Vanessa, non è arrivata subito al successo ma sembra che adesso non si possa girare niente senza di lei.
«No, non è così, capita tutto insieme perché alcune cose erano pronte».
È partita a 19 anni dal suo paese, Latiano (Brindisi), ed è arrivata a Roma per fare l’attrice.
A chi deve dire grazie?
«Alla mia tenacia. Ho fatto tanti lavori mentre recitavo a teatro. Poi una bella opportunità me l’ha offerta Marco Tullio Giordana, un vero maestro, che mi scelse per il film tv su Lea Garofalo ».
Imma Tataranni le ha dato la popolarità: cosa è piaciuto al pubblico?
«Ho fatto quattro provini per il ruolo. Mi piace portare sullo schermo donne non lineari, credo che gli spettatori le apprezzino. Le eroine perfette non esistono, Imma è l’elogio dell’imperfezione. Il mondo femminile è tutto da esplorare, mi piacciono le storie in cui non si capisce che faranno le donne. Apprezzo l’imprevedibilità».
Nella vita è imprevedibile?
«Mi sveglio la mattina e dico una cosa, alle otto di sera ne penso un’altra. Ogni tanto sono pericolosa, dopo qualche ora torno al porto».
E sul set?
«Sul set sono precisa, unico ambito nella mia vita. Non devo sbagliare un ciak, come se fosse sempre la prima a teatro. Ho avuto quella scuola lì.
Sono amata dai registi perché faccio perdere poco tempo, è fondamentale il rispetto degli altri.
Poi sono la peggior nemica di me stessa, non mi do tregua, non mi assolvo. Raramente mi piaccio, credo che sia comune a tante donne. Sono sempre il giudice di me stessa.
Poi noi attori lo sappiamo, il primo pubblico sono i tecnici. Il regista sta lontano, guarda nel monitor. Ma tu capisci se c’è l’atmosfera quando acchiappi chi ti sta intorno. Si sta tutti zitti, ma cambia il silenzio».
Cosa succederà a Imma?
«Risolverà altri casi, nella sua vita privata i ruoli sono rovesciati.
Nella serie - dai libri di Mariolina Venezia - Max Gallo, strepitoso, mio marito, in fondo è la figura materna».
È “una donna storta” anche nel film “L’arminuta”.
«Ho capito che non reciterò più in italiano, sono passata dal calabrese al materano al protolatino di Romulus, all’abruzzese. Faccio la madre naturale, che parla solo in dialetto stretto, della bambina protagonista. Un racconto bellissimo. L’arminuta, “la ritornata” viene riportata dalla sua famiglia di origine, di poveracci: scopre di non essere figlia di chi l’ha cresciuta. È andata a scuola, arriva con i vestitini stirati e si ritrova una madre che non sa esprimerle l’amore, non conosce il vocabolario sentimentale. Instaura un rapporto con la sorellina Adriana, una delle altre mie figlie».
Com’è una madre che non sa esprimere i sentimenti?
«Interessante. Arcaica, quasi selvaggia, per certi aspetti mi ha
ricordato Silvia di Romulus. Ha un modo particolare di camminare, è una donna che ha partorito sei volte, non si è mai curata di se stessa. Sono andata a ripescare un po’ nella mia famiglia, la mia nonna paterna non conosceva il linguaggio amoroso».
Recitare significa esplorare?
«Sì, ricercare e inventare. Voglio sempre essere diversa, mi stimola.
Non mi riconoscono quasi mai, e quando mi dicono: “Non ero sicuro che fosse lei”, per me è un complimento. Mi piace essere una fisarmonica».
L’esperienza in “Romulus” ?
«Non ho capito niente per sei mesi.
Recitare in protolatino è stato difficile, io poi ero una schiappa in latino. Mi sono chiusa a casa, come una studentessa. Meno male che avevamo un dialogue coach, Danilo, sempre con noi sul set. Poi il freddo, le battaglie nel fango: per fare questo mestiere la cosa più importante è la salute».
Che combina in “Diabolik”?
«Faccio un cameo divertente, sono una segretaria con capigliatura anni 70. I Manetti sono amici e sono unici, sul set lavorano solo con le donne, in tutti i reparti. Non potete immaginare la bellezza di Miriam Leone che fa Eva Kant, sembra uscita dal fumetto. Io avrei potuto fare Diabolik, tutta mascherata».