che lo ha portato al barcone. Una giovane coppia ha messo la firma sulla lista del trasferimento pensando che fosse per le razioni di cibo, e da allora si è nascosta nel campo profughi. C’è chi ha ammesso di aver ricevuto incentivi in denaro. Ad altri è stato fatto credere che in futuro gli verrà data la precedenza per una nuova residenza in Birmania. La corruzione e le gang criminali nelle distese di baracche sulle colline attorno a Cox’s Bazaar hanno convinto alcuni a ricominciare daccapo lontano dalla costa. E poi ci sono le famiglie divise da maggio, quando i primi 300 Rohingya - naufraghi per settimane nel tentativo fallito di raggiungere la Malesia - sono stati portati a Bhasan Char.
Ufficialmente era una quarantena di due settimane come precauzione contro il coronavirus: ma erano invece le cavie per il progetto di popolamento dell’isola. Ad Amnesty International hanno raccontato di essere stufi del solito cibo due volte al giorno e del vivere in mezzo al nulla, in abitazioni poco sicure. «È peggio che una prigione. Se arriva una macchina, le fondamenta tremano». Ci sono anche già state accuse di molestie sessuali da parte di ufficiali governativi e membri della Marina bengalese, che ha in mano la gestione dell’isola.
Il governo di Dacca si difende elencando la lista di strutture ben più moderne rispetto a quelle dei campi dove in tutto abitano un milione di profughi, alcuni fin dai primi anni Novanta. Una camera di 16 metri quadri per famiglia con letti a castello, acqua potabile, elettricità, due ospedali da venti letti, tre cliniche, parchi giochi, scuole, tre moschee, spazi per il mercato. Infrastrutture da pacifico sobborgo di periferia, se si trascurano le case costruite a quattro metri da terra in caso di allagamenti da ciclone, giusto a ricordare i rischi ambientali dell’abitare su un’isola piatta emersa dal nulla nel Golfo del Bengala.
Il dramma per i Rohingya è che, pur essendo un punto in mezzo al mare, uno sterile appartamento a Bashan Char potrebbe essere davvero meglio delle baracche di lamiera dei campi profughi di Kutupalong - il più affollato al mondo - e Nayapara. Ma è anche l’emblema di una condizione di emergenza che sta diventando normalità per una delle minoranze più discriminate al mondo: senza cittadinanza in una Birmania buddista che li vede come corpi estranei, senza possibilità di lavori legali in Bangladesh. Un popolo alla deriva, né sbocchi né speranza, su un’isola che ancora non esiste sulle mappe cartacee.