Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  dicembre 05 Sabato calendario

Orsi & tori

La democrazia è la migliore organizzazione politica e civile dai tempi dei greci. L’obbligo di decidere all’unanimità non è democrazia. I fondatori dell’Europa inorridirebbero a vedere che due Paesi, come l’Ungheria e la Polonia, fatti entrare nell’Unione ai tempi di Romano Prodi presidente della Commissione europea per aiutarli a sopravvivere dopo la clausura sovietica, impediscano all’Unione europea di fare scelte fondamentali come il Recovery fund (meglio Next generation fund) per salvare l’economia e quindi la vita di mezzo miliardo di cittadini europei. Con il piano, di fatto, non c’è solo l’effetto economico di centinaia di miliardi per riprendersi dal Covid, ma per la prima volta viene affermata la socializzazione di debiti fra i vari Stati europei. Un passo sostanziale per avere una vera Unione Europea.Per questo la cancelliera Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione, con legittima determinazione tedesca, ha pronto un piano per varare comunque il Next generation fund anche senza il voto dei due Paesi che da ex-comunisti sono diventati fortemente di destra: semplicemente Ungheria e Polonia non parteciperanno al Fondo ma neanche avranno i contributi che riceveranno gli altri Stati. A mali estremi, estremi rimedi, per realizzare la democrazia. Meno male che è stato il turno della Merkel a guidare l’Unione.
* * *
Ci vorrebbe una tale determinazione anche in Italia. Determinazione e lucidità e non intendo riferirmi alla polemica sul Mes e sulla sua riforma né tantomeno come saranno usati i 209 miliardi che arriveranno al Paese dal Next generation fund. Tutto ciò deve ancora avvenire e quindi la speranza è l’ultima a morire anche riguardo a una resipiscenza di razionalità ed efficienza.
Intendo piuttosto riferirmi al caos normativo che si è generato in maniera insopportabile, con i vari decreti e le varie norme varate da quando è esploso il Covid. Non che non ci possa essere una sorta di moderata giustificazione determinata per il caos dall’emergenza. Un qualche beneficio d’inventario va dato. Diciamo che nessuno né si aspettava una simile catastrofe né c’era esperienza di come affrontarla sul piano sanitario e su quello economico. Ma ora è venuto il momento della razionalità e della necessità di correggere gli errori clamorosi che sono stati fatti.
Il primo errore da correggere è quello di rimediare alle penalizzazioni di settori economici, in primo luogo con denaro, promesso a pioggia e a fondo perduto e non con l’impiego dello stesso denaro in maniera razionale sì da recuperare la funzionalità di quel settore. Il caso più clamoroso è quello della ristorazione.
Fra le chiusure totali, con doveroso ristoro, assolutamente insufficiente, si è arrivati, tardi, a soluzioni miste come quelle dell’apertura a pranzo e non a cena. Certamente per rispetto del coprifuoco, ma fino alle 22 è possibile l’asporto e il delivery. Ecco: sarebbe stato certamente più efficace e più razionale, per creare innovazione digitale, dare finanziamenti ai ristoratori, per quanto restii a concepire l’asporto e il delivery come un nuovo business, che per le inevitabili, mutate abitudini dei cittadini, farà sicuramente crescere. E infatti in questo spazio si stanno inserendo molte startup. Certo, non mancano i casi di ristoratori che hanno compreso la direzione del vento e si sono ingegnati per andare a vele spiegate. Cito due casi: il ristorante Albergaccio, con un passato stellato, a Castellina in Chianti, già nel primo lockdown si è attrezzato, sia pure artigianalmente, per far arrivare ai suoi clienti e a nuovi nominativi, con mail, il menu del giorno di cibo e dei vini in abbinamento. Alla ripresa dell’attività piena, in giugno, il proprietario Francesco Cacciatori, sia pure operando in una zona di campagna, ha fatto i conti e la sua conclusione è stata: non male. E infatti quando l’attività ritornerà normale ha programmato di offrire il doppio servizio. Secondo caso: Ristorante da Ruggero, mitica trattoria fiorentina, sempre full, con fiorentini e turisti da ogni Paese. Proprio per la limitatezza dei posti aveva già da tempo il cosiddetto (con termine orrendo) asporto. Quindi, doppio guadagno.
Perché mai nessuna autorità, ministero, sottosegretario non ha ancora pensato di addestrare e facilitare con sistemi digitali e investimenti da finanziare un’attività seria di asporto e delivery? La famiglia Giannantonio che ha tre ristoranti a Dublino, la città dove hanno sede europea Google e compagnia, con il doppio servizio al tavolo e a casa ha raddoppiato gli incassi. Ma lì la civiltà dei dati, del digitale è ormai radicata. Perché mai un’azienda come Tim, come Vodafone, o Wind 3 non ha pensato di preparare un kit e indirizzari specifici per i ristoranti, per facilitarne la seconda attività? Quindi ci sono responsabilità pubbliche, ma anche mancanza di stimoli dai privati.
Con l’asporto e il delivery se cala il fatturato, calano anche i costi e vince chi ha idee consone alla rivoluzione digitale. A Milano, i proprietari dei tre ristoranti Da Giacomo lo hanno capito. Per stimolare anche gli altri, bastava che il governo mettesse a disposizione finanziamenti per la riconversione digitale. Con il che avrebbe anche contribuito a elevare il basso tasso italiano di digitalizzazione.
Ho dedicato spazio ai ristoranti perché sono stati i più colpiti e i più abbandonati, pensando che bastasse la carità. E se funzionasse l’asporto e il delivery, il servizio potrebbe rimanere attivo anche fino alle 23 e non alle 22. Lo Stato italiano ha debiti pari a 2.400 miliardi. Facendone altri, almeno li utilizzi in senso costruttivo, per l’evoluzione, non per la carità.
Se si passa alla problematica generale degli investimenti, cioè dell’impiego di denaro perché frutti e non perché sia a fondo perduto, non si può non mettere in evidenza un clamoroso caso creato dall’emergenza ma poi distorto dalla non conoscenza della realtà del Paese. Si tratta di un tema che il presidente della Consob, Paolo Savona, ha segnalato con grande tempestività: la ricapitalizzazione delle aziende. Ha suggerito che chiunque sottoscriva nuove emissioni di capitale sia agevolato con un credito fiscale. Il problema della scarsa capitalizzazione delle imprese italiane è arcaico e drammatico. Specialmente perché la stragrande maggioranza delle imprese italiane è familiare e anche chi ha fatto fortuna ha preferito tenersi i denari guadagnati sui conti correnti o investirli, piuttosto che impiegarli in aumenti di capitale. Se si vuole, la logica perversa era ed è la seguente: se prendo i soldi dalla banca gli interessi che devo pagare vanno a ridurre la tassazione. Si è così arrivati al punto che il 93% dei capitali necessari alle pmi è sempre stato fornito dalle banche, moltiplicandosi la distorsione che ora gioca anche ai danni delle banche perché le non sempre sensate regole europee impediscono alle banche di finanziare le imprese che non sono più che solide. Mentre il risparmio degli italiani ha quasi superato i debiti dello Stato. E il 74% di questo risparmio viene investito all’estero.
Bene, il Covid era l’occasione buona per dare retta a Savona, sia per le piccole che per le grandi aziende, per preparare le munizioni o la benzina appena per rilanciare. Il governo non è stato insensibile, ma ha partorito il topolino. Oggi può usufruire di un credito di imposta pari al 20% della cifra investita solo chi fa aumenti di capitale in aziende che hanno almeno 5 milioni di capitale e che hanno avuto nel mese di marzo e aprile una caduta del fatturato di almeno il 33%; ma se l’azienda faceva più di 50 milioni di fatturato, il credito fiscale non si può avere. Ma ci si rende conto? I problemi più gravi sono in aziende che fatturano meno di 5 milioni e che si prevede siano in pericolo in oltre il 45% dei casi. Poi ci sono le aziende che facevano più di 50 milioni e che hanno bisogno di capitale come il pane per poter fare il salto e diventare aziende medie e medio-grandi.
Se la decisione di mettere limiti così assurdi è per paura di perdere gettito, il governo non sa che ne perderà molto di più, con le chiusure che ci saranno. Il Paese ha bisogno di sviluppo e con lo sviluppo cresce anche il gettito. Ora si tratta di cogliere il momento, da questo punto di vista magico, di tassi sui conti bancari sotto zero per stimolare con il credito fiscale l’investimento nelle imprese produttive. Va innescata una vera e propria rivoluzione, che trasferisca alla produzione e allo sviluppo una parte consistente del denaro che è stato accumulato anche con i rendimenti del passato dei titoli del debito pubblico. La manovra deve essere chiara e forte.
Non è impossibile che avvenga una razionalizzazione, invece di un’improvvisazione come quella del credito fiscale solo per aziende da 5 a 50 milioni di fatturato. In Parlamento, infatti, qualcuno che è competente in materia e ragiona c’è. Uno per tutti il presidente della commissione Bilancio della Camera, Fabio Melilli, Pd. Ha già dimostrato di capirci di più degli altri e di avere buon senso. È stato lui a sostenere la possibilità di congelare gli ammortamenti nell’esercizio 2020, dopo che una delle leggi giuste, ma non ragionate, ha stabilito che tutte le aziende potranno avere garantita la continuità, a prescindere se hanno perso o meno il capitale. Una legge opportuna, ma rischiosa se non accompagnata da altri provvedimenti. Per esempio, quelli che sterilizzano per il 2021 la possibilità che le aziende senza capitale siano dichiarate fallite dai tribunali su richiesta dei creditori. Appunto perché la legge fallimentare non è stata modificata neppure temporaneamente e per i giudici c’è l’obbligo di agire, non la discrezionalità. Per questo, il congelamento degli ammortamenti migliora il conto economico e quindi anche il patrimonio, evitando clamorosi incidenti in tribunale. Ma da solo il provvedimento sostenuto da Melilli non basta: deve essere esteso a tutte le società, comprese quelle quotate in borsa per togliere dall’imbarazzo i revisori che comunque, nonostante la continuità per legge, per togliersi ogni responsabilità non si asterranno certo dal dire che la società, secondo le regole consolidate, non è in continuità; secondo, perché occorrono altri provvedimenti, ugualmente a costo zero per lo Stato, per far sì che siano evitati i fallimenti. In un anno potrebbe essere distrutto un tessuto straordinario di piccole e medie aziende che tengono in piedi l’altro pilastro dell’Italia, oltre al grande risparmio, e cioè l’export.
Questi sono solo esempi simbolici. Chi abbia testa e voglia, può evidenziarne a decine nella sgangherata normativa italiana.
Il presidente del Parlamento europeo, Davide Sassoli, è stato quasi sbeffeggiato quando ha detto che il debito di guerra, della guerra al Covid, potrebbe essere azzerato. In suo aiuto è intervenuto l’ex ministro delle Finanze, il socialista di sinistra Vincenzo Visco, che sul Sole-24Ore ha spiegato come moltissimi dei grandi debiti non sono mai stati rimborsati. Una posizione che sia pure con lo stile che lo contraddistingue aveva assunto anche Mario Draghi, nel suo famoso articolo sul FT, in cui invitava i governi a fare debito. Debito non da distribuire a pioggia, salvo interventi per soccorrere la fame, ma per investire e rilanciare così lo sviluppo.
È stato calcolato che in Italia ci sono 5,4 milioni di imprenditori, cioè coloro che hanno la spinta di intraprendere e che hanno generato quasi 27 milioni di posti di lavoro, quanti sono i lavoratori. Se non ci sarà nel giro di due mesi un’analisi vera di come fare a salvare questi posti di lavoro, salvando gli imprenditori, anche i 200 e passa miliardi del Next generation fund andranno in fumo.
Il Parlamento deve razionalizzare le normative frutto dell’emergenza, salvando solo quelle che guardano al futuro. Ma per il futuro ci vuole non solo l’impegno di sei manager, prevalentemente ai vertice di aziende controllate dallo Stato, che decidano come investire quei 200 miliardi. Ci vuole un vero e proprio trust di cervelli o una consulta che elabori un progetto Paese globale e che il Parlamento sia pronto a trasformare le decisioni e le idee in legge, oltre a essere pronti a cancellare leggi inutili o peggio dannose nate da interessi piccini e meschini, di puro clientelismo. Perché ciò sia possibile ci vogliono, oltre ai sei manager, tutte persone capaci, personalità di altissima competenza e di altissimo livello intellettuale. Sono quasi due decenni che l’Italia non cresce. Se non si accetta di giocare in grande l’occasione che il Covid offre, non potremo che continuare sulla strada del non sviluppo, aggravato da un debito enorme. Ci vuole coraggio. Quel coraggio che ha mostrato Carlo Messina, pensando all’interesse del Paese e non a quello diretto di Banca Intesa Sanpaolo, quando tre giorni fa ha detto ad alta voce: l’Italia ha bisogno di tre o quattro grandi banche.
Questo coraggio lo devono avere anche i politici. Perché non ci prova lei, Signor Onorevole Luigi Di Maio, che ha raccolto stima perfino dal suo avversario storico, Renato Brunetta, e che vari consensi sta raccogliendo da varie parti del Paese? Ha alle spalle un partito che non è un partito? Vero. Ma quando si ha il coraggio di parlare e di indicare che occorre una strada nuova, non il reddito di cittadinanza, il consenso arriva. In fin dei conti, a 34 anni, può anche rischiare. Se ha bisogno di aiuto, persone che possono aiutarla ci sono, sono pronte a impegnarsi per il Paese. Anche se non amano la politica e di quella italiana diffidano. O adesso o chissà fra quanti anni di sofferenza ci sarà un’occasione come questa.