La Lettura, 6 dicembre 2020
Intervista al regista Ruben Östlund
Ha ospitato capi di Stato e divine, magnati e star del cinema, cantanti e coppie da leggenda. Churchill e Kennedy, Maria Callas e Marilyn Monroe, Liz Taylor e Richard Burton, Frank Sinatra e John Wayne. Lo svedese Ruben Östlund, Palma d’oro a Cannes nel 2017 con The Square, ha voluto il «Christina O», lo yacht più conosciuto del mondo, come una delle location chiave del nuovo film che ha anche sceneggiato, The triangle of sadness, «Il triangolo della tristezza», girato in inglese, potendo contare su un budget mai così alto, di cui nei giorni scorsi ha finito, tra mille peripezie, le riprese. «Sulla nave di Aristotele Onassis è salita tutta l’élite europea e americana. Ha un valore simbolico immenso, non solo economico. Amo giocare con i simboli». «La Lettura» lo ha incontrato.
Con «The Square», Palma d’oro a Cannes, ha preso di mira l’universo dell’arte contemporanea. Questo di cosa tratta?
«È una satira sul mondo della moda e dei super-ricchi. Mia moglie è una fotografa di moda, un ambiente che mi incuriosisce molto: fa un po’ paura, incute soggezione, con le sue gerarchie, il potere della bellezza, la supremazia delle élite. L’ho tempestata di domande e lei mi ha raccontato storie divertenti. Come sempre, vedo le cose dal punto di vista sociologico, dei comportamenti umani. Anche in questo caso il primo approccio al film è stato questo».
Al centro c’è una coppia di modelli...
«Carl (Harris Dickinson) e Yaya (Charlbi Dean). Ho pensato che fosse interessante un modello come protagonista. In questo mestiere gli uomini non sono importanti quanto le colleghe, guadagnano un terzo delle donne – per una volta, evviva! —. Ho iniziato a ragionare sulla bellezza come valuta che ti permette un’ascesa sociale in assenza di educazione e denaro, in genere quelli che ti aprono le porte. Nascere bello può farti vincere una lotteria. Anche senza possibilità economiche o culturali, la bellezza può farti salire la scala sociale. In più per un maschio usare la bellezza non è cosi ovvio, ha a che fare con i ruoli, con il concetto di mascolinità. Inoltre, quella dei modelli è una carriera corta, la bellezza è destinata a svanire con il tempo. Lui è molto preoccupato su cosa farà dopo, la sua carriera sta volgendo alla fine, ha problemi perché sta perdendo i capelli».
Cosa c’entra il «Christina O»?
«La coppia riceve un invito per una crociera di ultra-lusso. Li seguiamo su questo yacht, dove c’è la crème de la crème della società, che sfortunatamente fa naufragio. E i milionari, i due modelli e una donna delle pulizie, l’unica che sa pescare e accendere un fuoco, si ritrovano su un’isola deserta. Le gerarchie saltano. Cosa te ne fai della bellezza e dei soldi nella lotta per la sopravvivenza? Il modello va a letto con la signora delle pulizie per avere più cibo. Sono stato ispirato da Lina Wertmüller».
Suona familiare, in effetti.
«Non conoscevo il suo Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto prima di iniziare a girare; mi hanno suggerito di vederlo. È esattamente il tipo di cinema che voglio fare: divertente, intellettuale e popolare allo stesso tempo. E molto politico».
Qual è il ruolo di Woody Harrelson?
«Fa il comandante della nave, marxista convinto. Ha un sentimento ambivalente all’idea di fare il suo lavoro e portare a spasso per il Mediterraneo questo genere di ospiti. Ha uno spirito di rivalsa, un po’ gode quando c’è maltempo e tutti vomitano. Però con alcuni socializza. Si ubriaca e si diverte molto con un oligarca russo: iniziano a giocare con i microfoni, leggendo brani del Manifesto del Partito comunista di Karl Marx. Ho parlato molto con lui anche di politica, e del contenuto del film. Si è lasciato coinvolgere molto, gli è piaciuto il mio approccio».
I suoi protagonisti hanno sempre a che fare con situazioni imbarazzanti dal punto di vista sociale. Come ha spiegato: «Tutti i miei film parlano di persone che cercano di non perdere la faccia». Perché la vergogna la interessa tanto?
«La vergogna è l’attività del cervello che più sollecita il cervello, imbarazzante è una delle parole più cercate su Google. Mi piace andare dove fa male. Quando scrivo cerco sempre ispirazione in situazioni che mi sono capitate o che qualcuno mi ha raccontato, in cui il pubblico possa identificarsi ma che trovi difficili da gestire. Mi appassiona il dilemma di dover scegliere tra due cose, nessuna delle due facile. Più è complesso, più mi piace. I comportamenti umani sono il cuore dei miei interessi, cerco sempre legami con esperimenti sociologici. Per esempio, per preparare The triangle of sadness, mi sono imbattuto in una ricerca sulle zebre della savana. Che rivela aspetti interessanti della nostra tendenza a uniformarci ai nostri gruppi di riferimento, il conformismo dei comportamenti. Seguiamo il gregge. Noi esseri umani siamo animali da branco».
Questo è uno dei progetti europei più impegnativi dal punto di vista economico, ha un budget hollywoodiano. Come è stato girare durante la pandemia, avete temuto di non farcela?
«Per fortuna è andato tutto bene. Le riprese sono finite nei giorni scorsi. Avevamo cominciato in febbraio, il Covid, certo, ha complicato le cose ed eravamo preoccupati. Dopo una lunga pausa abbiamo ripreso a girare in giugno, in Grecia, in un piccolo centro, un po’ fuori dal mondo. Il nostro motto è stato: Stay negative!. È andata bene. Sono stati investiti molti soldi, è vero. Solo il costo dello yacht, potete immaginare, è enorme».
Lei è nato in una piccola isola di fronte a Göteborg. Come è diventato regista?
«Ho cominciato a fare film sullo sci, ho sempre amato quello sport, è stato parte della mia identità, dai 10 ai 25 anni. È stata di fatto una scuola di cinema per me, ore e ore a girare una cosa che amavo. Anche sulle Alpi, ho passato un inverno sul Monte Rosa, uno in Francia, era anche un modo per finanziare il mio sport. Poi ho studiato cinema all’università».
Il cinema del suo Paese è legato al nome di Ingmar Bergman.
«Il mio mentore e grande amico è Kalle Boman, che ha sempre lavorato con Roy Andersson. Da una parte Bergman, dall’altra loro. Li seguivo e anch’io mi sentivo anti-bergmaniano. Sono, creativamente, figli degli anni Sessanta, lo senti nel loro modo di fare cinema, sempre con una base politica, interessati agli aspetti sociali. E a mostrare la parte umanistica, un approccio affettuoso e allo stesso tempo critico contro il sistema e l’ingiustizia. Non li ho mai sentiti parlare di soldi, solo di contenuti. Dopo l’esperienza con i film sullo sci, ho conosciuto Kalle: lui mi ha formato. E ho scoperto il lavoro di Roy Anderson. Mi riconosco in questo, è stata la mia scuola».
Ha voluto nel cast Woody Harrelson. Sembra una tendenza comune – scritturare attori americani e anglosassoni – ad altri registi europei come Yorgos Lanthimos, Jacques Audiard, i nostri Paolo Sorrentino e Luca Gaudagnino...
«Non mi piace la globalizzazione, l’unica cosa che mi piace è che tutti possano vedere i miei film nel mondo... Scherzo. Quello che è cambiato per me, dopo il successo anche negli Usa di Forza maggiore e The Square, è avere allargato il parco di attori a cui posso rivolgermi. Contano che la produzione resti europea e che si riesca ad allargare l’audience. Pensi alla nostra migliore tradizione, per esempio Lina e Buñuel: sapevano essere profondi, divertenti, popolari. Il messaggio che voglio dare è che noi possiamo essere competitivi restando noi stessi».
Il film è in postproduzione, l’approdo naturale sarebbe il festival di Cannes 2021. Pensa che accadrà?
«Non so quando il circo dei festival ricomincerà a muoversi. Lo spero, certo, vorrei che fosse al centro di quelle discussioni sui film che sono il cuore delle grandi rassegne».
La pandemia ha cambiato anche il nostro modo di guardare i film.
«È un tema interessante. A casa ognuno guarda una cosa dal proprio device, manca lo scambio su cosa si è visto. Ma il bisogno di confronto, di discussione, non è scomparso. Ora mi sembra importante lavorare su questo, soprattutto come cineasti europei. Dobbiamo ricostruire il pubblico del cinema, a partire dai giovani, glielo dobbiamo, coinvolgendo scuole e università. Per esempio da noi qualunque autore abbia ottenuto finanziamenti dallo Sweden Film Institute si deve impegnare a portare in giro la sua opera. Una piccola grande cosa, che costa poco, secondo me più redditizia di tante campagne pubblicitarie. E potrebbe essere un esempio in tutta Europa».
È vero che lei rifiuta di uccidere i suoi personaggi?
«Fino a oggi sì. Sfortunatamente questa volta faccio un’eccezione. Ci è andata di mezzo una dolcissima vecchia coppia inglese, mi spiace. Sono tra gli 80 e i 90 anni, educatissimi anche con l’equipaggio, molto rispettosi, gentili, amati da tutti. A un certo punto Yaya chiede cosa fanno. Rispondono: “I nostri prodotti sono molto apprezzati, usati per portare democrazia in molte parti del mondo, le più vendute bombe a mano”. Alla fine, sopravvissuti al naufragio, vengono uccisi da una loro bomba, lanciata da una barchetta di pirati. Clementina si chiede: “Winston, ma non è una delle nostre?”».
Crudele. E cos’è il «triangolo della tristezza» del titolo?
«Quella ruga che ti viene tra le sopracciglia se hai molte preoccupazioni. Ma non bisogna preoccuparsi, si corregge con il botox, bastano pochi minuti».