la Repubblica, 4 dicembre 2020
Cos’è la Netflix della Cultura voluta da Franceschini
La “Netflix della Cultura” nascerà subito dopo il Ponte dell’Immacolata. Ieri sono stati firmati gli impegni di investimento dei due soci che mercoledì si ritroveranno dal notaio per costituire la società. È tutto deciso, compreso il nome ancora segreto perché lo stanno registrando, ma chi lo conosce giura che «sarà bellissimo». A fine febbraio si parte. Per arrivare dove? Per capirlo occorre riavvolgere il nastro di qualche mese: maggio, quando nell’Italia che usciva dal terribile lockdown della prima ondata, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini annuncia l’intenzione di far nascere una “Netflix della cultura”. «L’idea era nell’aria. Si iniziavano a vedere musei o teatri che riaprivano online e gratis sui loro siti web. Fu allora che pensammo che una unica piattaforma per valorizzare nel mondo l’offerta culturale italiana e in particolare gli spettacoli dal vivo era una opportunità enorme».
L’idea diventa una norma del “decreto rilancio” dove si dicono due cose: il progetto lo realizzerà Cassa depositi e prestiti; il Mibact contribuirà con 10 milioni di euro. In quei giorni Franceschini chiama l’amministratore delegato della Rai Fabrizio Salini che reagisce con entusiasmo («idea bellissima»); il primo giugno il Mibact formalizza alla Rai la richiesta di prendere parte al progetto chiedendo la partecipazione della direttrice di Rai Cultura Silvia Calandrelli che viene accordata. Ma poi la Rai frena per due ragioni: la prima è che Rai Play, che sarebbe la piattaforma ideale, non ha (ancora) un sistema per monetizzare gli eventi, è tutta gratuita; la seconda, è che la Rai trasmette solo gli eventi che produce.
L’idea di Franceschini è un’altra: «Creare un posto dove il pubblico possa trovare tutte le produzioni teatrali e musicali, ma anche museali. E monetizzarle creando una fonte di ricavi aggiuntiva». Su questo aspetto si è creato qualche fraintendimento: «C’è in giro una comprensibile diffidenza che nasce dal timore che lo streaming possa mortificare lo spettacolo dal vivo, con il pubblico in sala, che invece resta centrale, non a caso si chiama dal vivo. Qui invece si tratta di creare uno strumento utile il prossimo anno quando magari le riaperture saranno a capienza ridotta per la pandemia, ma che resterà per sempre come fonte di ricavo aggiuntivo». Certo, serviranno soldi per produrre televisivamente spettacoli teatrali e concerti: il ministro pensa di destinare allo streaming una parte del fondo unico dello spettacolo, mentre a Cdp sperano nell’apporto delle fondazioni bancarie che potrebbero sostenere i teatri locali.
Una cosa è chiarissima: indietro non si torna. «Le persone ormai si stanno abituando a fruire la cultura anche in streaming. In questi mesi sono nate decine di siti che offrono concerti e spettacoli dal vivo. Il San Carlo ha venduto la prima della Cavalleria Rusticana a 18 mila persone tramite Facebook. Il mio timore non è che l’idea non funzioni, è di arrivare tardi». In effetti le cose non sono andate spedite: dopo l’uscita di scena della Rai, Cdp ad agosto ha fatto un bando in cerca di un partner tecnologico. Hanno risposto in una dozzina, la Rai è stata di nuovo sollecitata ad entrare e non ha risposto ma le porte, dicono in Cdp, «restano aperte per un coinvolgimento futuro». Molti dei partecipanti si sono progressivamente sfilati dicendo che «il modello di business non regge». È rimasta Chili. È una startup fondata nel 2012 da un gruppo di fuoriusciti di Fastweb guidati allora da Stefano Parisi e da qualche tempo da Giorgio Tacchia: in questi anni hanno costruito una piattaforma sofisticata che non solo distribuisce film in cinque paesi, ma ha strumenti per vendere o noleggiare un singolo evento.
Per sette anni Chili ha chiuso bilanci in perdita ma questo stupisce solo chi non conosce le metriche con cui sono valutate le startup che sono: la piattaforma; la crescita dei clienti (4,5 milioni); e la library (50 mila film, uno dei più grandi sul mercato). «E comunque il bilancio 2020 sarà in pareggio» dicono a Chili.
Il business plan di Tacchia sulla carta funziona perché non si limita a monetizzare lo streaming degli spettacoli dal vivo ma diventa anche uno strumento per vendere i biglietti per gli spettacoli dal vivo, il merchandising e la promozione culturale dei territori. La scelta finale è di Cdp, «come è giusto», dice Franceschini, «perché la politica deve restare fuori». Un po’ di tempo passa perché viene chiesto un forte sconto sul valore della piattaforma tecnologica che Chili conferisce. La valutazione finale è di sei milioni di euro: a questi ne vanno aggiunti tre in cash sempre da Chili, 10 dal Mibact come contributo una tantum, e 9,5 di Cdp che ha la maggioranza della società e il diritto di nomina degli amministratori (ma l’amministratore delegato sarà lo stesso Tacchia).
Franceschini è impaziente di partire: lunedì scorso ha scritto a diversi ministri della cultura europei in vista della riunione formale del giorno dopo in cui ha detto, riscuotendo un certo interesse, che questa deve diventare un’opportunità per l’Europa: «I singoli paesi europei si rapportano con i giganti della rete in posizione debole perché ci vanno da singoli, mentre l’Europa è il più grande produttore e consumatore di contenuti culturali. Occorre una Alleanza di intenti. Una iniziativa di questo tipo ha una potenza di fuoco pazzesca. Altro che Netflix».