La Lettura, 6 dicembre 2020
Povero calcio, senza le notizie
La morte di Alfredo Pigna (Napoli, 6 giugno 1926 – Roma, 19 novembre 2020) e del suo giornalismo sportivo porta tante domande sulla comunicazione sportiva di ieri e di oggi. Pigna inventò una Domenica sportiva da 10 milioni di telespettatori, qualcosa di importante che adesso non sarebbe nemmeno pensabile. Perché? Cos’è davvero cambiato? Come si troverebbe Gianni Brera nella comunicazione di oggi? Non è un discorso di qualità personale, è un discorso di metodo: all’epoca di Pigna, negli anni Settanta, la Rai era ancora l’unica televisione che esisteva in Italia. Non aveva concorrenza né sul video né alla radio. Chi voleva sentire il calcio in diretta aveva solo Tutto il calcio minuto per minuto, chi voleva vedere un piccolo riassunto della partita, aveva Novantesimo minuto o la Domenica sportiva. Comunque Rai.
Il monopolio permetteva di rendere meno pressante il problema della qualità individuale perché non c’era confronto possibile. Il mezzo regalava subito celebrità, la bravura non era sempre certa, ma diventava spesso una conseguenza. Faccio un esempio: Beppe Viola aveva doti straordinarie ma poche volte parlava di calcio. Quando raccontò un derby milanese scialbo finito zero a zero facendo vedere al suo posto un derby spettacolare di molti anni prima, fece una provocazione di grande giornalismo, ma non spiegò a nessuno perché quel derby era stato scialbo. Cosa che era forse il suo compito. Voglio dire che nel valutare la qualità dell’informazione sportiva non si può evitare di contestualizzarla nel tempo della sua materia. È più difficile con il calcio perché sembra sempre uguale, ogni domenica ci sono partite, sempre uomini in mutande da un secolo e sempre le stesse regole. Ma quando alziamo gli occhi dal televisore troviamo tecnologia infinita perfino nella nostra cucina. Il mondo è cambiato, quindi è cambiato anche il calcio che del mondo fa parte. E sono cambiati il modo di raccontarlo, le necessità dell’informazione sportiva.
Faccio un altro esempio: uno dei giudizi più famosi di Brera fu quello con cui definiva Rivera un abatino. Provate a scriverlo oggi, o anche solo a sussurrarlo con ironia per esempio su Totti o Del Piero, su Ronaldo o Ibrahimovic. Ne verrebbe fuori un caso nazionale da cui vorreste scappare il prima possibile. E non avreste una seconda occasione.
Per tutto il giornalismo sportivo del Novecento la competenza nel calcio è stata una dote non richiesta, diventava semmai successiva, costruita nel tempo. Ma nessuno assumeva un giornalista perché «capiva» di calcio. Allevarlo, adattarlo, era un dovere eventuale del mezzo di comunicazione. D’altra parte non poteva esserci competenza perché nessuno vedeva il calcio. Le partite si potevano vedere solo allo stadio. Calcolando una media di 30 mila spettatori per otto-nove partite, si arrivava ad appena 240-270 mila spettatori eventuali, quasi sempre gli stessi, meno dello 0,3 per cento del totale nazionale. Cioè nessuno. Quindi nessuno conosceva il calcio. Anche quelli che andavano allo stadio potevano vedere una sola squadra, la loro, due volte al mese. Il resto delle squadre si vedevano quando capitavano da noi in trasferta.
Questo aumentava l’epica, non la conoscenza. Ricordo i mormorii, i silenzi ammirati quando Mazzola o Rivera, ma anche Gullit o Matthaeus, toccavano la palla. Erano guardati come fossero Einstein o Picasso, uno spicchio di infinito che diventava reale. Era la fine del sentito dire, esistevano davvero. E noi con loro, un po’ di più. Ma la competenza no, quella non c’era, non poteva esserci. Era al massimo di quei sei-sette giornalisti di due-tre testate del Nord che avevano il privilegio di seguire ogni domenica le partite più importanti. Vedevano la parte migliore del calcio, ma restava una piccola parte. Il Bar Sport, le discussioni sotto gli archi delle città, erano lunghe e memorabili perché tutti parlavano di qualcosa che non avevano visto, quindi tutti avevano ragione in partenza. I 60 milioni di commissari tecnici italiani nascono così.
Era il tempo in cui l’élite della stampa sportiva aveva un potere assoluto perché era l’unica che dava giudizi. La Rai alludeva ma non poteva schierarsi, era di tutti. E il potere portava a grandi divisioni, anche a risse fisiche. Brera prese a pugni Gino Palumbo in tribuna stampa. C’era la sua scuola lombarda e quella «insopportabile» napoletana, meno personale, meno creativa, ma più complessiva e razionale. Ogni città aveva la sua firma potente. Contava più del presidente, molto più dell’allenatore. Le società, prima di prendere un tecnico nuovo, si consultavano con loro. E se loro dicevano di no, non lo prendevano. La stessa cosa facevano quando era il tempo di cacciarli. Un uomo solo, due al massimo, rappresentavano un mondo. Un giorno a Firenze, molti anni fa, il mio capo mi chiese se volevo andare con lui a Pisa a prendere Pesaola che rientrava da Napoli. Dissi di sì e chiesi perché non potevamo aspettarlo a Firenze. Lui mi disse che dal commento di Giordano Goggioli su «La Nazione», aveva capito che Pesaola sarebbe stato cacciato. Voleva anticipare gli altri. Arrivammo appena in tempo a Pisa per fare l’ultima intervista a Pesaola da allenatore della Fiorentina. Goggioli aveva deciso.
Siamo andati avanti così per tanto tempo, con questo vero governo delle firme. Quello era un mondo esagerato, ma l’informazione di oggi è lontanissima da quella forza perché i mezzi per comunicarla sono ormai infiniti. La grande firma di città è ancora ascoltata, ma non ha più potenza, non fa più paura. Non è un giudice, è un compagno di strada. Credo sia più giusto così. Oggi è cambiato il modo di frequentarsi tra giornalisti e giocatori. Fino a poco prima del Duemila erano pochi quelli che venivano mandati al seguito della squadra di città perché pochi erano i mezzi di comunicazione. E comunque viaggiare già costava. Il cronista, di solito un uomo giovane, con pochi anni in più dei giocatori, si muoveva con il gruppo, era sempre con loro. Era lì che prendevi confidenza, nelle sale di attesa, nei voli charter, aspettando qualcuno in un angolo fuori dallo spogliatoio perché capivi che aveva qualcosa da dire. Davi e prendevi, era un giro completo. Era il gioco dei mestieri. Ma tutti sapevano che non poteva esserci un gruppo completo senza quei tre-quattro cronisti fissi che facevano parlare la squadra con la propria realtà. Ricordo tante feste di Natale, tante vigilie di Pasqua in giro con le squadre, e sotto un albero di luci tutti insieme a brindare. E poi a giocare a sette e mezzo fino a tardi come soldati in trincea.
Tante volte uscendo da Appiano o Milanello mi davano uno strappo in città proprio Mazzola o Rivera. Una volta, non so più perché, fui io a riportare Burgnich a Milano da Verona con la mia Mini che riscaldava subito l’acqua e dovevamo fermarci a tutti i benzinai per rimetterla. Burgnich con l’innaffiatoio in mano e io che controllavo il livello. Erano rapporti reali, che durano ancora cinquant’anni dopo. Non c’erano scambi di informazioni segrete, ma punti di vista su un mondo comune. Nessun giocatore ti dava davvero una notizia, ma tutti te ne soffiavano mezza. E tu, alla fine del vento, avevi in mano la realtà. Se poi tardava, arrivavi al ricatto. Prendevi di mira il più debole, il più stressato, e cominciavi a dargli brutti voti in pagella. Quello veniva a protestare e tu gli dicevi che sì, il voto era ingiusto, ma nemmeno lui diceva il vero. Il compromesso era la notizia. Oggi le notizie sono quasi scomparse. O meglio, sono nella stragrande maggioranza guidate dalle società. Questo porta a un controllo molto ingombrante dell’informazione.
Se volete parlare con Pioli o Conte, con un allenatore in genere, dovete prima chiedere alla società, mettervi in fila e sentirvi dire che in questo momento è meglio di no, ci sono troppe partite. E quando mai otterrete l’intervista, vi troverete nella stanza non solo Conte, ma anche il direttore della comunicazione, vero ufficiale politico della nuova informazione calcistica. Il quale controlla il suo stesso allenatore, che dica cose conformi all’ortodossia della società. E controlla che il giornalista le riporti in modo poco sovversivo. Questo piacere del controllo ha cancellato qualunque rapporto. Nessuno parla più con nessuno. Un giocatore a turno parla ogni giorno in conferenza stampa, davanti a tutti e con l’ufficiale politico accanto. Quindi solo frasi di routine. L’allenatore parla solo prima e dopo le partite. E solo perché credo sia ancora previsto dai contratti televisivi. Herrera e Rocco (qui un ricordo di Gian Antonio Stella) alla fine di ogni allenamento uscivano dallo spogliatoio, tutti i giorni, guardavano i cronisti negli occhi, li volevano belli attenti, poi dicevano: «Vediamo oggi che titolo vi regalo». Cioè controllavano loro l’informazione, ma dandoti notizie. Ti evitavano di andarle a cercare, di pensare ad altro. Mourinho fa ancora così. Ha perfino messo per scritto che esistono due sue versioni, una di dichiarazioni ufficiali, cattive e scortesi, e l’altra «para amigos», assolutamente curiose e normali.
Internet ha funzionato da grande normalizzazione. Si sono moltiplicati i siti di una singola squadra, quindi le iscrizioni nelle tribune stampa, gli accreditati a fare una domanda al tecnico dopo la partita. Un direttore della comunicazione di una grande società mi raccontava che il primo a iscriversi alle domande in conferenza stampa dopo le partite era il direttore di un periodico di assicurazioni. Non c’entra niente con il calcio, ma è tifoso e gli piace parlare di calcio, così usufruisce del diritto alla regola una testata/una domanda. I siti sono spesso soggetti fragili, pieni di ragazzi che cercano di darsi un mestiere. Sono barche leggere nel mare di una società che è spesso una multinazionale. Non c’è copertura economica. Nel senso che se una società ti fa causa e chiede un milione di danni perché pensa che il suo nome da etichetta sia stato in qualche modo da lui macchiato, quel danno è superiore alla vita del sito e di tutti quelli che gli ruotano intorno. Chi può farsi carico del peso della causa? Basta chiedere i danni per rovinare mestieri, anche perdendo alla fine la causa. È troppa la differenza tra le parti. Questo indebolisce la maggior parte dei modi di informare e porta vicini a una comunicazione di parte. Questa sudditanza ha portato alla quasi totale scomparsa delle notizie.
Faccio un esempio recente, ma sono veramente tanti. La Roma ha cercato negli ultimi tre mesi il suo nuovo responsabile dell’area tecnica, l’uomo degli acquisti e delle idee, una figura di vertice, molto importante. Nessuno ha mai mostrato di saperne qualcosa. La notizia più attesa dall’arrivo dei Friedkin ha colto tutti di sorpresa. È stata la Roma, dopo cento giorni di ricerca, decine di viaggi e incontri, quindi altre decine di testimoni eventuali, a comunicare la scelta di Tiago Pinto, colpendo tutti al petto. Il mio vecchio direttore Giorgio Tosatti non lo avrebbe mai permesso, avrebbe gridato come un’aquila ferita finché non gli avessero portato un colpevole. Ma anche quelli erano tempi di monopolio. Ancora oggi tra società e giornalista deve esserci sempre un rapporto, la comprensione di un’utilità reciproca. Succede tra procuratori e cronisti giudiziari, tra poliziotti e cronisti di nera, tra grandi aziende e giornalisti economici.
Alla fine tutti siamo come veniamo raccontati. Conviene scegliere a noi chi ci racconta. Credo sia la legge fondamentale della comunicazione. Se una società di calcio non comunica, non apre qualche volta una porta, vuol dire che sente l’informazione come qualcosa di sconveniente, di ostile, con cui non conviene avere un vero rapporto. E questo è un errore che nel calcio si paga alla seconda sconfitta consecutiva, alla prima cessione impopolare. Si può informare e chiedere che la notizia rimanga riservata. Non è facile. Ma mettere sempre davanti al fatto compiuto chi lavora con te e per te è un errore. Alla fine resti solo. Eppure nel calcio oggi è così nella maggior parte dei casi.
Senza notizie, l’enorme informazione al tempo del web ha finito per organizzarsi senza. Non essendo disponibile la struttura, cioè l’evento, il campo, il calcio del presente, si è andati alla ricerca di una specie di oltre-struttura. Si cercano i pareri di chi non gioca più. Prendo la loro esperienza come fosse un presente continuamente simulato. Tu hai giocato ieri e puoi dirmi che cosa pensa uno che gioca quando entra in questo tipo di situazioni. È un pensiero corretto. Non c’è dubbio che l’arrivo degli ex calciatori abbia portato a una crescita di competenza dei giornalisti stessi, abbia via via selezionato la qualità e cambiato il linguaggio sportivo portandolo verso la gergalità propria degli atleti.
Personalmente ho imparato molto frequentando Vialli, Boban, Mauro, Marchegiani, Ambrosini, Marcolin, Causio, Altafini, Bergomi, Onofri, Del Piero, lo stesso Cravero che non conosco personalmente, il mio vecchio giocatore Adani, maestro di un linguaggio esasperato, solo suo, un po’ fuori banda, più un dialetto del calcio che un parlare da salotto, ma sempre dentro un sentimento forte che lo riequilibra. Sarei stato arido e colpevole se non avessi spiato ogni loro commento vedendo con loro le partite.
Io non posso sapere che cosa si prova a scendere in campo in una finale di Champions, ma da giornalista, da buon artigiano del calcio e da vecchio studioso, cioè venendo da una competenza diversa, posso cogliere segnali che loro non colgono. L’arrivo degli ex calciatori, fuori dalla cronaca della gara, per esteso, ha permesso di poter simulare la realtà. Ma ha facilitato una conseguenza ulteriore: oggi la comunicazione è soprattutto talk show dove si scambiano le opinioni per notizie. È l’unico modo per rendere certa la discussione, farla diventare la notizia che manca. Il calcio è come un mondo ghiacciato che vive sotto le nostre parole, che tutti vedono e nessuno tocca. Ma dove tutti possono continuare ad andare avanti attraverso due vite infinite e parallele. Si discute sulle nostre opinioni a proposito di informazioni che non possiamo dare per reali. Ci si accapiglia su questo, cioè su noi stessi. E i siti fanno rimbalzare dovunque i flash del pensiero comune che porta a una realtà compromessa. Questo sembra il massimo che nel 2020 ha saputo portare l’ingresso di internet nel nostro calcio: scambiarsi informazioni già pubblicate.
Uno straordinario socialismo del mestiere dove l’importante non è avere prima una notizia arricchendo il lavoro, ma entrare nel corteo di chi, attraverso la notizia di tutti, comunque esiste, comunque vive. Meglio avere uno sgabuzzino tutti che una casa vera qualcuno. Ma il mestiere del giornalista di calcio oggi è questo? Brera scuoterebbe il capo e si accenderebbe un Avana.