il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2020
Mads Brugger, il giornalista che si camuffa
In Liberia, per investigare il traffico di diamanti, si è finto ambasciatore. Negli Stati Uniti, per stare gomito a gomito con i Repubblicani, ha impersonato un conservatore danese. In Nord Corea, alle autorità del regime ha raccontato di essere a capo di una compagnia di attori comunisti che desiderava uno scambio culturale. Ma il paragone con l’attore Sacha Baron Cohen e il suo personaggio Borat, il giornalista kazako, è improprio. Brugger giornalista lo è davvero e la sua fama ha definitivamente varcato i confini della Danimarca con Cold Case Hammarskjold, uno dei documentari più visti su Amazon Prime, premiato ai festival internazionali. Tutto è cominciato quando Brugger ha letto per caso un articolo sull’aereo precipitato nel 1961 in Rhodesia, oggi Zambia. A bordo c’era il Segretario generale dell’Onu, Dag Hammarskjold, la cui morte, senza colpevoli, è stata oggetto d’indagine da parte del giornalista per sei anni: “Girare il film è stato un incubo, ogni anno dovevo spiegare all’Istituto cinematografico danese che ha finanziato il progetto perché non avevo finito, nonostante le decine di interviste raccolte. Poi, quando l’Onu ha riaperto il caso sulla morte di Hammarskjold, tuttora irrisolto, nessuno ha più bollato le ipotesi sul suo assassinio come roba cospirazionista”.
Alcune delle persone da lei intervistate nel documentario sulla morte del Segretario generale Onu sono finite nell’inchiesta giudiziaria.
Siamo riusciti a ricostruire l’esistenza della Samir, milizia segreta che pianificava il genocidio dei neri in Sudafrica, coinvolta nella morte del Segretario. Se il documentario è nato come un tentativo di fare il punto su un caso irrisolto, è diventato definitivamente un film dell’orrore quando abbiamo scoperto che c’era una carta da gioco sul cadavere di Hammarskjold: un asso di picche, simbolo della morte usato da Servizi segreti americani e britannici. Mi aspettavo che grandi giornali e agenzie mandassero i loro migliori reporter a investigare: non è accaduto.
Lei ha lavorato per la tv pubblica danese. Poi ha sviluppato un tipo di giornalismo fatto di performance, travestimenti, doppie identità, recitazione. Come lo definirebbe?
Qui in Danimarca qualcuno lo chiama giornalismo “performativo”, ma suona pretenzioso, io non ho un termine per definire quello che faccio. Ho cominciato questo modo di raccontare le storie durante la campagna elettorale di Bush nel 2004: io e un amico in America ci fingemmo giovani conservatori danesi. I Repubblicani erano entusiasti di accoglierci, non riuscivano a capire che eravamo una caricatura. Ma qualcosa di più controverso è accaduto: anche dopo aver visto la serie nata dalle nostre avventure, Danesi per Bush, molti elettori di Bush continuavano a farci i complimenti per il lavoro. Un collega poi mi disse: “Non c’è rischio a prendere in giro gli americani: dovresti fare lo stesso in un Paese sotto dittatura”. Allora ho provato in quello di Kim Jong-un.
Per documentare la vita in Nord Corea lei si è finto un imprenditore teatrale comunista, con tanto di compagnia di attori al seguito: è nato così “The Red Chapel”, la Cappella rossa.
Ogni giorno entravo in un ufficio e mi interrogavano: “Chi sei? Che vuoi fare?”. I funzionari di regime si appassionavano al progetto, andavamo a bere insieme la sera, ma la mattina dopo, quando entravo di nuovo nel loro ufficio, ricominciavano come se non ci fossimo mai visti appena poche ore prima: “Chi sei? Che vuoi fare?”. E si ripartiva da zero. Alla fine, la tv nazionale nordcoreana ha approvato il progetto e ci siamo trovati alla parata militare di Pyongyang.
La stessa tecnica l’ha usata per girare “The Ambassador” in Liberia in modo da documentare il traffico di diamanti: si presentava come ambasciatore.
Se fossi andato lì dicendo “salve, sono un giornalista”, mi avrebbero espulso subito. Così ho comprato a un altissimo prezzo documenti falsi da diplomatico sul mercato nero, e con la raccomandazione di un ufficiale di alto grado, sono arrivato fino al figlio del presidente.
Non ha mai avuto paura mentre girava?
In posti così il pericolo esiste per tutti, sia tu un cameriere o un documentarista. Conta solo avere sul territorio i tuoi amici, persone di cui ti puoi fidare. Se non ti abitui all’idea che quello è lo stato naturale delle cose, è meglio non andarci.
Era questo il lavoro che sognava di fare da piccolo?
In realtà da piccolo volevo fare il capotreno: adoravo le loro uniformi, un desiderio dettato dalla mia natura feticista. Poi ha prevalso il tratto genetico di famiglia: entrambi i miei genitori sono giornalisti. Mio padre era a capo del maggior quotidiano economico danese, mia madre si occupava di cronaca nera per un tabloid. Mi piace pensare di aver avuto il meglio dei due mondi.
Lei adesso sta per girare un altro documentario: ci dice su cosa?
No!