Sette, 4 dicembre 2020
QQAN63 Aveva ragione Ulrich Beck, siamo la società del rischio
QQAN63
Si può dire che in questi anni abbiamo portato in trionfo come sociologo unico della modernità il polacco Zygmunt Bauman e abbiamo rimosso la lezione del collega tedesco Ulrich Beck? Ad autorizzare seppur indirettamente la domanda sono alcune valutazioni del sociologo italiano Mauro Magatti che prima sul Corrieree poi nell’ultimo suo libro scritto con Chiara Giaccardi ( Nella fineè l’inizio, il Mulino) ci ha invitato a riprendere in mano i libri di Beck. Magatti si guarda bene dal montare un derby con l’amato Bauman e però ci ricorda come La società del rischio, il testo chiave del tedesco, sia del 1986 e sia stato tradotto in italiano solo 15 anni dopo. Un libro scritto nell’anno di Cernobyl ma che in qualche modo prevedeva la catastrofe e un’elaborazione, quella di Beck, che torna di straordinaria attualità in tempo di pandemia. Il rischio per antonomasia, almeno ai nostri occhi impauriti di oggi.
Il quarantenne Beck – il sociologo nacque nel 1944 e ci ha lasciato nel 2015 – era, al tempo della sua prima opera di caratura internazionale, molto influenzato dalla cultura dell’ambientalismo tedesco ma nella costruzione della teoria va molto al di là dei temi politici stricto sensu. Magatti parla di “straordinaria preveggenza” per la lucidità nell’analizzare uno dei tratti distintivi delle società avanzate: la loro strutturale esposizione al rischio. A 360 gradi, possiamo aggiungere, spaziando dall’ecologia alla geopolitica, dalla sanità alla tecnologia. Dobbiamo dunque a Beck il primo viaggio di massa in quella che chiamò seconda modernità, termine che va inteso non solo nella chiave della successione temporale alla prima modernità, una seconda puntata, ma come segnale di una profonda discontinuità sia da un punto di vista concettuale che materiale. Come se la modernità avesse perso la sua innocenza dimostrando la superficialità di un’idea di un progresso infinitamente lineare che avrebbe coinvolto e liberato tutti e del quale si doveva solo discutere l’equa distribuzione sociale. No, nella seconda modernità esisteva il suo esatto contrario, il rischio per l’appunto.
Purtroppo «le intuizioni di Beck non sono diventate patrimonio comune» (sempre Magatti) e giù per li rami siamo arrivati all’horribilis 2020 nel quale ci siamo resi conto improvvisamente e drammaticamente che non eravamo vaccinati rispetto non solo al Covid-19 ma più in generale all’eventualità del rischio sanitario. È facile pensare che gli straordinari successi della tecnologia e degli uomini della Silicon Valley alla fine ci abbiano spinti ad essere preoccupati dei pericoli di disoccupazione a causa dell’avanzata dei robot, angosciati per la perdita di autonomia a causa degli inarrestabili progressi dell’intelligenza artificiale e molto indignati per l’azzeramento della privacy a fronte dell’onnipresenza dei social network. Peccato però che nel frattempo non abbiamo trovato il tempo di essere altrettanto vigili e preoccupati per la camusiana Peste in arrivo.
Beck ci aveva ammonito sulla sempre minore capacità della società moderna di controllare i pericoli prodotti da essa stessa e ci aveva detto che i rischi non erano figli delle sconfitte della modernità ma paradossalmente delle sue vittorie. «Il mutamento climatico, ad esempio», scrisse più tardi, nel 2006, «è un prodotto dell’industrializzazione riuscita che ha sistematicamente trascurato le sue conseguenze per la natura e per l’uomo». Non è stato il fallimento dell’economia ma la sua crescita troppo rapida a generare il costante incremento delle emissioni di gas-serra dei Paesi industriali. Se abbiamo dovuto aspettare 10 anni per leggere Beck e più di 30 per capirne la portata, quella di Bauman in Italia è stata invece una cavalcata trionfale. Il suo La solitudine del cittadino globale uscì da Feltrinelli nell’aprile del 2000 solo un anno dopo l’originale inglese e la traduzione molto libera del titolo ( In search of politicis ) si rivelò felice. L’immagine dell’uomo occidentale raffigurato come il passeggero di un aereo «che si accorge che la cabina di pilotaggio è vuota e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la ripetizione di un messaggio registrato molto tempo prima» ha incontrato successo. Ed è proprio la capacità di Bauman di parlare per metafore calzanti e persuasive che ha fatto della sua “società liquida” un’espressione conosciuta da un largo pubblico.
Non si conta il numero di libri che dopo l’esordio il sociologo polacco ha pubblicato in Italia e per un lungo periodo non c’era festival culturale di qualche lignaggio che non volesse ospitarlo. Il sociologo polacco, del resto, ha colto alla perfezione i mutamenti successivi al 1989 e la perdita delle certezze legate alla crisi delle grandi narrazioni. L’uomo è non più il produttore del Novecento ma vive per il consumo, cerca sempre sensazioni nuove, in fondo è un eterno turista. E Bauman è stato capace addirittura di parlarci della nevrosi del fitness, dell’attenzione maniacale alle tecniche salutiste. L’attenzione alla fenomenologia ha reso il suo pensiero facile da divulgare, accessibile e in definitiva rassicurante se paragonato, ex post per carità, con Beck e tutti noi abbiamo come surfato sulla liquidità facendola diventare una sorta di comfort zone del pensiero. In fondo era una straordinaria parabola della globalizzazione compulsiva, ma tra i pericoli su cui ci ammoniva alla peggio c’era la perdita di identità non certo la Peste.