Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 02 Mercoledì calendario

Biografia di Enrico De Nicola di Piero Craveri

1. Introduzione – 2. L’attività forense e quella
municipale – 3. La vita parlamentare e la
presidenza della Camera dei deputati – 4. Gli
anni del fascismo – 5. Il ritorno alla vita pubblica
– 6. Capo provvisorio dello Stato.

1. Introduzione
Nel tratteggiare la figura di Enrico
De Nicola, quando si prende visione dei
discorsi parlamentari e d’ogni altra sua
manifestazione di pensiero, può stupire
che egli abbia lasciato così scarsa traccia
di sé in una tanto lunga carriera politica
e parlamentare. Era peraltro oratore
forbito ed efficace, come testimoniano
del resto i pochi discorsi di largo respiro,
raccolti dagli Atti parlamentari1, e i
non molti pronunciati in altre occasioni,
compresa la sua intensa attività di avvocato,
di cui ci rimane traccia in numerose
testimonianze. Egli, anzi, preparava
coscienziosamente i suoi interventi, ricchi
di pertinenti riferimenti e di citazioni
colte, secondo uno stile di indubbia origine
forense, la cui meticolosa cura è testimoniata,
tra l’altro, dalle copiose raccolte
manoscritte di frasi scelte e motti
celebri che le sue carte private conservano2.
Può stupire, inoltre, perché De Nicola
ha svolto nella storia parlamentare
e poi in quella iniziale delle istituzioni
repubblicane ruoli di primaria rilevanza
con riconosciuta perizia. Egli, infine,
possedeva un suo stile peculiare, che rimase
impresso nell’immaginazione dei
contemporanei, di cui la memorialistica,
nonché l’abbondante aneddotica3, forniscono
solo una traccia, dove la probità
dei costumi e il superiore distacco dalla
cronaca degli eventi si mescolano a una
acuta e naturale inclinazione realistica.
Uno stile che egli si era precocemente
formato nell’attività forense, costruendo
un’immagine di sé così «eccezionalmente
organica e coerente a una parte
importante della società e della cultura
napoletana»4.

2. L’attività forense e quella municipale
Laureatosi con Enrico Pessina nella
facoltà di giurisprudenza dell’Università
di Napoli, aveva subito iniziato a
frequentare le aule di Castel Capuano,
prima come cronista della rubrica giudiziaria
del «Don Marzio»5, poi come
procuratore legale. Il giornale era stato
fondato da Francesco Crispi sette anni
prima ed era diretto allora da Giuseppe
Turco (tra l’altro autore della fortunata
canzone Funiculì funiculà); a soli
vent’anni, nel 1897, De Nicola ne divenne
redattore. I suoi articoli spaziavano
dai fatti di costume alle questioni giudiziarie
e legislative e furono espressione
di un suo istintivo conservatorismo. In
un articolo del 2 gennaio 1897 difese le
attenuanti dell’uxoricida nel caso dell’adulterio;
sui numeri del 17-18 marzo
1898, 26-27 marzo 1898 e 26-27 ottobre
1898 scrisse condannando il duello (il 6
marzo Felice Cavallotti era stato ucciso
per mano di Ferruccio Macola) senza
però accettarne la definizione come
omicidio volontario; fu indulgente nel
considerare i profili psicologici dei criminali
(22 luglio 1897) e sul numero del
18-19 gennaio 1898 intervenne, seppure
indirettamente, in una polemica sorta intorno
al caso Dreyfus in occasione della
quale distinse cautamente «movimento
zoliano» e «movimento dreyfusiano».
La sua chiara impostazione conservatrice
non gli impedì tuttavia di farsi
portavoce di un saldo garantismo legale,
anche in questo caso testimoniato in
numerosi articoli. Sul «Don Marzio» del
16-17 maggio 1897 scrisse in materia di
comportamenti della polizia giudiziaria
esaminando il caso giudiziario dell’anarchico
Romeo Frezzi; il 15-16 e 25 giugno
dello stesso anno in materia di perizia
giudiziaria e il 2-3 luglio di pubblicità
dell’istruttoria.
Anche i suoi commenti di argomento
più politico erano ispirati da questo
garantismo, come nel caso di alcune polemiche
sulla magistratura (6-7 settembre
1897), fra le quali quella inerente
alle pressioni governative sul magistrato
nell’istruttoria del caso Crispi-Favilla
(3-4 febbraio 1898). Proprio con un articolo
di carattere politico, il più interessante,
si chiuse la sua collaborazione con
il «Don Marzio»: sul numero del 15-16
febbraio 1899, in contrasto con la linea
del giornale, De Nicola si schierò contro
i provvedimenti limitativi della libertà di
stampa approvati dal governo Pelloux.
L’attività giornalistica fu affiancata da
subito a quella forense e presto fu riconosciuto
fra i maggiori penalisti del foro
napoletano, segnalato dalle cronache in
una “triade” di cui facevano parte, con
lui, gli avvocati Gennaro Marciano e
Giovanni Porzio6.
Erano gli anni a cavallo del secolo, in
cui andava mutando la nomenclatura logica
dell’allegazione forense7, effetto di
una più consolidata dottrina e giurisprudenza,
a qualche decennio di distanza
dai nuovi codici unitari, e dalla diffusione
parallela delle nuove tesi della scuola
positiva, che mutavano i tradizionali
approcci retoricoumanistici
intorno alla
psicologia del reo e alla natura dei moventi.
Il che influiva anche sulle forme
di eloquenza: quella di De Nicola viene
portata ad esempio per il carattere scarno,
essenziale, privo di metafore, che
nulla concedeva se non all’analisi logica
dell’oggetto del giudizio.
Si tratta di argomenti ancora poco
indagati8, di cui si ha soprattutto una vasta
memorialistica celebrativa, quasi del
tutto priva di profili critici, e una grande
messe di allegazioni a stampa, com’era
costume del tempo, per la quale si dovrebbe
condurre un’indagine sistematica.
Tra queste, sono pochissime quelle di
De Nicola e risalgono ai primi anni della
sua attività9, mentre molte se ne conservano
manoscritte nel suo archivio privato,
insieme con un altro ampio e interessante
materiale di appunti sulla dottrina e
giurisprudenza.
De Nicola «dovette molto alle aule
dei tribunali e al suo studio di avvocato
»10. Il prestigio dell’attività forense
nella società meridionale di quest’epoca
è anche un segno caratteristico del suo
malessere nei riguardi dello Stato unitario.
Attraverso di essa si rendeva possibile
infatti la sublimazione di un rapporto,
che altri aspetti della vita civile non
consentivano, per la prevalente staticità
delle attività socioeconomiche
e per la
mancanza di garanzie che offriva l’azione
amministrativa, segnata da un esercizio
prevalentemente arbitrario dei poteri
e delle deleghe, tra corruttela e clientela.
La sfera giudiziaria poteva così apparire
come quella in cui i principi di statualità
si uniformavano a quelli dell’imparzialità,
se non della giustizia, grazie anche
a un Codice professionale della classe
forense, volto a esaltare questa sua funzione.
Il “principe del foro” svolgeva
dunque pregiudizialmente una funzione
sociale di tipo arbitrale, non sempre priva
di qualche ambiguità, tra la materia
contraddittoria dei fatti e dei rapporti
umani e sociali, che dovevano divenire
oggetto di definizione penale e civile, e la
forma della legge, a cui occorreva conferire
la sostanza di una interpretazione11.
De Nicola è un interprete emblematico
di questa vocazione, cosicché il «temperamento
di arbitro»12, divenne quasi
un tratto profondo della sua psicologia
e della sua stessa figura pubblica, che
in più contingenze politiche è sembrato
invece il riflesso di un’interiore fragilità
ed eccessiva personalizzazione delle circostanze.
In una società in cui, dunque, il passo
dall’avvocatura alla politica era assai
frequente, De Nicola fu presto spinto a
partecipare alla vita pubblica. Nel marzo
1907 era primo degli eletti della lista
clerico-moderata, guidata dal sindaco
uscente Ferdinando Del Carretto, che
conseguiva la maggioranza nel rinnovo
dell’amministrazione comunale di Napoli,
di contro al fascio liberale di Pasquale
Del Pezzo.
Rieletto sindaco Del Carretto, furono
proprio «uomini nuovi» come De Nicola
e Giovanni Porzio, a portare nella rinnovata
maggioranza aspirazioni più autenticamente
riformatrici, essendo «meno
legati alle impostazioni tradizionali degli
schieramenti cittadini»13.
Questa esperienza politico-amministrativa
soprattutto non alterò l’immagine
che di se stesso De Nicola era andato
forgiandosi nelle aule di tribunale. Si
mantenne solidale con la maggioranza
consiliare di cui era parte, formulando di
volta in volta critiche pertinenti e soprattutto
mantenendo un neutrale distacco
dal concreto operare dell’amministrazione
comunale. Il tratto caratteristico di
questo atteggiamento era in lui espressione
emblematica, portata spesso fino
al paradosso, di quella disposizione al
«pessimismo» assai diffusa nel ceto politico
meridionale, che non è propriamente
rassegnazione, ma consapevolezza dei
limiti di ogni azione pubblica e, nel contempo,
degli effettivi risultati che attraverso
di essa si possono realisticamente
conseguire nella più generale mancanza
di spirito pubblico.
Con queste peculiari caratteristiche
De Nicola fu per altro un esponente di
quel «medio ceto di professionisti», che
traeva la sua formazione civile dalla tradizione
culturale liberale del Risorgimento
e che può considerarsi il più autentico
depositario di una «coscienza dello Stato
», composto di «quei magistrati, professori,
avvocati, medici o ingegneri […]
altrettanto umili quanto virtuosi, severi
nel costume e rifuggenti dalle retoriche».
E la coscienza dello Stato, all’infuori di
questi ultimi, nel Mezzogiorno era quasi
del tutto assente, mancanza che non era
tanto «una questione di analfabetismo e
sottoproletariato», ma un dato storicopolitico
che investiva innanzitutto «la
borghesia, i “notabili”, le rappresentanze
politiche e amministrative»14.
Con Giovanni Porzio, nell’aprile del
1908, presentava una interpellanza in
cui scheletricamente riassumeva quelle
che parevano essere le emergenze della
vita cittadina di allora; illustrandola in
Consiglio comunale sottolineava come
non bastasse dare a Napoli un «avvenire
industriale» ma come il problema
primario fosse quello di assicurare una
efficace presenza dell’amministrazione
pubblica a ogni livello, premessa indispensabile
di una «profonda opera di
educazione civile»15. Negli anni in cui fu
consigliere restavano aperti i problemi
posti dalla legge per Napoli del 1904,
con il completamento del progetto del
“Risanamento”, l’impulso da dare al
programma di case popolari e la definizione
delle opere pubbliche necessarie.
Termine del confronto rimaneva ancora
il disegno nittiano, con l’allargamento
del territorio comunale e la creazione
di un ente pubblico per lo sfruttamento
delle acque del Volturno.
Sempre più pressante diveniva poi
il problema dei servizi pubblici, nettezza
urbana, trasporti, acquedotto, gas,
nell’alternativa fra concessioni ai privati,
con relative modalità, e municipalizzazioni.
I contrasti fra i diversi interessi locali
inducevano una condizione di semiparalisi
dell’amministrazione, rispetto a
cui puntuali erano le posizioni garantiste
e civiche assunte da De Nicola: sull’acquedotto16;
sulla nettezza urbana17; sulla
transazione per le acque del Volturno,
in cui propugnava la tesi dell’esproprio
per la pubblica utilità18: sulla convenzione
tranviaria19 e più in generale sul tema
delle municipalizzazioni20; sulle questioni
dell’autonomia del porto, distinte da
quelle delle concessioni di linee di navigazione
in cui, come De Nicola faceva
intendere, il problema era quello dell’atteggiamento
da assumere di fronte al
privilegiamento da parte del governo
degli interessi degli armatori genovesi21;
a favore delle priorità di programma per
le case popolari22.
Interessante è anche l’attenzione che
egli portava alle norme regolamentari
dei lavori del Consiglio e alla pubblicità
degli atti dell’amministrazione municipale23;
così come la sua posizione nella
controversia intorno alla applicazione
della legge speciale per Napoli, in cui
invitava a far convergere i programmi
della municipalità con i propositi della
commissione ministeriale, istituita dal
governo Luzzatti, che si mascherava dietro
un sospetto spirito autonomistico24.

3. La vita parlamentare e la presidenza
della Camera dei deputati
Le sue prese di posizione, per la nettezza
dei punti di vista che esprimevano,
tendevano così quasi sempre a differire
da quelle dell’amministrazione, anche
se egli continuava a mantenersi fedele a
essa, specie dopo che il parziale rinnovo
del Consiglio, nel 1909, aveva rafforzato
il peso delle opposizioni. Decresceva nel
contempo il suo impegno nel Consiglio
comunale con la sua elezione a deputato
per la XXIII legislatura (24 marzo
1909). Sembra che la sua carta vincente
in quella campagna elettorale nel collegio
di Afragola, fosse stato il sostegno
di un avvocato cattolico di Pomigliano
D’Arco, Mauro Leone, contro il giolittiano
Luigi Simeoni, ch’era il deputato
uscente25. «Il Mattino» aveva sostenuto
quest’ultimo26, salutando poi «con simpatia
» il nuovo eletto27, che più tardi
avrebbe riscosso il plauso di Matilde
Serao come «una forza giovane e prepotente
scagliata contro la musoneria delle
vecchie posizioni»28. De Nicola sarebbe
stato poi rieletto, sempre nel collegio
di Afragola, per la legislatura seguente,
nelle elezioni del 27 novembre 1913.
Entrato alla Camera aveva del resto quasi
subito fatto parte della maggioranza
giolittiana, come tenne a precisare, «non
per gratitudine elettorale, ma per intimo
convincimento», che non emerge, se si
guarda ai grandi dibattiti, ma piuttosto
dovette risultare in modo più discreto
dal lavoro parlamentare, in cui si fece
presto apprezzare come presidente di
commissione, relatore e commissario su
vari temi.
Tra i suoi interventi parlamentari
(discorsi o interrogazioni con risposta
scritta) spiccano quelli attinenti la materia
giudiziaria, specie due suoi discorsi
alla Camera, quello del 5 dicembre 1910
sul bilancio preventivo del ministero di
Grazia e giustizia29, notevole soprattutto
per l’ampiezza di argomentazioni e riferimenti
con cui affrontava il tema della
riforma dell’ordinamento giudiziario, e
quello del 31 maggio 1912 sul progetto
di legge per la riforma del Codice di procedura
penale, presentato da Camillo Finocchiaro
Aprile30, in cui De Nicola, tra
l’altro, si soffermava sull’esercizio dell’azione
penale, sull’ammissione in giudizio
delle associazioni di interesse pubblico
professionale per i reati che direttamente
le concernono, sulla pubblicità dei dibattimenti,
sulla costituzione del collegio in
Corte d’assise e sui vari aspetti della fase
istruttoria, sottolineando
in particolare
la modalità con cui esercitare i controlli
giurisdizionali sulla polizia giudiziaria,
quando proceda a interrogatori, ricognizioni
e confronti31.
A questi, sempre in materia giudiziaria,
si aggiungono poi minori interventi
in tema di studi di perfezionamento degli
uditori giudiziari, di modifica della legge
professionale forense, di abolizione del
domicilio coatto, di modifica della legge
sulle cancellerie e segreterie giudiziarie.
La stessa puntuale precisione hanno
interventi su altre materie quali quelli
concernenti le istituzioni finanziarie (vigilanza
sulla circolazione e sugli istituti
di emissione; gestione casse provinciali
credito agrario; monopolio per le assicurazioni
sulla vita) e quelli relativi alla
sua breve permanenza come sottosegretario
di Stato al ministero delle Colonie
nel governo Giolitti dal 27 novembre
1913 al 19 marzo del 1914, tra cui l’ordinamento
della colonia eritrea, nomina
ufficiali corpo Libia, aumento unità armi
combattenti, ecc. (sarà anche per pochi
mesi sottosegretario di Stato per il Tesoro
nel governo Orlando dal 19 gennaio
al 23 giugno 1919).
Naturalmente i problemi di Napoli
avevano un rilievo non secondario nella
sua attività parlamentare; in alcuni casi
si intrecciavano con le posizioni assunte
nel Consiglio comunale, come nel caso
delle linee marittime32 e dell’applicazione
della legge speciale su Napoli33 e
numerose altre questioni, ma rivelandosi
egli sempre uomo d’assemblea, di natura
superiore alla caratteristica routine della
più parte dei deputati meridionali legati
al gioco delle rispettive clientele.
Le qualità dimostrate nel lavoro parlamentare
e negli incarichi di governo che
aveva ricoperto, valsero a De Nicola la
fiducia e la stima, nel primo dopoguerra,
di molti degli uomini di spicco della vecchia
democrazia liberale. Poiché era tornato
alla Camera dei deputati nel dicembre
1919, dopo essere stato a capo della
lista democratica costituzionale nel collegio
di Napoli (che lo rieleggerà anche
nel 1921 e nel 1924), Vittorio Emanuele
Orlando, che ne era presidente, lo volle
membro della Giunta elezioni, di cui fu
eletto presidente, dirigendo con perizia
un organo della Camera dalle funzioni di
per sé delicate, ma ancor più difficile da
condurre, dopo la prima prova elettorale
con il sistema proporzionale, rispetto
a cui non erano adeguati i regolamenti
e mancavano i riferimenti decisivi alla
prassi. De Nicola mise in evidenza le sue
doti di imparziale mediatore riuscendo
«ad ottenere l’unanimità per l’elezione
di circa 480 deputati».
Questa esperienza, come De Nicola
stesso ricorderà, fu «un buon viatico»
per la sua elezione a presidente dell’Assemblea.
Dopo le dimissioni del governo
Nitti nel giugno del 1920, Orlando
volle seguire la vecchia prassi, lasciando
anch’egli la presidenza della Camera.
Fu dunque Giolitti, come incaricato di
formare il nuovo governo, a rivolgersi a
De Nicola. L’episodio merita di essere di
seguito riferito nella nota autobiografica,
scritta di sua mano sotto specie di intervista.
Un giorno trovai nella mia casella postale
di Montecitorio un biglietto dell’onorevole
Giolitti, che mi invitava a recarmi a
casa sua: la famosa modestissima casa di
via Cavour. Ci andai, con la preoccupazione
di ricevere qualche incarico del nuovo
Gabinetto: il che mi rincresceva molto,
perché mi costringeva a sospendere l’esercizio
forense, che ha rappresentato la prassi
costante della mia vita. Dissi al Presidente
che per lui non era il caso di fare rallegramenti
e di formulare auguri. Il Presidente
mi disse che voleva informarmi della scelta,
a cui avrebbe presto provveduto, dei suoi
collaboratori e mi elencò i vari designati
in pectore per i vari dicasteri premettendo
che, come già nei ministeri precedenti,
egli intendeva riservare per sé il Ministero
dell’Interno, essendo convinto della necessità
che questo Ministero fosse diretto
dal Presidente del Consiglio. Passò poi ai
sottosegretari, facendomi il nome del solo
sottosegretario all’Interno che – a suo giudizio
– doveva essere un deputato esperto
in materia amministrativa: l’onorevole Corradini,
consigliere di Stato. In altre parole
la direzione della politica interna doveva
essere riservata al capo del Governo, la
direzione della parte amministrativa a un
competente in materia. Naturalmente non
trovai mai nulla da obiettare. Ma nell’animo
mio si affacciavano due sentimenti: uno
di letizia per essere rimasto libero, l’altro
di sorpresa per aver ricevuto notizie e per
essere stato richiesto di pareri da un Presidente
di incomparabile autorità e di grande
esperienza.
Sull’uscio della porta di casa, chiesi il
perché di un’omissione. Egli me ne diede
una spiegazione che mi indusse a dirgli:
scusi, Presidente, perché non istituisce il
sottosegretariato alla Presidenza del Consiglio?
Ella farà un’opera utilissima per tre
ragioni: 1) il sottosegretario potrà intervenire
in Consiglio dei Ministri per redigere
i verbali della seduta, che ora sono redatti
dal Ministro più giovane, il quale è così distratto
dalle discussioni che si svolgono fra
i suoi colleghi; 2) quel sottosegretario potrà
mantenere i rapporti fra Governo e Parlamento;
3) quel sottosegretario, partecipando
al Consiglio dei Ministri, presieduto da
lei, farà un tirocinio assai utile per la sua
carriera politica nell’interesse del Paese.
L’onorevole Giolitti apprezzò l’idea e
le ragioni che la sostenevano ed istituì, nel
Governo che formò, il Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio dei ministri.
Se il primo Sottosegretario alla Presidenza
fu l’onorevole Porzio, certamente
ella mi domanderà: perché l’onorevole
Giolitti la chiamò e le fece il discorso che
ho riferito? La risposta è semplice e anche
istruttiva. Data la ferma volontà dell’onorevole
Orlando di lasciare la Presidenza della
Camera, l’onorevole Giolitti aveva volto a
me l’attenzione e voleva che il nuovo Presidente
della Camera fosse informato in anticipo
come si sarebbe costituito il Ministero
di cui avrebbe dovuto sapere l’insieme34.
Che la scelta di Giolitti cadesse proprio
su De Nicola acquistava ulteriore
significato se si considera l’insistenza
con cui, fin dal discorso di Dronero, egli
sottolineava la necessità di «accrescere
l’autorità del Parlamento»35. La piena
restituzione al Parlamento del suo ruolo
statutario costituiva infatti un punto non
secondario del programma giolittiano.
Lo statista piemontese avvertiva come il
decadimento del suo ruolo istituzionale
potesse divenire fatale per la democrazia
liberale. Il sistema proporzionale, introdotto
da Nitti nel 1919, portava alla
ribalta i partiti come soggetti politici
primari; la fragilità delle maggioranze,
connessa alle pressanti contingenze del
dopoguerra, avevano determinato quasi
un’espropriazione del potere legislativo,
attraverso la prassi di delega e decretazione
del governo; questioni decisive,
come quelle della politica estera, non
trovavano nella Camera una procedura
di costante verifica, così da fare dei suoi
dibattiti un tramite significativo con la
pubblica opinione; l’enorme dilatazione
delle funzioni e poteri degli apparati burocratici,
dovuta alle necessità dell’organizzazione
bellica, avrebbe richiesto ora
un rinnovato impegno del Parlamento
a esercitare le sue funzioni di controllo,
attraverso i poteri di indagine e di
inchiesta; anche la stessa materia finanziaria
sfuggiva sempre più a un efficace
controllo parlamentare. Non solo quindi
la riforma parlamentare, ma la gestione
politica dei lavori parlamentari acquisiva
un valore determinante nel programma
di «restaurazione» giolittiana.
De Nicola fu eletto presidente della
Camera dei deputati il 26 giugno 1920.
Ancora Giolitti nota come il Parlamento
«fra il maggio e la metà di agosto avesse
lavorato con efficacia ad un programma
di restaurazione e di giustizia» quando
nel settembre sopravvenne «l’episodio
cosiddetto della occupazione delle fabbriche
»36. Tra l’altro in quel breve lasso
di tempo la Camera dei deputati varò la
riforma del suo regolamento, che pur
non abrogando quello precedente, modificava
profondamente il suo funzionamento
interno. Sollecitazioni erano già
venute da più parti nei mesi della presidenza
di Vittorio Emanuele Orlando37,
quando il 21 luglio 1920 la Commissione
permanente per il regolamento, presieduta
da De Nicola nella sua qualità di
presidente della Camera, presentò un
suo progetto in otto articoli, che il 10
agosto, integrato nel corso del dibattito,
veniva votato dall’Assemblea nella
sua stesura definitiva. Venivano istituiti
i gruppi parlamentari e le Commissioni
legislative permanenti con funzione referente
nel numero di nove, definendone
la composizione sulla base delle designazioni
dei gruppi, in ragione di un membro
per Commissione ogni venti deputati
e superando così il vecchio modello,
mutuato dal parlamentarismo francese,
che, a eccezione di tre commissioni permanenti
(Finanze, Industria agricoltura
e lavoro, Petizioni), affidava l’esame dei
progetti di legge a uffici costituiti ad hoc,
in parte su designazione del governo e
dell’opposizione, in parte per sorteggio.
La Camera aggiunse altri due articoli in
tema di autoconvocazione delle Commissioni
e della stessa Assemblea, una
vecchia aspirazione dei socialisti, che
l’avrebbero voluta prerogativa di una
minoranza qualificata, e che fu invece
attribuita alla maggioranza assoluta dei
suoi membri.
La Camera, durante la legislatura seguente,
nel giugno del 1922, sempre sulla
base di una proposta della Giunta del
regolamento presieduta da De Nicola,
apportò ulteriori aggiustamenti a questa
prima riforma, che davano diritto a tutti
i deputati di far parte delle commissioni,
ne abbassavano il numero legale,
ma soprattutto introducevano alcune
limitazioni al diritto di parola, sanzioni
disciplinari per fatti di estrema gravità
accaduti «nel recinto di Montecitorio»,
regole sul computo degli astenuti nelle
votazioni, particolari disposizioni sugli
emendamenti con carattere finanziario,
la istituzione di commissioni di indagine
su accuse mosse ai deputati e altre
innovazioni, che riflettevano un primo
adattamento di quella normativa ai fini
di una ordinata conduzione dei dibattiti
parlamentari. Vero è che alcune di esse
riflettevano anche le particolari condizioni
in cui si svolgeva allora la vita politica
e la loro stessa applicazione ebbe
di ciò a soffrire, cosicché scarsa fu ad
esempio la possibilità di verificare il funzionamento
delle commissioni permanenti,
per la prassi di delega legislativa
che, soprattutto dopo l’ottobre del 1922
(nel maggio 1924, poi, con la mozione
Grandi, tutte queste nuove norme regolamentari
verranno abrogate), divenne
una costante nei rapporti tra il governo e
la Camera, riducendo a poca cosa il loro
lavoro38.
Difficile resta stabilire quale sia stato
il contributo specifico portato da De Nicola
a questa riforma regolamentare, che
rimane comunque l’aggiornamento più
importante apportato in epoca liberale
al diritto parlamentare39. Certo egli ebbe
un ruolo nella stesura dell’originario
progetto formulato dalla Commissione
permanente per il regolamento40 e diede
probabilmente un impulso importante
ai lavori parlamentari, favorendo, nella
prima fase del luglio-agosto 1920, la loro
rapida conclusione, così come fu solerte
nel procedere alla applicazione delle
nuove norme, accelerando la costituzione
delle commissioni permanenti (novembre
1920)41.
Ma nel settembre 1920 la tensione sociale
determinata dall’occupazione delle
fabbriche creava già un clima difficile
anche ai fini di una piena restaurazione
dell’autorità del Parlamento. Il ruolo di
De Nicola si pose così subito in bilico
tra il momento istituzionale e quello più
propriamente politico. Grazie al primo
aveva potuto far maturare un’immagine
di sé che raccoglieva vasti consensi
in tutti i settori politici, non tanto per
la restaurazione dei fondamentali principi
costituzionali che erano connessi
alla funzione parlamentare, come doveva
notare polemicamente Gramsci42, ma
per quella sua funzione di garante, che a
De Nicola era congeniale, e che egli sapeva
mirabilmente imprimere nella direzione
dei lavori parlamentari.
De Nicola restava istintivamente aggrappato
a questo aspetto del suo ruolo,
che sentiva consono alla sua indole,
sebbene da più parti, per il precipitare
degli eventi politici, lo si chiamasse a più
dirette responsabilità politiche. Poiché
le figure di maggior spicco della democrazia
liberale, da Giolitti, a Nitti, a Orlando,
a Salandra, anche in virtù della
spiccata caratterizzazione della loro personalità,
dopo l’ultimo governo Giolitti,
nella Camera rinnovata dalle elezioni del
1921, non potevano più esercitare quel
ruolo di equilibrio, nel loro continuo avvicendarsi,
che era stato fino ad allora caratteristico
del sistema politico liberale,
l’attenzione si spostava sul proscenio in
cerca di uomini nuovi, che interpretassero
quel difficile momento di transizione.
Fu lo stesso Giolitti43 a fare per primo
al re il nome di De Nicola, insieme con
quello di Bonomi, come suo successore
nel giugno 1921. Lo accompagnavano i
voti di molti, ma passò la mano a Bonomi,
con una «ritrosia» che venne dai più
interpretata positivamente, come una
prudente sensibilità tattica44.
In realtà De Nicola seguiva con realismo
gli avvenimenti come risulta dalla
più compiuta e interessante riflessione
al riguardo, contenuta nel suo ultimo
Discorso elettorale45, e faceva risalire la
sconfitta elettorale di Giolitti a una serie
di cause, ma principalmente all’avversione
di una larga parte del ceto imprenditoriale,
dovuta in particolare alla «proposta
nominativa dei titoli», che aveva
minato dalle fondamenta la possibilità
di costituire un blocco costituzionale appoggiato
a destra, rispetto a cui le diffidenze
dei popolari verso l’uomo di Dronero
venivano a costituire una difficoltà
succedanea e ulteriore per una gestione
parlamentare della crisi politica. Così De
Nicola giustificava i suoi dinieghi ad assumere
responsabilità di governo, convinto
che la «unanimità dei consensi per
la designazione» non significasse «unanimità
di consensi per l’accettazione».
Nel luglio del 1921 De Nicola si impegnò
nelle trattative del «patto di pacificazione
»46, firmato poi nel suo ufficio
di presidente della Camera il 4 agosto47.
«Pacificazione tra i partiti socialista e fascista
» a cui lo stesso Bonomi non poteva
attribuire altro valore politico di «una
civile manifestazione di forza e volontà
»48, ma che costituiva invece una prova
speculare di debolezza dell’assetto politico-
istituzionale, perché legittimando il
fittizio valore di un’intesa tra le estreme,
dichiarava implicitamente l’impossibilita,
per la struttura statuale, di garantire
i presupposti legali della convivenza
civile e politica, e quindi l’effettiva inesistenza
di un equilibrio politico, che
pure formalmente il governo rappresentava
attraverso l’instabile maggioranza
parlamentare.
È stato del resto notato49 come, sia i
liberali sia i socialisti sembrarono in quel
momento non intendere qual era la peculiare
caratteristica di blocco d’ordine
eversivo propria del fascismo e le conseguenze
politiche che ne derivavano.
Mussolini intese al contrario l’occasione
tattica che il patto di pacificazione gli offriva
per accreditare la natura costituzionale
della sua politica, che la polemica
con le ali più estreme dello squadrismo,
nei mesi seguenti alla firma di quell’accordo,
e la sua personale vittoria al congresso
del Partito fascista nel novembre
1921, sembrarono convalidare; presupposto
che egli sentiva indispensabile, per
creare le condizioni e accelerare i tempi
di una conquista violenta e insieme legale
del potere.
Quando nel febbraio 1922 Bonomi fu
costretto alle dimissioni, il veto di Sturzo
a Giolitti fece cadere la scelta nuovamente
su De Nicola, che ricevette dal
re un incarico «ufficioso». Turati aveva
avvertito che egli era «il solo che muterebbe
l’atteggiamento del nostro gruppo
»50, che poi, dinnanzi alla necessità di
De Nicola di costituire l’eventuale suo
ministero con «una puntarella a destra»,
come si esprimeva la Kuliscioff51, veniva
precisandosi nel senso di una possibile
astensione socialista.
De Nicola passò la mano a Orlando
il 7 febbraio con una dichiarazione
in cui addossava alle eccessive pretese
del gruppo popolare la sua rinuncia,
su di una linea che era ancora di stretta
osservanza giolittiana. Ma dopo che anche
Orlando ebbe rimesso l’incarico,
questo tornò di nuovo a Giolitti, che
formulò il progetto di scavalcare il veto
dei popolari, acquisendo dal re l’impegno
di convocare nuovamente i comizi
elettorali, possibilmente avendo modificato
la legge elettorale, con un ritorno
al sistema uninominale, e avendo come
copertura la vicepresidenza di Orlando
e quella di De Nicola. Questa volta De
Nicola sembrò non condividere l’affondo
di Giolitti contro i popolari52, dichiarando
la sua indisponibilità e favorendo
la soluzione del governo Facta.
Queste titubanze non erano solamente
frutto del «suo temperamento critico
e nervoso»53, ma il risultato di una vera
e propria indeterminatezza di visione e
decisione, che tornò a riproporsi nella
crisi di luglio del governo Facta (la cui
mancata soluzione doveva sembrare la
definitiva dimostrazione dell’impossibilità
di fondare l’equilibrio politico-parlamentare
sui gruppi di democrazia liberale),
quando il suo nome venne ancora
alla ribalta, il che si risolveva in un ulteriore
segno della sua sostanziale inconsistenza
politica54, dandosi egli, dopo aver
appoggiato il reincarico allo stesso Facta,
a cementare l’unità dei gruppi liberaldemocratici
e a raccordare il tentativo
portato avanti in quelle circostanze da
Francesco CoccoOrtu,
quando ormai
una parte rilevante dei deputati rivolgeva
la sua attenzione verso il fascismo.
Così la sua credibilità politica si consumava
e, dopo l’avvento di Mussolini,
anche quella di garante dei lavori parlamentari
era messa a dura prova. Mussolini
esordiva alla Camera, per il voto di
fiducia, con il discorso del “bivacco”55,
cui reagirono solo le opposizioni, e nel
dibattito che ne seguì altri incidenti si
verificarono, culminati nelle intemperanze
fasciste di Cesare Maria De Vecchi,
che diedero a De Nicola lo spunto
per dimettersi e a Mussolini l’opportunità
di un omaggio formale alla dignità
del Parlamento, che indusse De Nicola a
riprendere la presidenza.
Rimase di fatto prigioniero della logica,
comune ad altri esponenti della
democrazia liberale, di fiancheggiatore
neutrale del fascismo, perdendo molte
delle simpatie iniziali, mentre i commenti
su di lui si facevano anche feroci, come
quello di Filippo Turati, che ora lo vedeva
come «un monumento di viltà»56, e di
Piero Gobetti, che già lo aveva descritto
come «il rappresentante della convenzionalità,
della retorica vuota, della debolezza,
dell’opportunismo»57.

4. Gli anni del fascismo
Dopo l’approvazione della nuova legge
elettorale diveniva difficile rinviare,
anche in termini personali, scelte decisive.
De Nicola era tra quelli che avevano
dimostrato la loro preferenza per un ritorno
al collegio uninominale, ma metteva
la legge Acerbo «in rapporto non
dello svolgimento normale della nostra
vita istituzionale, ma delle condizioni in
cui il Paese si trova». La normalizzazione
passava attraverso un salto nel buio.
Egli lo giustificava osservando che «non
rinnega, ma difende la libertà, chi ne
autorizza la sospensione, ma ad un patto:
che essa duri quanto il pericolo»58.
E non escludeva neppure che l’arbitro
esclusivo di questo patto fosse ormai
Mussolini. Tergiversò a lungo59 prima di
aderire alla Lista nazionale, di cui infine
fu capolista per il collegio di Napoli.
Il clima di illegalità in cui la campagna
elettorale si svolgeva non lo lasciò indifferente.
Egli divenne oggetto di attacchi
roventi da parte di tutte le opposizioni60.
Amadeo Bordiga seppe interpretare il significato
politico di questa convergenza
di polemiche sulla sua persona e lo sfidò
a contraddittorio alla chiusura della
campagna elettorale. De Nicola avvertì
allora che l’accettazione, o anche il rifiuto,
di quel confronto, conferiva alla sua
presenza nella campagna elettorale un
ruolo emblematico che non era nelle sue
intenzioni sostenere. Alla vigilia delle
elezioni, con una lettera a «Il Mattino»
(3-4 aprile 1924, che pubblicava anche
il citato discorso elettorale), annunciava
il suo ritiro dalla competizione, senza togliere
la solidarietà alla lista, ma con una
«irrevocabile» uscita di scena.
Eletto comunque deputato, non prestò
giuramento. Si tenne lontano dagli
eventi politici che portarono alla definitiva
stabilizzazione del regime fascista61.
Accettava la nomina a senatore (2 marzo
1929), sottolineando di essersi ritenuto
sempre «un funzionario dello Stato»62.
Nella sua «navicella» parlamentare della
I legislatura repubblicana è annotato che
«non prese mai parte ai lavori dell’Assemblea
». Una volta soltanto, tuttavia,
fece eccezione a questo voluto distacco,
per dare il suo voto favorevole ai Patti
lateranensi63.
Completamente ritirato nella vita privata
e professionale, senza intrattenere
pressoché alcun contatto con qualsivoglia
ambiente antifascista, tornò a esercitare
intensamente l’attività forense. Il
suo studio di penalista era uno dei maggiori
a Napoli e negli anni Trenta ebbe
come sostituti procuratori Giovanni
Leone64, Enrico Molè65, Vincenzo La
Rocca, Francesco De Martino e Vittorio
Granucci. De Nicola scrisse anche alcuni
saggi in materia penale66, e tra questi
il contributo più significativo fu il saggio
su Le due scuole penali67, in cui venne
ricostruendo circa un cinquantennio di
dispute dottrinali e di progetti di riforma
legislativa alla luce di quello che a lui
pareva essere il contrasto di principi tra
la scuola «neoclassica» o «tecnico-giuridica
» di Enrico Pessina e Francesco Carrara
e quella «positiva» di Enrico Ferri68.
Molti degli strumenti analitici e delle
innovazioni concettuali di quest’ultima,
lungo più di un ventennio di discussione
scientifica, erano già largamente nel
patrimonio della dottrina, e Ferri aveva
potuto dare la sua impronta al progetto
di Codice del 1921, che largo riscontro
di attenzione e di critica aveva raccolto
anche all’estero e nelle sedi internazionali.
Ma alcuni principi della dottrina erano
stati poi enfatizzati e ideologizzati da Alfredo
Rocco, così da pregiudicare delicati
profili sostanziali del nuovo Codice.
Il tentativo di De Nicola fu di fissare
sugli aspetti dottrinali più importanti
il punto di convergenza possibile tra i
due diversi approcci interpretativi, sgombrando
il terreno da teorizzazioni generali
più ampie, quali la presunta ispirazione
neoidealistica, in chiave attualistica,
che ad esempio veniva attribuita
al «soggettivismo
», per la considerazione della
«personalità del reo» propria della scuola
«positiva»69. L’innesto di principi diversi,
quale quello della «difesa sociale»,
di contro a quello della «tutela giuridica
» basata sulla «responsabilità morale»,
nella sua determinazione giuridico-oggettiva,
poneva problemi di definizione
del concetto stesso di pena (De Nicola
considerava acquisito il concetto di «individualizzazione
della pena, purché la
legge non si abbandoni all’arbitrio di
coloro che debbono applicarla»70), e di
distinzione tra questa e le misure di sicurezza,
distinzione che rendeva fondamentale
determinare, se dovesse «essere
tracciata dentro e non fuori del dominio
penale»71, e di conseguenza ancora, se le
misure di sicurezza dovessero farsi «in
aggiunta, e non in sostituzione, alle pene
per i delinquenti più pericolosi» e quindi,
se esse dovessero considerarsi come
provvedimenti amministrativi o giurisdizionali.
Il voluto distacco dottrinale di questo
saggio non è dunque privo di pregnanza
critica. Fingendosi «lontano dalla lotta
e dai contendenti quanto il geografo
lo è dall’esploratore», De Nicola entrava
nel merito di problemi il cui rilievo
politico-ideologico era evidente, senza
tuttavia esprimere un giudizio generale
sul «progetto» del codice Rocco, al di
là della contestazione che esso era «al
tempo stesso conservatore e rivoluzionario
» per la compenetrazione dei principi
delle due scuole. Su tre questioni, tuttavia,
la confisca dei beni al condannato,
il trattamento del delinquente per tendenza
congenita e specialmente l’introduzione
della pena di morte, a lungo egli
insisteva con molte argomentazioni per
segnare la sua netta ripulsa.
Il saggio su Le due scuole penali conclude
un ciclo di costante e attenta partecipazione
di De Nicola al dibattito sulla
materia penalistica72, che abbiamo visto
impegnarlo come parlamentare già durante
la sua prima legislatura. Aveva in
seguito fatto parte della Commissione
per la riforma del Codice penale istituita
nel settembre 1919 dal ministro Ludovico
Mortara e presieduta da Enrico Ferri,
che nel 1921 aveva concluso i suoi lavori
con il “progetto Ferri”, in larga parte
poi trasfuso nel codice Rocco. Durante
il processo di redazione di quest’ultimo
era stato chiamato a far parte della Commissione
ministeriale istituita nell’agosto
1926 dal ministro Alfredo Rocco e presieduta
dal magistrato Giovanni Appiani,
incaricata di vagliare le osservazioni
delle facoltà giuridiche e dei corpi giudiziari
e forensi, nonché di dare un parere
conclusivo sul progetto preliminare del
nuovo Codice penale. La sua partecipazione
si limitò alle prime due sedute
della Commissione73 e fu probabilmente
indotto a lasciare i lavori a seguito delle
profonde modificazioni della legislazione
penale e processuale penale, che il governo
fascista in quel periodo era andato
introducendo74.

5. Il ritorno alla vita pubblica
Tornò a far sentire la sua voce nella
vita pubblica dopo il 25 luglio con
un articolo su «Il Mattino» (25 agosto
1943), intitolato Parlamento e governo,
interessante per due profili istituzionali
che vi sono espressi, con la sua ribadita
preferenza per il sistema elettorale uninominale,
al fine di favorire maggioranze
stabili, e con l’espressa indicazione di disciplinare
il voto di sfiducia, per garantire
la solidità dei ministeri75.
Problemi che poi altre Costituenti,
come quella della Repubblica federale
tedesca, prenderanno in considerazione,
a differenza di quella italiana. Alla
data in cui De Nicola li espresse con una
critica esplicita non solo al sistema dei
partiti dell’epoca prefascista, ma anche
alla loro nuova configurazione come
partiti di massa, definitivamente acquisita
almeno dai maggiori di essi, questi
fattori erano del resto già evidenti nella
vita interna della coalizione delle forze
politiche rappresentate nel Comitato di
liberazione nazionale. In De Nicola questa
constatazione si accompagnava alla
preoccupazione delle modalità in cui doveva
riprendere forma la vita democratica.
Occorreva valutare le conseguenze
che sarebbero derivate al futuro sistema
costituzionale
da questo nuovo modo di
configurarsi delle forze politiche, considerazione
che rimase poi estranea al
successivo dibattito costituente, in particolare
nella formulazione dell’articolo
49 della Costituzione.
Il problema istituzionale lo vide del
resto subito impegnato in un ruolo che si
rivelò decisivo. Il suo nome compare nel
Diario di Croce alla data del 30 dicembre
194376, quando questi si incontrò con lui
per esporgli il progetto, che condivideva
con Sforza, di ottenere l’abdicazione di
Vittorio Emanuele III a favore del nipote
infante, rinviando a data da destinarsi
il problema istituzionale. Ciò rispondeva
all’esigenza di spianare la strada alla
costituzione di un governo antifascista,
intorno a cui a Roma i partiti raccolti nel
Cln avevano già sollevato pregiudiziali.
L’abdicazione poteva essere un possibile
punto di convergenza tra le forze
politiche che, sia nel rapporto con il paese,
sia in quello con gli Alleati, si vedevano
sollevate dall’ipoteca con il passato,
in cui indelebilmente era coinvolta la
figura del capo dello Stato. Per taluni
poi, come Croce, pareva anche l’unica
strada plausibile per salvare l’istituzione
monarchica.
De Nicola espresse un punto di vista
originale, sul quale aveva evidentemente
già riflettuto, quello di ricorrere
all’istituzione della luogotenenza, prevista
dalla prassi statutaria, con una sua
interpretazione «anomala», essendo la
motivazione normale di questa l’impedimento
«fisico» e non quello «morale»
del sovrano77. Croce faceva notare che
la proposta gli pareva «più della nostra
dannosa all’istituto monarchico», mentre
De Nicola insisteva osservando che
Vittorio Emanuele «all’abdicazione si
opporrà, ma vedrete che accetterà la luogotenenza
»78.
Malgrado le iniziali perplessità di
Croce, e soprattutto di Sforza79 l’intesa
avvenne sulla proposta di De Nicola,
che si assumeva l’incarico di comunicarla
personalmente a Vittorio Emanuele.
L’incontro avvenne a Ravello il 19 febbraio
1944 e merita di essere di seguito
riferito nella versione che ne diede lo
stesso De Nicola.
Croce e Sforza si dichiararono convinti
delle mie osservazioni e della mia proposta,
dicendo: «Come avete convinti noi,
andate a convincere il Re». Accettai. Vittorio
Emanuele si trovava allora a Brindisi,
ma era stato preannunziato che tra breve
si sarebbe trasferito a Ravello. Il viaggio a
Brindisi era lunghissimo in quel tempo ed
io proposi di aspettare che il Re raggiungesse
Ravello per avere il colloquio con lui.
Pochi giorni dopo – in una gelida e
tempestosa mattinata del febbraio 1944 –
mi avviai, solo, in automobile, a Ravello, attraverso
strade e curve, che non sono le attuali.
Lessi qualche anno fa, in un giornale,
che la mia macchina era seguita da un’altra
della Pubblica Sicurezza, ma ritengo che la
notizia sia inesatta.
Giunsi finalmente nella famosa villa
Ruffolo di Ravello, ove il Re – avendone
avuto il preavviso – mi aspettava. Io non
lo vedevo dal 1924, cioè dall’anno in cui
avevo lasciato prima – per lo scioglimento
della Camera – la carica del Presidente
dell’Assemblea e poi la vita politica. Fu
cortesissimo: ci salutammo – dopo venti
anni – come se ci fossimo lasciati il giorno
precedente.
Nell’automobile – durante il lungo e
malagevole percorso – avevo meditato sul
modo come affrontare la questione senza
provocare reazioni o proteste. E subito dissi:
«Maestà, noi studiosi di diritto penale
sappiamo che vi è una particolare forma
di responsabilità: la responsabilità obiettiva,
cioè responsabilità senza dolo, e senza
colpa. I sovrani hanno molte responsabilità
obiettive, fra le quali questa: il Sovrano che
dichiara guerra e la perde deve lasciare il
Trono: da Napoleone I a Napoleone III,
dagli Asburgo agli Hohenzollern, per indicare
i più importanti precedenti storici».
Illustrai la proposta della luogotenenza.
Il Re non mi rispondeva mai in modo
preciso: cioè né con un’accettazione, né
con un diniego. Divagava. Era la sua prassi
costante e giustificata dal suo posto e dalle
sue responsabilità – di fronte alle questioni
più gravi – e gli riusciva facile attuarla, perché
aveva una memoria ferrea. A lui si adattava
l’insegnamento: «Scire e reminiscere».
Dopo quattro ore di snervante colloquio,
il Re chiamò il duca Acquarone, Ministro
della Real Casa, che si trovava in una
camera attigua, e gli riferì la mia proposta,
senza svelare il suo pensiero, che restava
inespresso. Il duca disse al Re se potesse
rivolgermi una domanda. Avutane l’autorizzazione,
si rivolse a me dicendo: «Se sua
Maestà non accetta la sua proposta, lei è
disposto a costituire con la permanenza del
Re un Ministero politico?». Ed io mi affrettai
a rispondere che la domanda rivoltami
era in aperto contrasto con la mia proposta
e con le ragioni che l’avevano determinata.
Immediatamente il duca Acquarone, rivolgendosi
al Re, gli disse: «Maestà, non esiti
un istante: accetti la proposta». Ed il Re,
senza indugio, rispose: «Accetto».
Io mi affrettai a dichiarare che l’accettazione
non era valida, se non fosse stata
meditata, e aggiunsi che la sera seguente il
duca Acquarone, alla stessa ora – alle 20 –,
avrebbe dovuto recarmi a Torre del Greco
la risposta definitiva. È inutile esporre i
motivi di questa mia prudente, cautelativa
richiesta, che – dopo molte inutili insistenze
dall’altra parte – poi finì con l’essere accolta.
Il Re mi pose una sola condizione:
che la sua firma per la nomina del Luogotenente
fosse apposta a Roma, appena fosse
stata liberata. Compresi la ragione della
condizione: il Re era partito da Roma come
Re e voleva ritornare come Re. Non opposi
nessuna obiezione alla richiesta. Mi permisi
soltanto di aggiungere: «Maestà, consenta
che io riprenda per un istante le mie
funzioni presidenziali, indicando l’obbligo
che ella ha di informare della sua decisione
il Presidente del Consiglio dei Ministri
ed il rappresentante dei governi alleati in
Napoli». Il re si schermì, invitandomi a recarmi
dall’uno e dall’altro, per la necessaria
comunicazione; ma io gli feci osservare
che non avevo nessuna veste ufficiale per
adempiere il duplice mandato. Si finì con
una transazione: il Re ne avrebbe informato
il Presidente del Consiglio ed io ne avrei
informato gli Alleati. E così fu fatto80.
In realtà, tra l’incontro di Ravello e il
decreto del giugno, intercorse un periodo
di incertezze. In un primo momento
Vittorio Emanuele parve tirarsi indietro,
forte del sostegno inglese. Solo verso la
metà di aprile il governo britannico dava
la sua approvazione al progetto, preoccupato
degli eventuali imprevedibili
sviluppi che l’accettazione da parte dei
comunisti del governo Badoglio, dopo
l’arrivo di Palmiro Togliatti (discorso di
Salerno, 1o aprile), avrebbe potuto avere
sulla politica interna italiana81. La stessa
preoccupazione muoveva Croce, Sforza
e De Nicola; il 6 aprile Croce leggeva la
nota, tra di loro concordata, alla Giunta
esecutiva dei partiti antifascisti, nominata
dal congresso di Bari, in cui rendeva
pubblico il passo compiuto da De Nicola
presso Vittorio Emanuele e il contenuto
della proposta, che anche Togliatti
accoglieva subito come dato acquisito
nei rapporti con la Corona, cui seguiva
l’annunzio di Vittorio Emanuele e la
presa d’atto dei partiti del Cnl a Roma82.
Il riconoscimento pubblico, per il
ruolo decisivo avuto da De Nicola nello
sciogliere questo delicatissimo nodo politico,
fu unanime. Sollecitato da Croce e
da altri a riprendere il suo posto nelle file
del Partito liberale, rimase in disparte.
Nel novembre 1944 Ivanoe Bonomi nel
formare il suo nuovo governo proponeva
a De Nicola di assumere la carica di ministro
dell’Interno, ma questi rifiutava,
evitando anche di essere convocato dal
luogotenente83. Accettava invece la nomina
di membro della Consulta nazionale
(12 settembre 1945), a cui diede un
fattivo contributo84.
Malgrado fosse stato caldamente invitato
a candidarsi nelle file liberali per
le elezioni dell’Assemblea costituente,
rifiutò recisamente, sembrando a taluni
che volesse così evitare di prendere
posizione sul referendum istituzionale e
mantenere una certa neutralità tra i partiti85.
Certo è che questo suo deliberato
proposito di tenersi fuori dalla mischia
favorì, assieme ad altre circostanze, la
sua candidatura vincente alla carica di
capo provvisorio dello Stato.

6. Capo provvisorio dello Stato
La prima adunanza dell’Assemblea
costituente era convocata per il 25 giugno
1946. Il suo adempimento pregiudiziale,
dopo il referendum istituzionale
che instaurava il regime repubblicano,
era l’elezione del capo provvisorio dello
Stato. Solo una minoranza di repubblicani
e azionisti pensava a una candidatura
di pura fede repubblicana. I socialisti
proposero la candidatura di Croce,
malgrado le riserve personali di questi e
il veto della Democrazia cristiana, che
voleva evitare una eccessiva accentuazione
laica della carica. De Gasperi pensava
comunque a una personalità della
democrazia prefascista, preferibilmente
monarchica e meridionale, valutando la
sua origine trentina e quella piemontese
di Saragat, neoeletto presidente dell’Assemblea,
che gli faceva di conseguenza
accantonare le candidature di Bonomi e
di Einaudi. Il candidato della Dc fu così
Vittorio Emanuele Orlando, a cui opposero
il loro veto i comunisti. Togliatti
accennò alla possibilità di eleggere una
personalità che non fosse necessariamente
membro della Costituente. Si
pensò in un primo tempo che egli si riferisse
ad Arturo Toscanini. Fu fatto naturalmente
anche il nome di De Nicola86,
sul quale (per quanto egli si schernisse,
respingendo la candidatura, ma senza
rifiutare l’eventuale elezione), si accertò
subito il consenso comunista e avvenne
la convergenza di tutte le maggiori forze
politiche. Il 28 giugno De Nicola era
eletto dalla Costituente capo provvisorio
dello Stato, con 396 voti su 50187.
Il suo messaggio all’Assemblea, tra le
righe, dava una lettura della situazione
politica, sottolineando che «dobbiamo
avere la coscienza dell’unica forza di cui
disponiamo: della nostra infrangibile
unione»88.
C’era anche l’auspicio di una conciliazione
più ampia, per adempiere l’opera
di ricostruzione, dalla quale avrebbero
potuto essere «non esclusi coloro i quali
si siano purificati da fatali errori, e antiche
colpe» (che del resto era in sintonia
con i provvedimenti sulle epurazioni da
poco deliberati dal governo), e la preoccupazione
per le difficili condizioni di
indipendenza e unità in cui l’Italia si trovava
nel concerto internazionale, chiara
allusione ai problemi che veniva proponendo
la definizione del trattato di pace
e alle malcelate reazioni che questi suscitavano
in più settori dell’Assemblea89.
Come residenza del capo provvisorio
dello Stato optò, d’accordo con il
governo, per palazzo Giustiniani, L’eco
del referendum istituzionale e dell’ampio
suffragio raccolto dalla monarchia
era troppo prossimo, perché tornasse al
Quirinale, sebbene subito dopo venisse
individuato come sede del prossimo presidente
della Repubblica. Il 21 ottobre
De Nicola, con un comunicato all’Ansa,
avrebbe affermato, per quanto riguardava
la destinazione dei beni dello Stato,
costituenti la dotazione della Corona,
che sarebbe stato il nuovo Parlamento
repubblicano a decidere quali restassero
a far parte dell’appannaggio del presidente
della Repubblica e quali restituiti
al demanio dello Stato90, sebbene egli si
adoperasse poi perché vi rimanesse Villa
Rosebery a Napoli.
Portava, nell’esercizio della sua funzione,
una semplicità austera, un senso
integerrimo della vita pubblica, un personale
antico disinteresse, che molto giovarono
all’immagine di quella carica, che
simbolizzava la nascente Repubblica91.
Si poneva nel suo caratteristico ruolo di
garante, al di fuori e al di sopra delle parti,
di tutte le parti. Lo stile era quello di
un ipersensibile formalismo, che per certi
versi tornava necessario (e De Nicola
fu da questo punto di vista l’uomo giusto
al posto giusto), dovendosi tra l’altro fissare
le regole procedurali e protocollari
nuove della prima magistratura repubblicana.
Un aspetto che De Nicola faceva
pesare nei rapporti politici, trovandosi
nella condizione di costituire, su più
questioni, il «precedente»92. I precedenti
in realtà c’erano, costituiti dalle procedure
protocollari e formali del periodo
della monarchia e da quelle più incerte,
per gli eventi contingenti in cui si espletarono,
della luogotenenza. Si trattava di
adeguarli alla nuova forma di Stato repubblicana
in tutti gli aspetti particolari
necessari e De Nicola vi si attenne con
scrupolo. A riguardo contribuiva anche
la pregiudiziale della “continuità dello
Stato”, pietra angolare del percorso politico
e civile di quel secondo dopoguerra,
che aveva tratto ulteriore forza dall’allineamento
a esso del Partito comunista,
dopo la dichiarazione resa a Salerno da
Togliatti (e in seguito con l’ingresso di
quel partito nel secondo governo Badoglio
e con l’avvento alla presidenza del
Consiglio di De Gasperi, con l’assenso
all’uscita di scena dei Cln), all’indomani
del suo ritorno in Italia, eseguendo una
direttiva che, alla sua partenza da Mosca,
gli era stata impartita da Stalin93 e
a cui di conseguenza dovettero acconciarsi
anche i socialisti, gli azionisti e in
fine i repubblicani che vi erano avversi,
lasciando qualche traccia nelle successive
ricostruzioni storiografiche94.
La scelta del presidente del Consiglio
era la più rilevante delle prerogative
che anche il capo provvisorio dello
Stato si trovava a svolgere e che dovette
sperimentare subito in occasione delle
dimissioni del governo, rese da De Gasperi
dopo la sua elezione il 2 luglio. De
Nicola procedette alla consultazione dei
presidenti della Camera dei deputati,
Saragat per l’Assemblea costituente, Orlando
come ex presidente della Camera
e Sforza della Consulta, poi i rappresentanti
dei partiti presenti nell’Assemblea,
nel loro ordine alfabetico95, a cui seguiva
l’incarico a De Gasperi, con l’onere di
riferire quotidianamente sull’iter di formazione
del governo, infine il 13 luglio lo
nominava presidente del Consiglio per
convocarlo il giorno seguente per il giuramento
dell’intero governo. La formula
del giuramento non sarebbe stata diversa
da quella usata dai precedenti gabinetti,
se si eccettua il soppresso riferimento
al rispetto della tregua istituzionale, divenuto
ormai superfluo. Ogni ministro
giurò sul proprio onore di esercitare le
sue funzioni nell’interesse supremo della
nazione96. Successivamente sottoscrisse
un verbale che recò nella prima parte
gli estremi del decreto di nomina e nella
seconda la formula stessa. «Funzionarono
da testimoni il capo della segreteria
e il capo militare del presidente della
Repubblica»97. La stessa procedura De
Nicola avrebbe seguito per la formazione
del terzo governo De Gasperi, tra il
20 gennaio e il 2 febbraio del 1947. De
Nicola volle allora sottolineare, in un
incontro che ebbe con i giornalisti alla
conclusione della crisi, il carattere parlamentare
di quest’ultima e di conseguenza
la prassi ordinaria seguita98.
Diverso l’andamento della crisi di
governo apertasi nel maggio 1947, che
avrebbe portato alla rottura della maggioranza
tripartita della Dc con il Psi e il
Pci. Fu una svolta decisiva nella iniziale
vita della Repubblica. La nuova maggioranza
che avrebbe sostenuto il quarto
governo De Gasperi si sarebbe basata
sull’alleanza della Dc con i liberali, vicepresidente
del Consiglio e ministro
del Bilancio Luigi Einaudi, con l’appoggio
dei qualunquisti. Poi nel novembre
successivo, con l’ingresso al governo dei
repubblicani e dei socialdemocratici di
Saragat, si sarebbe inaugurato il decennio
centrista, che avrebbe portato all’esito
delle elezioni politiche e avrebbe reso
stabile per un decennio, dopo le elezioni
politiche del 18 aprile del 1948.
La crisi questa volta non aveva avuto
carattere parlamentare come la precedente
e De Nicola si mosse con cautela.
De Gasperi non stava solo per rompere
quell’unità delle forze politiche antifasciste
che aveva tratto origine dal Cln
e non operava neppure un trapasso a
una ipotesi di alternanza parlamentare.
Nella logica della Guerra fredda, che
egli aveva fino in fondo fatta propria, la
contrapposizione era di sistema, politico
ed economico, con anche il necessario
risvolto istituzionale. La rottura avrebbe
bensì attraversato il regime parlamentare
della Costituente e quello che si sarebbe
incardinato nella prossima futura Costituzione,
ma avrebbe appunto avuto,
da un punto di vista politico, carattere
sistemico, spingendo ai margini le estreme,
allora soprattutto i partiti di sinistra,
il Pci e il Psi, con l’intento di costruire
attorno ai partiti di centro, che costituivano
la maggioranza di governo, l’asse
portante della democrazia repubblicana.
E ciò escludeva in principio le altre forze
politiche a esso contrapposte, legittimate
costituzionalmente a rappresentarsi
nella sede parlamentare, ma a non adire
politicamente a quella di governo.
Era in un certo senso un ritorno al
regime parlamentare dell’età prefascista.
E tuttavia non ne era propriamente una
riedizione, perché i principali partiti che
componevano la nuova realtà politica
non erano forze semplicemente elettorali,
per di più fondate su di un suffragio
circoscritto, ma, almeno le principali,
erano partiti solidamente organizzati al
di fuori del sistema parlamentare stesso,
che si definivano di massa, avendo centinaia
di migliaia di iscritti e militanti. Erano
quel tipo di forze politiche già affacciatosi
nel primo dopoguerra e che non
avevano saputo trovare l’equilibrio necessario
per passare dallo Stato liberale
a una democrazia liberale, aprendo quel
varco in cui si era affermato il regime fascista.
E ora una parte di esse, raggruppate
intorno alla Democrazia cristiana,
guidata da De Gasperi, si candidavano
a costituire il nuovo equilibrio politico
della Repubblica in netta contrapposizione
ai partiti della sinistra in un regime
di democrazia parlamentare.
De Nicola, che aveva vissuto in prima
persona la crisi del sistema liberale prefascista,
ne percepiva la differenza ed era
consapevole che il passo, che De Gasperi
si apprestava a compiere, era necessario
e indifferibile, considerati gli sviluppi
della situazione internazionale, sui quali
si teneva costantemente al corrente, ma
intendeva anche come con ciò si riducesse
lo spazio del suo ruolo arbitrale, quale
si era figurato di perseguire.
Agli inizi di maggio aveva ricevuto
l’ammiraglio Ellery Wheeler Stone che
gli aveva esposto l’orientamento delle
autorità alleate. De Gasperi il 4 maggio
gli aveva sottolineato l’inevitabilità della
crisi. Prima che questa venisse dichiarata
iniziò un giro informale di consultazioni
con Orlando, Saragat e Nenni. Il 9 tornò
ad avere un lungo colloquio con De Gasperi
e il 13 seguivano anche formalmente
le dimissioni del governo. Fin dall’inizio
della crisi, data la rottura che così si
determinava, De Nicola, esaurito il giro
protocollare di consultazioni, ritenne
opportuno orientarsi, in primis, verso
l’incarico a un ex presidente del Consiglio
per decantare la situazione, avendo
in mente Francesco Saverio Nitti e Vittorio
Emanuele Orlando. De Gasperi si
acconciò a questa procedura, suggerendo
il secondo; De Nicola incaricò invece
il primo, più vicino alle sinistre. Egli
volle così sottolineare il carattere neutro
di quella scelta, intrattenendosi, dopo
aver conferito l’incarico, con i giornalisti
a palazzo Giustiniani99. Nitti iniziò le sue
consultazioni il 16 per rassegnare l’incarico
il 20, pur senza avere nessuna possibilità
di riuscirvi100. Furono giorni di
sofferenza per De Gasperi, che temeva
di perdere il controllo della situazione, e
di cui ci sono larghe tracce negli incontri
che egli a sua volta informalmente teneva101,
lasciando il segno nei suoi rapporti
con De Nicola.
L’incarico passò così a Orlando il 22
e questi esauriva il suo mandato in quella
giornata, presentando la sera stessa
le sue dimissioni. La crisi rientrava così
nell’ambito dei partiti e De Nicola il 23
riprendeva un breve giro di consultazioni.
Era un venerdì102 e, poiché egli era
anche in questo scrupoloso, avrebbe
rinviato al giorno seguente di conferire
l’incarico a De Gasperi. Da questo momento
il nocciolo della trattativa rimase
saldamente nelle mani di De Gasperi,
che respinse tutti i tentativi di Togliatti
per riannodare le fila del tripartito103.
Sciogliere questo nodo non fu facile
e allungò i tempi della crisi fino al 31
maggio in cui avrebbe presentato il suo
governo al capo provvisorio dello Stato.
De Gasperi trovò perplessità anche nel
suo partito. La preoccupazione centrale
era il mantenimento dell’ordine pubblico104.
Anche De Nicola, che seguiva con
costanza questo problema, come mostrano
anche le sue carte d’archivio105,
volle accertarsene di persona, ed ebbe su
ciò un incontro con Emilio Sereni, che
sottolineava come la prevista soluzione
della crisi avrebbe potuto «non trovare
un’eco favorevole nelle classi lavoratrici
» e il 29, in un lungo colloquio con De
Gasperi e Scelba, De Nicola avrebbe
avuto assicurazioni sul controllo che si
sarebbe esercitato a difesa dell’ordine
pubblico che aveva richiesto.
De Nicola interferì sull’andamento
della crisi su un altro tema decisivo, invitando
De Gasperi a non fare entrare nella
compagine di governo rappresentanti
dell’Uomo qualunque. L’alleanza della
Dc con il Pli non forniva la maggioranza
sufficiente. Il voto dei qualunquisti era
necessario e De Gasperi l’ottenne tramite
Angelo Costa che sollecitò Achille
Lauro a intervenire, avendo questi più
di un argomento convincente verso quel
movimento di cui era finanziatore e che
provvide a sospingere i deputati qualunquisti
verso il voto favorevole al governo
(votò contro solo Guglielmo Giannini),
gettando così anche le premesse della
sua stessa avventura politica degli anni
Cinquanta106.
L’avvio del nuovo governo coincise
con le celebrazioni per il primo anno
della Repubblica, che videro anche una
visita del capo provvisorio dello Stato a
Montecitorio. Congedandosi nella Sala
della Lupa, De Nicola avrebbe detto al
presidente dell’Assemblea costituente,
Umberto Terracini: «Annetto un’importanza
enorme a questa cerimonia, non
tanto per la cerimonia in sé, ma in quanto
significa che un periodo di transizione
si chiude e si chiude tranquillamente
». «Ciò significa che è definitivo», gli
domandava allora quest’ultimo, ed egli
rispondeva: «Sì, esattamente». Questo
scambio di battute, riportato dalla stampa107,
mostra come De Nicola fosse consapevole
del trapasso che si era operato
con la crisi di governo del maggio 1947.
Intese tuttavia mantenere un margine di
neutralità arbitrale che era conforme alla
sua carica che lo poneva al di sopra dei
partiti.
Poiché il decreto luogotenenziale, che
aveva indetto il referendum istituzionale
e convocato le elezioni per l’Assemblea
costituente, aveva fissato la durata dei
lavori costituenti a un anno e i tempi si
erano invece allungati oltre quel termine,
il 17 giugno De Nicola firmava il decreto
di proroga della Costituente, manifestando
quel giorno stesso le intenzioni
di dimettersi, «determinato da motivi
di salute»108. Fu sollecitato a rimanere,
prima da De Gasperi e Terracini, poi da
tutti i capigruppo dell’Assemblea costituente,
infine da Benedetto Croce in un
lungo colloquio a palazzo Giustiniani109.
Il 25 dava all’Assemblea costituente le
dimissioni e tuttavia questa il 26 le respingeva
con 409 voti a favore, 6 dispersi,
19 schede bianche, una nulla. Dopo
qualche ulteriore resistenza nei suoi propositi,
ricevendo tra gli altri De Gasperi
e Di Vittorio, si acconciava a rimanere,
rivolgendo un caldo ringraziamento
all’Assemblea
costituente110. E questo
suo scrupolo formale, così tenacemente
espresso, nella sostanza certificava che
una maggioranza diversa sorreggeva la
sua carica da quella che invece sosteneva
il governo111, il risultato che appunto
De Nicola voleva conseguire. Un risvolto
politico a cui egli teneva e tornò a ribadirlo,
rifiutandosi, a pochi mesi dalle elezioni
del 1948, di rivolgere agli Stati Uniti
un messaggio di ringraziamento per il
piano Marshall112, trincerandosi dietro
un’imparzialità, che taluni accusavano di
captatio benevolentiae verso le sinistre, in
vista delle elezioni presidenziali. Quale
che ne fosse l’interpretazione, questi atteggiamenti
non sfuggivano comunque
all’attenzione e sollevavano velati interrogativi,
anche a Washington, dove ci
si domandava, nell’ipotesi che il Fronte
popolare avesse preso la maggioranza, «a
chi De Nicola avrebbe affidato l’incarico
di formare il nuovo governo»113.
Poiché parti estese di opinione pubblica
italiana, nel profondo dei loro sentimenti,
rimanevano discordanti, sia nei
confronti del nuovo regime repubblicano,
sia riguardo a molti aspetti della transizione
politica di quel dopoguerra, come
mostrano le reazioni al così detto “vento
del nord”, che era soffiato in modo diseguale
nelle diverse parti della penisola.
La visita del capo provvisorio dello Stato
nelle province italiane era così un evento
necessario e improcrastinabile. De Nicola
la perseguì, soprattutto nel primo anno
della sua carica, con numerosi viaggi nelle
province italiane: a Reggio Calabria
(agosto 1946), a Taranto (agosto 1946),
inaugurando la mostra del mare, a Palermo
(agosto 1946), a Mestre e Venezia
(settembre 1946) inaugurando una mostra
della ricostruzione, Milano (settembre
1946), per l’inaugurazione della Fiera
campionaria, a Torino (settembre 1946),
ad Assisi e Perugia, ottobre 1946) per le
celebrazioni francescane, nuovamente a
Palermo (ottobre 1946), per la Fiera del
Mediterraneo, a Napoli (ottobre 1946), a
Firenze (ottobre 1946), a Treviso e Montebelluna
(ottobre 1946), per la Fiera
campionaria internazionale114, a Genova
(novembre 1946) dove rese omaggio alla
tomba di Mazzini, presenziò all’inaugurazione
dell’anno accademico dell’università
e inaugurò la Camera di commercio,
partecipando poi a Sestri Levante al
varo della nave Caboto, sempre a novembre
visitava poi i capoluoghi di provincia
dell’Abruzzo e altri comuni, lo stesso
mese si recava a Bologna, conferendo la
medaglia d’oro alla città per la Resistenza.
Nel 1947 sarebbe andato ancora a
Firenze (novembre), per l’inaugurazione
del congresso forense115, e a dicembre a
Parma e a Modena per consegnare anche
qui la medaglia d’oro alla città116.
Seguiva con attenzione scrupolosa i
lavori di redazione della nuova Costituzione,
come testimoniano le cartelle di
atti e resoconti sommari dell’Assemblea
e della Commissione dei Settantacinque,
piene di sottolineature e di rapidi
appunti, che si trovano nel suo Archivio
privato117. Nilde Iotti, che fece parte
della Commissione dei Settantacinque,
ricorda come
qualche settimana dopo l’inizio dei nostri
lavori, De Nicola cominciasse ad invitare
a palazzo Giustiniani i componenti delle
sottocommissioni. Le riunioni con lui divennero
periodiche, piuttosto frequenti,
sempre informali. Rigoroso, sin dal primo
incontro, nel voler escludere qualsiasi interferenza
nel nostro lavoro, voleva però
essere aggiornato minuziosamente sui temi
in discussione, sullo stato di avanzamento
dei lavori, sulle decisioni di ciascuno e sulle
ragioni di tutti. Lo faceva senza far pesare
il suo incarico, ma dando, in ogni momento
prova di grande, consumata esperienza
giuridica, ed anche di discrezione nell’esprimere
le sue opinioni. Finì così che questa
sorta di riunioni informali si trasformassero
in una sorta di laboratorio aperto al
confronto; ricco di stimoli e suggestioni118.
Alle riunioni tra gli altri partecipavano
assiduamente Aldo Moro, Lelio Basso,
Giorgio La Pira, Dossetti, lo stesso Togliatti.
Ne dà testimonianza anche Meuccio
Ruini119, e si può dire così che accanto
alle operative “riunioni presso al caminetto”
di quest’ultimo si affiancava quindi
anche “il laboratorio di palazzo Giustiniani”,
sebbene da questi elementi certi
è difficile rendersi conto dell’influenza
che De Nicola ebbe effettivamente sulla
formazione della Carta costituzionale
e tanto meno sulla definizione di alcuni
suoi articoli. L’approfondimento è legato
ad alcuni accertamenti sulle carte dei Costituenti,
oltre a quelli sin qui compiuti
dalla letteratura storico-costituzionale,
sebbene la mano di De Nicola in alcuni
punti pare avvertirsi, come per esempio
nell’attribuzione al capo dello Stato della
presidenza del Consiglio superiore della
magistratura.
La politica estera del governo fu seguita
da De Nicola con acribia120, in
particolare con colloqui costanti con
De Gasperi e Nenni, specie sui problemi
dell’Istria, particolarmente sentiti da
ambedue121. L’adesione alla linea di De
Gasperi fu tuttavia costante. Partecipò in
modo significativo alla preparazione del
viaggio di De Gasperi negli Usa, accompagnandolo
alla partenza da Ciampino.
Avrebbe votato del resto, nel 1949, per il
Patto atlantico. Però forte fu il contrasto,
che ebbe carattere formale, ma sottaceva
un dissenso di sostanza con De Gasperi
e che avvenne sulla ratifica del trattato di
pace. Qui la riluttanza di De Nicola fu in
sintonia con sentimenti e riserve di altre
personalità dell’età liberale, a cui il trattato
pareva lesivo della dignità nazionale122.
Egli non si espresse pubblicamente
su questa materia, ma per via diplomatica
fece tuttavia sapere agli inglesi che «le
clausole territoriali erano dure, quelle riguardanti
le colonie molto dure e le limitazioni
alla marina italiana umilianti»123.
Il suo ufficio gli impediva però di schierarsi.
Come capo provvisorio dello Stato,
avrebbe dovuto procedere secondo
la competenza esclusiva che lo Statuto
albertino attribuiva al sovrano in materia
di trattati. Procedette invece con «sorprendente
» inventiva procedurale, cercando
di garantire, anche formalmente,
la sua distanza dall’evento, senza tuttavia
ostacolarne il corso. Nel febbraio 1947
conferiva all’ambasciatore Giacomo Soranzo
i pieni poteri di ratifica, «con riserva
» del voto «da parte dell’Assemblea
costituente». Che quest’ultima dovesse
pronunciarsi, era peraltro scelta politica
obbligata, richiesta dalle stesse potenze
cofirmatarie, e ne derivava che la sua
formulazione, come condizione diplomatica,
era comunque singolare124. Ma
poiché al trattato mancava ancora la ratifica
dell’Unione Sovietica, in attesa che
quest’ultima manifestasse chiaramente il
suo orientamento, con quanto ne conseguiva
sulla posizione dei partiti della
sinistra italiana, l’espediente era destinato
a favorire una maggiore sintonia delle
forze politiche, almeno sul modo di procedere
formalmente alla ratifica. E che
nella formulazione dell’espediente De
Nicola avesse contribuito, lo testimoniano
fonti americane125 e si deduce dallo
stesso Diario di Croce: «Il De Nicola ha
trovato una via di mezzo tra la ratifica e
il rinvio, ma ciò non riguarda [...] i miei
amici, perché noi siamo contro la ratifica
stessa»126. Una volta che l’Assemblea si
fu pronunziata, insistette per una formula
in cui la sua firma non avesse il significato
di «ratifica», ma di una «trasmissione
» della ratifica del governo, la cui,
peraltro irrilevante, interpretazione sotto
il profilo formale è ancora incerta127,
e in «cui è soprattutto evidente il velato
dissenso di De Nicola e il suo non volersi
gravare l’animo con quell’atto».
Entrata in funzione la nuova Costituzione
e finito quindi il periodo di transizione,
votando un ordine del giorno
presentato da Bonomi, l’Assemblea costituente
gli conferì il titolo di presidente
della Repubblica. Tuttavia De Nicola
colse allora l’occasione per precisare la
natura dei suoi poteri in quell’ultima
fase del suo mandato, sottolineando
come la “provvisorietà” avesse definito
fin dagli inizi il suo ruolo, ma che con
l’entrata in funzione della Costituzione,
questo si restringeva, al di là dell’ordinaria
amministrazione, ai meri atti urgenti
e indifferibili128.
Quando nel maggio 1948 il nuovo
Parlamento si apprestò a eleggere il
nuovo capo dello Stato, De Nicola, «che
desiderava il reincarico e sapeva dell’ostilità
degasperiana»129, ricorse alla sua
abituale linea, comunicando ufficialmente
di non voler accettare la conferma,
per sollecitare subito una disposizione
positiva della pubblica opinione e
una presa di posizione in tal senso dei
democristiani, facendo conto anche sul
fatto che la Costituzione, attraverso la
procedura dei primi tre scrutini con il
quorum dei due terzi, sembrava indicare
la preferenza per una maggioranza presidenziale
distinta da quella di governo130.
Il che era proprio quanto De Gasperi, in
quei frangenti politici, non voleva si verificasse131.
Così, mentre comunisti e socialisti
si pronunziavano a suo favore, la
direzione Dc prendeva subito atto della
sua rinuncia e candidava Sforza. Ne conseguì
che fino all’ultimo scrutinio, quando
venne eletto Einaudi, egli raccolse il
solo voto delle sinistre.
Tornò al Senato, come ex capo dello
Stato, e dopo la morte di Ivanoe Bonomi
il 28 aprile 1951, ne veniva eletto
presidente. Tenne la carica per un anno,
dando una prima volta le dimissioni nel
gennaio 1952, poi nel giugno seguente,
quando insistette, dinnanzi al reiterato
voto contrario del Senato, che infine le
accolse il 24 giugno. Questo ricorso alle
dimissioni che aveva, come si è visto, precedenti,
divenne allora quasi proverbiale.
Tuttavia anche qui, quello che era
caratteristico del suo stile non era l’atto
in sé, ma il modo di velare attraverso di
esso le sue più interne motivazioni. Nel
caso specifico delle dimissioni da presidente
del Senato, aveva lucidamente
presentito l’esito di quella legislatura,
con scioglimento anticipato della seconda
Camera e l’approvazione, in limine,
della legge maggioritaria, su cui anche
il suo successore, Giuseppe Paratore, si
sarebbe dimesso per lasciare quell’ufficio
a Meuccio Ruini.
Negli ultimi anni della sua attività
parlamentare, con la partecipazione a
numerose commissioni, tra cui la presidenza,
nel 1953, della Commissione del
Senato, volta a tracciare alcuni criteri
per la sua eventuale integrazione con
membri non elettivi, e anche se in questo
caso non seguirono risultati, difficile
resta, come in tutte le occasioni precedenti,
sceverare il contributo specifico
che De Nicola vi abbia portato, anche
se pare evidente che vi svolse un ruolo
importante, certamente quello arbitrale,
che a lui era probabilmente il più congeniale132.
Intervenne, inoltre, a numerosi
dibattiti, da quello a favore del Patto
atlantico nel 1949, a quelli sulla legge
speciale per Napoli del 1953, e soprattutto
a uno degli ultimi in tema di leggi
costituzionali e di revisione della Costituzione133,
con l’esercizio del potere di
interrogazione, interpellanza e iniziativa
legislativa134, dava testimonianza di un
rigoroso garantismo costituzionale e di
difesa strenua dei principi dello Stato di
diritto, raccogliendo consensi in alcuni
ambienti laici e di sinistra135.
Giovanni Gronchi, appena istituita
la Corte costituzionale, lo nominò giudice.
Di essa diveniva il primo presidente,
pronunziando il discorso inaugurale
(23 aprile 1956), nel quale sottolineava
il «compito assai arduo [...] della totale
organizzazione interna e della speciale
disciplina processuale, con una serie di
questioni da risolvere, ostacoli da rimuovere,
soprattutto di precedenti da creare
per la mancanza di quel complesso di
utili suggerimenti che il lontano passato
– attraverso la tradizione – tramanda al
futuro»136.
Era un ruolo che non gli era sconosciuto
e si applicò a esso con tenacia,
presiedendo assiduamente le udienze, in
cui, nel corso del primo anno di attività
si venne a deliberare anche su questioni
importanti, che diedero il segno di una
svolta137. In particolare due sentenze, una
sulla libertà dei culti acattolici, e un’altra
che aboliva la censura preventiva sui manifesti
cinematografici, furono oggetti di
reazione da parte cattolica, e la seconda
di un esplicito richiamo di Pio XII138.
Sopravvenne nel gennaio del 1957 un
conflitto con l’Alta corte della Regione
siciliana che, sulla base dello statuto regionale
del maggio 1946, si arrogava la
competenza in materia di conflitto tra la
Regione e lo Stato, che l’articolo 134 della
Costituzione aveva poi attribuito alla
Corte costituzionale. Le tergiversazioni
politiche del governo Segni, preoccupato
del dissenso politico della deputazione
siciliana, inducevano De Nicola a dimettersi
nel marzo del 1957139, attraverso
uno scambio di lettere con Gronchi, in
cui le motivazioni, sebbene nella sostanza
chiare, non risultavano esplicite, il che
dava adito a Gaetano Salvemini di ricordare
invece le diverse prassi di pubblicità
della Suprema corte americana140.
Negli ultimi anni della sua vita passò
la più parte del tempo nella sua casa di
Torre del Greco, testimonianza della sua
semplicità domestica e della severità del
suo decoro. Era anche l’unica cosa che
possedesse, cosicché, dopo la sua morte,
ivi avvenuta il 1o ottobre 1959, fu venduta,
per onorare i modesti legati del suo
testamento, alla Provincia di Napoli, che
la destinò a museo in sua memoria141.
1 E. De Nicola, Discorsi parlamentari, Roma,
Senato della Repubblica, 1991.
2 Queste raccolte manoscritte sono conservate
in ASPR, Archivio privato di Enrico De Nicola,
b. 11, fasc. 30-32.
3 Si veda la ricca raccolta di aneddoti di G.
Benincasa, L’importanza di chiamarsi Enrico ed
altri aneddoti su Enrico De Nicola, Napoli, Gabriele
e Mariateresa Benincasa, 2003.
4 G. Galasso, Profilo di De Nicola, in Id., Italia
democratica. Dai giacobini al Partito d’azione,
Firenze, Le Monnier, 1986, p. 191.
5 C. Nazzaro, Napoli sempreviva, Napoli,
Fiorentino, 1963, pp. 81-84; si veda anche M.
Vajro, Ragguagli sul giornalismo, in Ottant’anni
di Napoli, Circolo artistico politecnico, Napoli
1968, pp. 67-74.
6 Si vedano le numerose testimonianze di avvocati,
magistrati e giuristi, tra cui lo stesso De Nicola
nella prefazione a G. Porzio, Figure forensi,
Napoli, Jovine, 1963 e nel volume miscellaneo A
Enrico De Nicola nell’80o compleanno, con prefazione
di G. Porzio, Napoli, Casa del lavoro tipografico
V. Rappolla, 1957. Sono interessanti anche
le notizie raccolte da A. De Dominicis, La scomparsa
di Enrico De Nicola, in Napoli e i suoi avvocati,
a cura di M. Pisani Massamormile, Napoli,
Società Editrice Napoletana, 1975, pp. 345-363.
7 G. Leone, Enrico De Nicola, in Id., Testimonianze,
Milano, Mondadori, 1963, p. 118.
8 Contributi importanti su questo tema in I
giuristi e la crisi dello Stato liberale in Italia tra
Otto e Novecento, a cura di A. Mazzacane, Atti
del convegno (Bologna, 8-10 novembre 1984),
Napoli, Liguori, 1986 e Id., Diritto e giuristi
nella formazione dello Stato moderno in Italia, in
Origini dello Stato. Processi di formazione statale
in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di
G. Chittolini, A. Molho e P. Schiera, Bologna, Il
Mulino, 1994.
9 Si veda, ad esempio, Pel signor Antonio
Ricci, imputato di lesione, con un pugno, seguita
da morte, Napoli, s.n., 1901 e Per i signori avv.
F. Adinolfi e S. Tojani, imputati dei reali previsti
dagli articoli 275 e 176 del Codice Penale, Napoli,
s.n., 1901.
10 Galasso, Profilo di De Nicola, cit., p. 191.
11 Su questi aspetti è indicativo un tardo
articolo di De Nicola, in «Corriere d’Informazione
», 2 marzo 1959, in cui tra l’altro evoca la
figura dell’avvocato francese Lachaud, «acclamato
come l’avvocato delle passioni», ricordando
di lui l’aneddoto secondo cui a un presidente
di tribunale che gli diceva: «Quand on s’appelle
Lachaud on plaide moins» questi rispondesse:
«Je ne m’appelle pas Lachaud; je m’appelle: la
Défence».
12 A. De Marsico, Penalisti italiani, Napoli,
Jovene, 1960, p. 189.
13 L. Mascilli Migliorini, La vita politica e
amministrativa, in Napoli, a cura di G. Galasso,
Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 189.
14 F. Compagna, Benedetto Croce e i meridionalisti,
in Id., Il Meridione liberale. Antologia
degli scritti, a cura di G. Ciranna e E. Mazzetti,
Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 23.
15 L’interpellanza toccava i seguenti punti:
«a) applicazione della legge 1904 per l’incremento
industriale della città di Napoli; b) rincaro
delle case e dei viveri: c) edifizi scolastici; d) accattonaggio
e infanzia abbandonata; e) nettezza
pubblica fino a quando non sia attuato il capitolato
per la pubblica gara e concorso pubblico; f)
stazione della direttissima», in Verbali del Consiglio
comunale di Napoli, Svolgimento dell’interpellanza
dei consiglieri Porzio e De Nicola, tornata
del 15 aprile 1908.
16 «Il Mattino», 22-23 maggio e 15 giugno
1907.
17 Ivi, 23-24 maggio e 15 giugno 1907.
18 Ivi, 30 novembre 1907.
19 Ivi, 26-27 gennaio 1908 e 6-7 aprile 1910.
20 Ivi, 24-25 marzo 1908.
21 Ivi, 22 e 24-25 novembre 1909.
22 Ivi, 20-21 e 22-23 gennaio 1910.
23 Ivi, 28-29 giugno 1907.
24 Ivi, 11-12 ottobre 1910.
25 L’avvocato Mauro Leone, che aderirà al
Partito popolare, era a Pomigliano D’Arco l’oppositore
cattolico del giolittiano avvocato Centore;
il passaggio di De Nicola alla maggioranza giolittiana
determinerà una rottura tra i due, politica,
non personale: negli anni Trenta il figlio Giovanni
Leone sarà procuratore legale nello studio di De
Nicola. Sul tema si veda anche N. Valentino, Enrico
De Nicola, Roma, La Navicella, 1989, p. 24.
26 «Il Mattino», 21-22 febbraio e 7-8 marzo
1909.
27 Ivi, 8-9 marzo 1909.
28 Valentino, Enrico De Nicola, cit., p. 23.
29 De Nicola, Discorsi parlamentari, cit., pp.
85-114.
30 Ivi, pp. 61-81.
31 Per tutti questi interventi, ibidem, ad indicem.
32 F. Barbagallo, Stato, Parlamento e lotte politico-
sociali nel Mezzogiorno, 1900-1914, Napoli,
Guida, 1976, p. 55.
33 Ivi, pp. 461 ss. e A. Ghirelli, Napoli italiana.
La storia della città dopo il 1860, Torino,
Einaudi, 1977, p. 145; R. Colapietra, Napoli tra
dopoguerra e fascismo, Milano, Feltrinelli, 1962,
ad indicem.
34 Questa, come le citazioni precedenti, da
un ricordo autobiografico che De Nicola scrisse
in forma di intervista per Giovanni Ansaldo e che
questi pubblicò su «Il Mattino», 2 ottobre 1959,
e che qui sono riportate dal testo autografo di De
Nicola conservato in ASPR, Archivio privato di
Enrico De Nicola, b. 11, fasc. 35.
35 G. Giolitti, Memorie della mia vita, vol.
II, Milano, Treves, 1922, p. 557; si veda il passo
in proposito nel discorso di Dronero (15 agosto
1919) in G. Giolitti, Discorsi extraparlamentari,
Torino, Einaudi, 1952, p. 314. Per l’adesione di
De Nicola al discorso di Dronero, cfr. Carte di
Giovanni Giolitti, Quarant’anni di politica italiana,
a cura di C. Pavone, vol. III, Milano, Einaudi,
1962, p. 264.
36 Giolitti, Memorie, cit., p. 596.
37 P. Di Nuccio, Il regolamento della Camera
dei Deputati dal 1900 al 1922, in «Bollettino di
informazioni costituzionali e parlamentari», 2,
1987, p. 29.
38 P. Ungari, Profilo storico del diritto parlamentare
in Italia, Roma, Carucci, 1975, p. 107.
39 G. Ambrosini, Partiti politici e gruppi
parlamentari dopo la proporzionale, Firenze, La
Voce, 1921, p. 12.
40 P. Di Muccio, Il Presidente della Camera dei
Deputati in epoca statutaria (1848-1938), in «Il
Foro amministrativo», 1979, parte I, pp. 2048 ss.
41 Evoluzione delle norme regolamentari sotto
la presidenza di Enrico De Nicola, in «Rassegna
parlamentare», 1, 10, 1959, pp. 15-21.
42 A. Gramsci, Socialismo e fascismo, L’Ordine
nuovo, 1921-1922, Torino, Einaudi, 1966, pp.
192 ss.
43 Giolitti, Memorie, cit., p. 615.
44 Lettera di Giovanni Visconti Venosta (agosto
1921), in L. Albertini, Epistolario 1911-1926,
vol. III, Il dopoguerra, Milano, Mondadori, 1968,
p. 1487: «Ma dato che si tratti di velo di pudicizia,
si può dire che siamo al penultimo velo».
45 Pubblicato su «Il Mattino», 3-4 aprile
1924.
46 G. De Cesare, La crisi dello Stato liberale
e la posizione politica di De Nicola, in «Rassegna
parlamentare», 1, 10, 1959, pp. 61 ss.
47 L’originale da me visto nell’Archivio privato
di Enrico De Nicola, quando era conservato
ancora dall’Amministrazione Provinciale di Napoli,
non ritrovato ora nell’Archivio Storico della
Presidenza della Repubblica.
48 Lettera a De Nicola del 5 agosto, ASPR,
Archivio privato di Enrico De Nicola, b. 11,
fasc. 43.
49 R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista
del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi,
1966, p. 104
50 F. Turati e A. Kuliscioff, Carteggio, vol.
V, Dopoguerra e fascismo (1919-22), a cura di A.
Schiavi, Torino, Einaudi, 1953, p. 501.
51 Ivi, p. 540.
52 De Cesare, La crisi dello Stato liberale, cit.,
p. 68.
53 L. Salvatorelli e G. Mura, Storia d’Italia nel
periodo fascista, Torino, Einaudi, 1956, p. 180.
54 P. Alatri, Le origini del fascismo, Roma,
Editori Riuniti, 1956, p. 22.
55 Nel secondo dopoguerra, «Il Tempo» di
Roma, 23 marzo 1947, attribuì a De Nicola l’aver
impedito, in quella occasione, le proteste di
alcuni parlamentari. L’accusa si basava su una
falsificazione dei verbali della seduta, cfr. C.
Macrelli, In morte di Enrico De Nicola, in «Rassegna
parlamentare», 1959, pp. 31 ss.
56 Turati e Kuliscioff, Carteggio, cit., vol. VI,
Il delitto Matteotti e l’Aventino (1923-25), Torino,
Einaudi, 1959, p. 332.
57 P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano,
Torino, Einaudi, 1960, p. 332. Giudizi questi
che lasciavano il segno anche in alcune polemiche
del secondo dopoguerra, di cui è espressione
l’articolo di Guido Dorso su un giornale del Partito
d’Azione, intitolato Il ritorno di Celestino V,
ora in L’occasione storica, a cura di C. Muscetta,
Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 48 ss.
58 Dal suo Discorso elettorale, in «Il Mattino»,
3-4 aprile 1924, poi ripubblicato in «L’Osservatore
politico letterario», 15, 9, 1979, pp. 39-76.
59 A. Lyttelton, La conquista del potere. Il
fascismo dal 1919 al 1929, Roma-Bari, Laterza,
1974, p. 246.
60 M. Bernabei, Fascismo e nazionalismo in
Campania (1919-1925), Roma, Edizioni di Storia
e Letteratura, 1975, pp. 85 ss.
61 Cfr. il rapporto dell’alto commissario di
P.S. per la provincia di Napoli del 22 luglio 1927,
in Valentino, Enrico De Nicola, cit., p. 56.
62 M. Viana, La monarchia e il fascismo,
Roma, L’Arnia, 1954, p. 697.
63 AP, Senato, Discussioni, Leg. XXVIII, 25
maggio 1929, pp. 209, 301.
64 Si veda G. Leone, Attualità di Enrico De
Nicola, Napoli, Jovene, 1996.
65 Si veda E. Molè, Il destino singolare di
Enrico De Nicola, in «Nuova Antologia», 94, 12,
1959, pp. 41 ss.
66 Vanno ricordati Il dolo nel delitto di falsità
nei bilanci delle società commerciali, in «Annali di
diritto e procedura penale», 5, 1, 1936, pp. 3-13,
e I progressi penitenziari, in «Rivista di diritto
penitenziario», 1, 1935, pp. 1-34. Si veda anche
il breve contributo intitolato Vent’anni dopo, in
Studi in onore di Silvio Longhi, Roma, Tipografia
de l’Italie, 1935, pp. 36 s.
67 Le due scuole penali (dissensi teorici e consensi
pratici), in Scritti in onore di Enrico Ferri
per il cinquantesimo anno di suo insegnamento
universitario, Torino, Unione tipografico-editrice
torinese, 1929, pp. 133-166.
68 Ne Le due scuole penali si tiene presente in
più punti la Storia del diritto penale di Ugo Spirito,
la cui prima edizione (Roma 1925) era da
poco uscita, ma non se ne segue la distinzione tra
indirizzo classico, tecnico-giuridico ecclettico,
positivo, ecc.
69 Le due scuole penali, cit., p. 136.
70 Ivi, p. 143.
71 Ivi, p. 140.
72 Nel secondo dopoguerra tornerà su questo
tema: vanno ricordati il suo progetto di legge
sull’ordine professionale di avvocati e procuratori
(14 maggio 1954) e la sua partecipazione al
convegno di Bellagio nel 1953 sulle riforme della
procedura penale, in Atti del convegno nazionale
sulle più importanti riforme della procedura penale,
a cura del Centro nazionale di prevenzione e
difesa sociale, Milano, Giuffrè, 1954.
73 Dal 30 novembre 1927 al 28 febbraio
1928: della sua partecipazione sono rilevanti gli
interventi in materia di efficacia dei decreti non
convertiti in legge, di procedura di estradizione,
di delitti politici, che esprimono opinioni dissenzienti
dalla maggioranza e sono volti a ribadire
profili formali e sostanziali a garanzia dell’imputato,
cfr. Ministero della giustizia e degli affari di
culto, Lavori preparatori del codice penale e del
codice di procedura penale, vol. IV/2, Roma, Tipografia
delle Mantellate, 1929, pp. 23-40, 50.
74 G. Vassalli, Codice penale s.v., in Enciclopedia
del diritto, vol. VII, Milano, Giuffrè, 1960,
pp. 271 ss.
75 Negli anni della crisi del centrismo tornava
su questo tema con un articolo su La instabilità
ministeriale, in «Il Mattino», 18 dicembre 1957.
76 B. Croce, Quando l’Italia era divisa in due,
in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), vol.
II, Roma-Bari, Laterza, 1963, p. 232.
77 G. De Cesare, Enrico De Nicola e la questione
istituzionale, in Studi per il ventesimo anniversario
dell’Assemblea Costituente, vol. I, La
Costituente e la democrazia italiana, Firenze, Vallecchi,
1969, p. 161.
78 Croce, Quando l’Italia era divisa in due,
cit., p. 233.
79 Ivi, pp. 241 ss. (9 gennaio 1944).
80 Anche questa pagina autobiografica di De
Nicola fu pubblicata in forma di intervista da
G. Ansaldo, De Nicola racconta, in «Successo»,
1, 1959, pp. 52 ss., e l’originale, con le annotazioni
manoscritte di De Nicola, è conservato in
ASPR, Archivio privato di Enrico De Nicola, b.
11, fasc. 40. Nello stesso, numerosi appunti su
«la responsabilità della guerra», b. 11, fasc. 38-
39; inoltre nel fascicolo 40 si conserva ulteriore e
successivo appunto sul «problema istituzionale».
81 H. MacMillan, Diari di guerra. Il Mediterraneo
dal 1943 al 1944, Bologna, Il Mulino, 1987,
p. 571.
82 Una ricostruzione attenta di tutta la vicenda
è quella di F. De Martino, Un’epoca del socialismo,
Firenze, La nuova Italia, 1983, pp. 57 ss.
83 Si vedano F. Lucifero, L’ultimo Re. I diari
del ministro della Real Casa. 1944-1946, a cura
di A. Lucifero e F. Perfetti, Milano, Mondadori,
2002, pp. 205 ss.; il puntuale lavoro di A. Giacone,
Enrico De Nicola e la transizione istituzionale
tra Monarchia e Repubblica (1944-1946), in «Laboratoire
italien. Politique et société», 12, 2012,
pp. 279-296.
84 Assegnato alla Commissione affari politici
e amministrativi, fu subito presidente della
Commissione giustizia (29 settembre), licenziando
vari provvedimenti, tra cui alcuni in tema di
epurazioni e sanzioni a ex fascisti; divenne poi
componente della Commissione speciale per
l’esame della legge elettorale politica. Consulta
nazionale, III, Resoconti delle commissioni riunite,
IV, Resoconti sommari dei lavori delle singole
commissioni, ad indices; si veda anche Associazione
degli ex parlamentari della Repubblica,
Convegno di studio sulla consultazione nazionale,
Roma, s.n., 1989, passim.
85 Merita riferire l’aneddoto raccontato da
D. Bartoli, Da Vittorio Emanuele a Gronchi, Milano,
Longanesi, 1961, pp. 95 e ss.: «Qualche
mese prima delle elezioni del ‘46 per la Costituente,
Benedetto Croce e Giovanni Porzio, accompagnati
dal segretario del Partito Liberale,
Giovanni Cassandro, andarono a trovare Enrico
de Nicola. La visita fu improvvisa. L’avvocato
aprì personalmente la porta e rimase sorpreso
nel vedere giungere quegli ospiti inattesi. Croce
parlò per primo, brevemente, con chiarezza.
Disse all’interlocutore che era suo dovere prendere
posizione nella lotta elettorale: “L’ho fatto
io”, aggiunse il filosofo, “che non sono un uomo
politico; a maggior ragione dovete farlo voi, che
vi siete occupato di politica per trent’anni”. Poi
Croce tacque e parlò Porzio. Il vecchio avvocato,
compagno e rivale di De Nicola fin dagli inizi
delle loro carriere, ricorse a tutti gli argomenti
sentimentali che la naturale facondia gli suggeriva.
Ricordò gli episodi delle loro lotte comuni nel
foro napoletano e nella politica nazionale, e alla
fine, supremo mezzo, richiamò all’amico l’immagine
della madre morta. “Enrico”, disse in dialetto,
“mi sono sognato mamma tua”. L’altro lo
interruppe pronto. “Anch’io l’ho sognata, mi ha
detto di non presentarmi candidato”».
86 Un’attenta ricostruzione di tutti i passaggi
preliminari con cui si giunse alla candidatura di
De Nicola, in G. Di Capua, Le chiavi del Quirinale
da De Nicola a Saragat, la strategia del potere,
Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 44-61.
87 S. De Feo, in «L’Europeo», 21 luglio 1946
e V. Gorresio, I moribondi di Montecitorio, Milano,
Longanesi, 1947, pp. 249 ss.
88 Discorsi e messaggi del Capo dello Stato
Enrico De Nicola, a cura di R. Gallinari, Roma,
Bulzoni, 2005, pp. 23 s.
89 A. Baldassarre e C. Mezzanotte, Gli uomini
del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, Roma-
Bari 1985, pp. 31 ss.
90 Si veda «Il Messaggero», 22 ottobre 1946.
91 A concordare su questo punto una vasta
pubblicistica di cui menzioniamo per tutti G.
Spadolini, Un esempio, in «il Resto del Carlino»,
2 ottobre 1959; per la ricchezza di notizie vanno
ricordati i servizi, alcuni dei quali di G. Ansaldo,
sui numeri de «Il Mattino» del 1, 2 e 3 ottobre
1959; per una più ampia bibliografia P. Craveri,
De Nicola, Enrico s.v., in DBI, vol. XXXVILI,
Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990.
92 C’è l’aneddoto, un po’ troppo accentuatamente
ironico, di Giulio Andreotti, in Visti da vicino,
Milano, Rizzoli, 1985, pp. 12 s.: «Ad utilità
del successore andava annotando in un robusto
quaderno (di cui mostrava per altro solo la rilegatura
esterna) ogni particolare di prassi repubblicana
che fosse stato degno di nota in quei mesi
[...] Andando ad aprire il quaderno su cui s’era
tante volte indugiato, restai stupefatto, le pagine
erano bianche dalla prima all’ultima».
93 Si veda in E. Aga Rossi e V. Zaskavsky, Togliatti
e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana
negli archivi di Mosca, Bologna, Il Mulino, 2007.
94 C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni
e uomini, in E. Piscitelli et al., Italia, 1945-
1948. Le origini della Repubblica, Torino, Giappichelli,
1984, pp. 137-289.
95 «Corriere della Sera», 2 luglio 1946, in cui
si sottolinea che De Nicola «è assai compreso
della responsabilità di compiere atti e di assumere
atteggiamenti che dovranno costituire precedenti
della vita della Repubblica».
96 La formula ha anch’essa evidente carattere
provvisorio in quella fase di transizione, in cui c’è
da notare l’accento posto su Nazione, piuttosto
che su Repubblica.
97 «Il Messaggero», 14 luglio 1946.
98 Discorsi e messaggi del Capo dello Stato Enrico
De Nicola, cit., p. 66.
99 Si veda «Corriere della Sera», 17 maggio
1947.
100 A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione.
Tradizione e modernità nella classe dirigente
cattolica del secondo dopoguerra, Milano, Nuovo
Istituto Editoriale Italiano, 1982, pp. 385 ss.
101 P. Craveri, De Gasperi, Bologna, Il Mulino,
2006, pp. 291 ss.
102 Si veda «Corriere della Sera», 24 maggio
1947.
103 Craveri, De Gasperi, cit., p. 299.
104 Ivi, p. 301.
105 ASPR, Archivio del Capo provvisorio dello
Stato, b. 4, fasc. Rapporti-Informazioni. Ordine
Interno.
106 La vicenda è ben ricostruita da S. Setta,
L’Uomo Qualunque. 1944/1948, Roma-Bari, Laterza,
1973, pp. 252 ss.
107 Si veda «Corriere della Sera», 3 giugno
1947. Le citate parole di De Nicola si trovano
testualmente nel congedo dall’Assemblea costituente,
in Discorsi e messaggi del Capo dello Stato
Enrico De Nicola, cit., p. 41.
108 Si veda «Corriere della Sera», 18 giugno
1947.
109 B. Croce, Taccuini di lavoro, vol. VI, 1946-
1949, Napoli, Arte Tipografica, 1987, p. 134.
110 Discorsi e messaggi del Capo dello Stato
Enrico De Nicola, cit., p. 43.
111 N. Valentino, Il Presidente. Elezioni e
poteri del Capo dello Stato, Torino, Eri, 1973, p.
12 e F. Damato, Il colle più alto. Fatti e misfatti
dei presidenti della repubblica, Milano, SugarCo,
1982, p. 5.
112 Il 26 novembre 1946 si era rivolto al presidente
Truman, a nome anche del governo, per
chiedere un aumento degli aiuti di cereali rispetto
alla quota inviata dall’Unra, si veda Discorsi e
messaggi del Capo dello Stato Enrico De Nicola,
cit., p. 77.
113 N. Wollenborg, Stelle, strisce e tricolore.
Trent’anni di vicende politiche fra Roma e Washington,
Milano, Mondadori, 1983, p. 5.
114 Si veda anche Discorsi e messaggi del Capo
dello Stato Enrico De Nicola, cit., p. 83. Si veda
anche Incontro di De Nicola con i milanesi, in Macrelli,
In morte di Enrico De Nicola, cit., pp. 33-36.
115 Discorsi e messaggi del Capo dello Stato
Enrico De Nicola, cit., p. 51
116 La ricostruzione di queste visite del capo
provvisorio dello Stato e delle date in cui sono
avvenute in una pagina nell’appendice all’Inventario
dell’Archivio privato di Enrico De Nicola.
117 ASPR, Archivio privato di Enrico De Nicola,
b. 19, fasc. 44.
118 La testimonianza di Nilde Iotti, in Valentino,
Enrico De Nicola, cit., pp. 12 s.
119 Da cui viene su questo punto una testimonianza
analoga a quella della Iotti, M. Ruini,
Enrico De Nicola, in «La voce repubblicana», 2
ottobre 1959: «Si doveva fare la Costituzione e
io, che dirigevo i lavori della Commissione dei
75, ammirai il contributo che egli diede dall’alto,
con l’interessamento e il riserbo che è dovuto da
un Capo dello Stato. È storicamente giusto che la
Costituzione italiana rechi la sua firma».
120 ASPR, Archivio privato di Enrico De Nicola,
b. 14, fasc. 40 e 44.
121 P. Nenni, Tempo di guerra fredda. Diari
1943-1956, Milano, SugarCo, 1981, in particolare
pp. 289, 295, 297, 331.
122 Lettere contro trattato in ASPR, Archivio
del Capo provvisorio dello Stato, b. 4, f.4.
123 I. Poggiolini, Diplomazia della transizione.
Gli alleati e il problema del trattato di pace
italiano (1945-1947), Firenze, Ponte alle Grazie,
1990, pp. 78 s.
124 M. Toscano, 4 settembre 1947: vent’anni
dopo. Ricordo della ratifica del trattato di pace, in
«Nuova Antologia», settembre 1967, p. 5.
125 Poggiolini, Diplomazia della transizione,
cit., p. 134.
126 Croce, Taccuini di lavoro, cit., p. 141.
127 M. Toscano, È esistita, per la ratifica del
trattato di pace, un’apposita norma costituzionale?,
in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea
Costituente, vol. I, cit., p. 835.
128 Discorsi e messaggi del Capo dello Stato
Enrico De Nicola, cit., p. 58.
129 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere.
La Dc di De Gasperi e di Dossetti. 1945-1954,
vol. I, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 228.
130 Baldassarre e Mezzanotte, Gli uomini del
Quirinale, cit., pp. 32 ss.
131 Si veda la dichiarazione in proposito di
Giuseppe Dossetti, in G. Di Capua, Le chiavi
del Quirinale. Da De Nicola a Saragat, la strategia
del potere in Italia, Milano, Feltrinelli, 1971,
pp. 95-96. Si veda anche quanto riferisce Croce
nei suoi Taccuini di lavoro, cit., p. 195, alla data
del 10 maggio 1948: «Ho avuto un lungo colloquio
con De Gasperi, che mi ha raccontato a
lungo quali sono stati i rapporti tra lui e il De
Nicola, dal quale non si è potuto avere parola
che facesse sperare che egli avrebbe accettato
una rielezione o una conferma: andò via da
Roma, scansò una visita che il De Gasperi voleva
fargli a Torre del Greco. Fece dichiarare al
suo amico Porzio in una intervista che per niun
conto avrebbe accettato di restare presidente
eccetera. Così il De Gasperi ha appoggiato la
candidatura Sforza. Che il De Nicola stesso aveva
incoraggiata e coltivata. Da quanto ho potuto
intendere il De Gasperi, impegnato com’è in una
feroce lotta coi comunisti, pensa che lo Sforza,
dai comunisti avversato e ingiuriato da tempo in
qua, non avrebbe debolezze per loro, laddove il
De Nicola, per eccessivo studio di incensurabile
correttezza, non gli dava pari affidamento. Un
giornale di Roma, la Repubblica, che è dei comunisti
o a servigio dei comunisti, essendo stato
notato il mio discorrere col De Gasperi in un angolo
di Montecitorio, ha pubblicato stasera un
ragguaglio, del tutto immaginario, delle cose che
ci siamo dette. Del colloquio, com’è naturale, io
non ho detto verbo con nessuno. Ho provveduto
a fare prontamente smentire quel ragguaglio
della Repubblica».
132 Senato della Repubblica, Commissione
speciale di studio per l’integrazione del Senato:
nelle conclusioni (che si desumono dai verbali e
dagli appunti, peraltro non ufficiali, della segreteria
della Commissione) si dà notizia che De Nicola
aveva proceduto a «impostare il problema»,
facendo «un’ampia relazione introduttiva», e in
calce si nota come egli avesse poi «partecipato
alla discussione e formulato i diversi quesiti», ma
«come di consueto», non avesse «partecipato a
nessuna delle sopravvenute votazioni». Per inquadrare
il lavoro di questa Commissione, cfr.
G.B. Arista, Saggio bibliografico per la riforma del
Senato, in Studi sulla Costituzione, vol. II, Milano,
Comitato nazionale per il primo decennale
della Costituzione, 1958, pp. 543 ss.
133 Discorso del 25 febbraio 1958, in De Nicola,
Discorsi parlamentari, cit., ad indicem.
134 Tra gli altri il progetto di legge sull’ordine
professionale di avvocati e procuratori, 14 maggio
1954, ivi, ad indicem.
135 A. De Benedetti, De Nicola, in «L’Espresso
», 11 ottobre 1959.
136 Raccolta ufficiale sentenze e ordinanze della
Corte Costituzionale, vol. I, Roma, Istituto Poligrafico
dello Stato, 1956, p. 14.
137 G. Azzariti, In morte di Enrico De Nicola,
in Rassegna parlamentare, 1, 10, 1959, p. 25. Si
veda in proposito anche la testimonianza di A.
Beria d’Argentine, L’autocritica di De Nicola, in
«II Giornale», 20 ottobre 1989.
138 G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea
dal primo dopoguerra al Concilio Vaticano
II, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 250.
139 V. Zincone, in «L’Europeo», 31 marzo
1957.
140 G. Salvemini, La Corte Costituzionale, in
«La Stampa», 20 aprile 1957.
141 Si veda «Corriere della Sera», 23 aprile
1961.