“I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia in Italia” Il Mulino 2018, 2 dicembre 2020
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Biografia di Alcide De Gasperi di Giuseppe Tognon
1. Premesse – 1.1. L’innesco politico della Repubblica
– 1.2. Giugno 1946 – 1.3. Una «Repubblica
di tutti» – 1.4. De Gasperi perno del
sistema – 2. De Gasperi: un caso storiografico –
2.1. Una biografia speciale – 2.2. Un uomo
europeo, non soltanto europeista – 2.3. Il cattolico
democratico – 2.4. Conclusioni.
1. Premesse
Nel giugno del 1946 Alcide De Gasperi1
era capo del governo da sei mesi
e da quasi due anni segretario politico
della Democrazia cristiana, il partito che
aveva fondato in clandestinità. Come
presidente del Consiglio aveva preso
il posto di Ferruccio Parri, leader del
Partito d’Azione, che aveva guidato il
primo governo democratico (21 giugno-
10 dicembre 1945) dopo i due governi
d’emergenza presieduti da Ivanoe
Bonomi. L’Italia, uscita sconfitta dalla
Seconda guerra mondiale, era sotto il
controllo di una commissione alleata
guidata dall’ammiraglio Ellery Wheeler
Stone che doveva far rispettare le clausole
dell’armistizio siglato l’8 settembre
del 1943.
De Gasperi assunse anche «i poteri di
capo provvisorio dello Stato» il 13 giugno
1946, in un contesto politico molto
complesso e in qualche misura drammatico,
per riconsegnarli, rassegnando doverosamente
anche le dimissioni da
presidente del Consiglio, il 1o luglio successivo
nelle mani di Enrico De Nicola,
a sua volta eletto il 28 giugno capo
provvisorio dello Stato dall’Assemblea
costituente con 396 voti su 504 votanti.
Quando nel Consiglio dei ministri, ormai
riunito a oltranza, De Gasperi aveva
preso la decisione che metteva la parola
fine a un equivoco gioco politico tentato
dai collaboratori più stretti del re Umberto
II, erano passati solo pochi giorni
dal referendum popolare – per la prima
volta in Italia a suffragio universale,
maschile e femminile – tra Repubblica
e monarchia svoltosi il 2 giugno, il cui
esito, a favore della Repubblica di giusta
misura2, benché prevedibile e atteso
dalle forze politiche antifasciste, trovò
impreparata la monarchia.
Il governo era l’unica istituzione democratica
allora attiva perché all’Assemblea
costituente, non ancora costituita,
non erano stati dati, per la tenace volontà
politica di De Gasperi che interpretava
anche le ansie e le preoccupazioni
degli Alleati e delle gerarchie vaticane3,
quei poteri legislativi che erano stati richiesti
ad esempio dal Partito d’Azione.
Quello che De Gasperi compì, d’intesa
con il suo primo governo, dove sedevano
le forze politiche uscite vincitrici
dalla lotta di Liberazione dal fascismo,
compresi i liberali filomonarchici che
avrebbero voluto sfilarsi dopo la crisi del
precedente esecutivo, fu tuttavia solo
l’ultimo, anche se il più importante, di
una serie di passaggi istituzionali decisivi
per il paese dopo la Liberazione. Il
decreto legislativo n. 151 del 25 giugno
1944 aveva previsto che, una volta compiuta
la liberazione dell’Italia, sarebbe
stato il popolo a dover scegliere attraverso
«elezioni a suffragio universale diretto
e segreto, una Assemblea costituente per
deliberare la nuova costituzione dello
Stato». Forme e modi avrebbero dovuto
essere stabiliti con provvedimenti successivi.
De Gasperi vide nella possibilità
di distinguere, senza tuttavia separare, la
scelta sulla forma di Stato da quella della
rappresentanza parlamentare, l’occasione
di assicurare al governo una funzione
centrale in una fase politica incerta, così
da rafforzarne il ruolo di “camera” di
compensazione politica.
Anteporre anche sul piano politico
l’azione del governo a quella del Comitato
di liberazione nazionale era da un
lato il modo per dare al paese stabilità
e soprattutto agibilità internazionale, ma
dall’altro esprimeva la profonda convinzione
degasperiana della centralità delle
funzioni di governo nelle fasi più critiche
della vita di una nazione4. De Gasperi
era diventato presidente del Consiglio
anche per il calcolo politico delle forze
di sinistra5, le quali preferivano lasciare
a lui il compito “tremendo”6 di guidare
i moderati e i cattolici alla democrazia,
salvo poi regolare i conti nelle prime elezioni
generali. In quell’anno il quadro
politico era fluido e molto competitivo.
Allo stesso modo De Gasperi aveva accettato
quell’incarico per poter tenere
unito il proprio partito e soprattutto per
incidere sul percorso che avrebbe portato
all’Assemblea costituente. In più egli
metteva sul piatto il problema di tenere
distinte l’iniziativa politica dei cattolici
– che doveva essere visibile e solida –
dall’immagine della Chiesa, che usciva
dal Ventennio molto compromessa. Era
consapevole che l’affermazione di un
grande partito di ispirazione cristiana e
democratica avrebbe giovato ai destini
del cattolicesimo italiano, ma la sua preoccupazione
fondamentale non era tanto
di natura religiosa bensì politica: voltare
pagina con il fascismo e ancorare l’Italia
a un destino occidentale ed europeo di
collaborazione tra grandi democrazie.
De Gasperi dovette gestire una difficile
transizione istituzionale, la cui importanza
non era tuttavia maggiore di
quanto lo fosse la ben più grave questione
della ricostruzione del paese e della
riconquistata autonomia sulla scena internazionale.
La Conferenza di pace,
nella quale De Gasperi pronunciò il famoso
discorso del «tutto, tranne la vostra
personale cortesia, è contro di me»7,
si sarebbe aperta solo nell’agosto 1946 a
Parigi. La questione dei confini era incandescente
sia al Brennero sia a Trieste.
Quello che più contava era tuttavia la
condizione complessiva del paese, uscito
devastato dalla tragedia della Seconda
guerra mondiale, le cui braci ardevano
ancora in un quadro di sopita guerra civile,
con la stampa scatenata e con l’opinione
pubblica confusa. Vi era un profondo
scollamento tra le grandi questioni
istituzionali e le condizioni economiche,
produttive e demografiche, che erano
rimaste praticamente ferme a trent’anni
prima. Come molti studiosi hanno evidenziato,
benché il fascismo avesse impostato
una politica economica dirigista
e interventista di rilievo, la composizione
sociale del paese non era cambiata e la
fine della guerra aveva fatto riaffiorare
una continuità storica di lunghissimo periodo
fatta di miseria diffusa, di identità
culturali e morali separate e contrastanti,
di ceti frammentati, di un intreccio «tra
isole di benessere e oceani di povertà»8.
L’Italia era un paese fondamentalmente
agricolo, con l’industria pesante bloccata
dagli eventi bellici, con pochi capitali e
con infrastrutture già fragili prima dello
scoppio della guerra. Chi scorre i verbali
dei Consigli dei ministri del periodo9
troverà, ad esempio, che accanto alle
grandi
questioni istituzionali e di ordine
pubblico il governo dovette più volte ritornare
sui danni arrecati dalle cavallette
all’agricoltura, sul finanziamento della
ricostruzione di edifici pubblici, di culto,
per le attività produttive, sul personale
di un’amministrazione pubblica che faticava
a rimettersi al lavoro.
Il ricorso allo strumento del referendum
istituzionale, indetto prima
che l’Assemblea costituente si potesse
pronunciare sulla forma di Stato, ma
contestualmente all’elezione di quella
stessa Assemblea, fu un rischio perché si
sarebbe potuto creare – per il meccanismo
di un voto disgiunto – un conflitto
tra la forma di Stato scelta dai cittadini e
la maggioranza dei Costituenti. Ciò spiega
la prudenza con cui De Gasperi volle
tenere distinte le funzioni legislative ordinarie
da quelle costituenti. Il risultato
complessivo a cui si giunse fu determinato
da un poligono di forze, tutte in movimento,
nel quale egli tentò di porsi come
baricentro. Le forze in campo erano sostanzialmente
tre: a favore della monarchia,
per tentare di metterla in sicurezza
prima che il gioco politico prendesse
una strada necessariamente democratica
e dunque profondamente repubblicana;
nell’interesse delle sinistre laiche e socialiste,
che intuivano che nella forma repubblicana
avrebbero trovato alimento
le opportune rivendicazioni democratiche
se non addirittura rivoluzionarie; a
tutela della Chiesa cattolica, che era divisa
non solo territorialmente ma anche
culturalmente tra Nord e Sud e per la
quale era ancora indigesta – malgrado il
lavoro tenace di una minoranza di uomini
di cultura e di sacerdoti – un’associazione
troppo stretta tra forma repubblicana
e democrazia parlamentare. Non va
tuttavia sottovalutata la peculiare abilità
di De Gasperi che in quella sua prima
esperienza di capo del governo rivelò una
grande sapienza tattica anche nella scelta
dei tempi e una capacità diplomatica che
andava oltre gli interessi di parte e oltre
la questione della continuità o della rottura
tra un’Italia fascista e una nuova Italia.
Egli era guidato dall’urgenza di dare
stabilità alla nazione, così da poter legare
stabilmente i suoi destini a un modello
democratico europeo. Nel discorso del
23 luglio 1944 al teatro Brancaccio, nel
presentare sé stesso e la Dc all’opinione
pubblica romana, pronunciò parole molto
istruttive sulla questione istituzionale
e sul suo atteggiamento successivo al riguardo:
«Basta con gli esperimenti. Vogliamo
uno Stato definitivo»10.
Il suo distacco, o, peggio, l’agnosticismo,
di cui si è parlato spesso, di fronte
alla questione del referendum istituzionale
non hanno alcun fondamento e
vanno analizzati per quello che furono,
vale a dire atteggiamenti politici molto
raffinati e ispirati da un acuto senso della
storia e da preoccupazioni di politica internazionale
che lo statista trentino – per
storia personale e per esperienza – era più
di ogni altro allenato ad analizzare con
freddezza. Sarebbe un grave errore storico
sovrapporre l’immagine posteriore
di una Dc partito egemone a quella del
partito di De Gasperi agli inizi del 1945:
in quel momento i cattolici erano ben
lontani dall’aver trovato una stabile collocazione
politica, il Vaticano era ancora
alla ricerca di un modello politico che
non determinasse un’eccessiva discontinuità
con quello liberale e poi fascista e,
soprattutto, l’organizzazione interna al
partito era fragile11. Come è noto, nella
Dc non mancavano le incomprensioni,
ad esempio con Giuseppe Dossetti – il
suo avversario politico più spigoloso e
intelligente – il quale, nominato giovanissimo
vicesegretario nell’agosto del
1945, già nel febbraio del 1946 meditava
di dimettersi e polemizzava con De Gasperi
accusandolo, in vista del referendum
istituzionale, di aver gettato tutto
il peso politico del partito a favore della
monarchia12. Le incomprensioni politiche
interne erano tuttavia secondarie:
De Gasperi sapeva compensare l’agitazione
dei suoi con la comprensione tattica
delle sinistre alle quali faceva gioco
affidare alla Dc il compito di contenere e
di gestire le masse cattoliche “ignoranti”.
La classe dirigente del partito era variegata,
di provenienza e formazione
multipla13. De Gasperi aveva dalla sua
parte un’esperienza politica incomparabilmente
più ampia e profonda di quella
dei suoi oppositori interni. Fu l’unico
statista europeo che si sarebbe seduto in
tre parlamenti diversi: deputato di una
piccola minoranza italiana alla Dieta
imperiale di Vienna, deputato nel Parlamento
del Regno d’Italia e infine alla
Camera di quella Repubblica italiana che
stava contribuendo a fondare. Il suo esilio
in Vaticano, tra il 1928 e il 1943, dopo
sedici mesi di reclusione nel carcere di
Regina Coeli e in una clinica privata, gli
aveva permesso di osservare da vicino la
grande maestria ma anche la rigidità della
diplomazia vaticana. Era l’unico uomo
politico che poteva valutare con lucidità
sia i limiti interni del mondo cattolico –
corroso dalle «troppe condiscendenze
insincere»14 nei confronti del regime – sia
il peso dei condizionamenti esterni e internazionali,
ben più stringenti, in primis
quello del Vaticano15. In particolare, non
era assolutamente scontato che la Santa
Sede approvasse una presenza attiva dei
cattolici nella vicenda politica analoga a
quella che si era realizzata, contro la sua
volontà, nel primo dopoguerra. L’idea di
sfruttare la caduta del fascismo e la sconfitta
militare per fare dell’Italia uno “Stato
cattolico” era forte. Egli sapeva che il
rischio di una destra reazionaria, cattolica
e monarchica era reale. A don Sturzo,
fondatore nel 1919 e primo leader del
Partito popolare italiano, aprì più volte il
suo animo rivelando la sua preoccupazione
di operare per riuscire a «far svanire
lo spettro della dittatura reazionaria»16.
Il via libera della Santa Sede alla Dc di
De Gasperi come espressione dei cattolici
nel loro insieme arrivò solo agli inizi
del 1945, sotto la spinta della paura del
comunismo, e soprattutto con il successo
alle elezioni amministrative del marzo
1946, ma non era per nulla un via libera
alla forma repubblicana dello Stato, anzi.
De Gasperi dovette sempre tener conto
di ripetute riserve della curia romana
che non rinunciò mai a un protagonismo
multiforme anche sulla scena italiana, di
fatto facendone un osservato speciale.
Non rinunciò tuttavia mai a esporre le
sue idee sulla separazione di compiti tra
la comunità religiosa e quella politica17.
Alla base del profondo rispetto sempre
portato, anche a costo di rinunce, da
De Gasperi per le istituzioni parlamentari
e per la democrazia rappresentativa18,
stava la sua personale storia politica
di suddito di una minoranza di un grande
Impero come quello austro-ungarico
– dove i rapporti tra Stato e Chiesa erano
stretti ma la libertà religiosa assicurata –
e poi la tormentata esperienza vissuta
nella crisi dello Stato liberale del Regno
d’Italia. Egli nutrì sempre una speciale
attitudine anti-ideologica, che era figlia
di quella particolare impostazione eticopolitica
liberale che rifiuta ogni teoria
illuminista o elitaria sul governo. Il sentimento
profondo di chi era chiamato a
decidere e a governare non poteva essere
diverso da quello del popolo che rappresentava.
1.1. L’innesco politico della Presidenza
Il cambio istituzionale in Italia ha
avuto origini più politiche di quanto la
concitazione dei mesi successivi alla fine
delle ostilità possa far pensare. Che la
guerra sarebbe stata persa dall’Italia e
dalle forze dell’Asse fu chiaro non solo
a De Gasperi fin dal 1943, anche se non
si sapeva – visto che la penisola era diventata
luogo di occupazione e teatro di
guerra – in che modo il paese sarebbe
uscito dalla sconfitta e soprattutto se
avesse potuto conservare la propria integrità
territoriale e la propria personalità
giuridica. De Gasperi poté dettare tempi
e modi e imprimere una accelerazione
alla questione istituzionale solo dopo
che ebbe l’incarico di formare il suo primo
governo. La sua urgenza era di non
rompere lo spirito di collaborazione tra
le forze antifasciste e allo stesso tempo di
non spingersi troppo oltre nel protagonismo
politico così da suscitare reazioni
negli ambienti che contavano. Sapeva
che sarebbe andato alle trattative di pace
da leader di un paese sconfitto e reduce
da un regime illiberale, ma voleva arrivarci
avendo messo in sicurezza l’assetto
istituzionale democratico dell’Italia. Con
il decreto legislativo luogotenenziale 16
marzo 1946, n. 9819, il governo modificò
quello del 25 giugno del 1944 definendo
con precisione il percorso e le modalità
per eleggere e far funzionare l’Assemblea
costituente. All’articolo 2 il decreto
dettava le regole nel caso la maggioranza
degli elettori votanti al referendum sulla
forma istituzionale dello Stato si fosse
pronunciata per la Repubblica: come
suo primo atto l’Assemblea costituente
avrebbe eletto con una maggioranza
dei due terzi un capo provvisorio dello
Stato che avrebbe esercitato le sue funzioni
fino a quando fosse stato nominato
il capo dello Stato «a norma della Costituzione
deliberata dall’Assemblea». Il
medesimo articolo, al quarto capoverso,
prevedeva tuttavia che
Nella ipotesi prevista dal primo comma,
dal giorno della proclamazione dei risultati
del referendum e fino alla elezione
del Capo provvisorio dello Stato, le relative
funzioni saranno esercitate dal Presidente
del Consiglio dei Ministri in carica nel giorno
delle elezioni.
Così fu, ma la questione del passaggio
dei poteri, che sulla carta sembrava pacifica,
si complicò. Intorno alla proclamazione
dei risultati, che spettava, ai sensi
di quanto previsto dall’articolo 8 del
medesimo decreto n. 9820, alla Corte di
cassazione indicata come Ufficio centrale
elettorale nazionale21, si giocò un duro
confronto tra vecchio e nuovo che mise
in luce la vischiosità di un apparato dello
Stato che non aveva ancora metabolizzato
il cambiamento e l’arrivo di uomini nuovi.
Per il pathos e la passione politica
che hanno accompagnato la transizione
istituzionale italiana, la “presidenza breve”
di De Gasperi, tra il 13 giugno e il 1o
luglio 1946, rappresenta davvero l’innesco
politico della Repubblica italiana la
quale, una volta in movimento, intraprese
un cammino politico accelerato per
nulla scontato.
Questo innesco avvenne sotto l’egida
di un concetto politico di fondo di cui
De Gasperi fu sempre interprete privilegiato.
L’idea dell’unità nella diversità,
di un’unità non puramente materiale
ma sovraordinata agli interessi specifici
e dunque incarnata in forze che ne facevano
a sua volta esperienza e professione:
unità delle forze politiche intorno
alla democrazia; unità dei ceti intorno a
un loro specifico compito sociale; unità
dei cattolici intorno alla Chiesa e infine
unità del partito dei cattolici. De Gasperi
considerava l’unità del suo partito,
la Dc, un valore costitutivo di qualsiasi
rinascita democratica dell’Italia e la sua
preoccupazione politica primaria era
quella di schierare il partito dalla parte
che avrebbe vinto nella questione istituzionale
pur tuttavia lasciando che i suoi
elettori potessero esprimersi liberamente
e dunque apprendessero sul campo,
nella prima prova elettorale di massa,
che cosa significava rimanere uniti seppur
distinti intorno a regole democratiche,
per il bene del paese.
Il capolavoro politico di De Gasperi,
così come emerge da molte testimonianze
– ad esempio le lettere scambiate
con Sturzo22 – consistette nell’anticipare
di fatto il referendum tra monarchia e
Repubblica all’interno del suo partito23,
confidando da un lato – come avvenne –
che sarebbe comunque emersa una maggioranza
per la Repubblica, ma dall’altro
preparando l’elettorato cattolico a sostenerla
fino in fondo, così da non lasciare
né alle forze antirepubblicane né a quelle
di sinistra la possibilità di intestarsi la
vittoria o di recriminare su una sconfitta.
In effetti i risultati del referendum
mostrarono che una buona parte dell’elettorato
democristiano aveva votato per
la monarchia, visto che anche i risultati
raccolti nell’elezione dei rappresentanti
all’Assemblea costituente dalle liste degli
altri partiti antifascisti erano inferiori
soltanto di circa un 10% alla somma dei
voti per la Repubblica. Avvenne nelle
urne quanto previsto con straordinaria
lucidità da Sturzo, il quale, scrivendo a
De Gasperi il 17 aprile 1946, si diceva sicuro
della vittoria repubblicana, ma evidenziava
la «mostruosità» di una aperta
campagna del partito per la monarchia.
Rispetto a lui, che stigmatizzava anche
la linea agnostica, De Gasperi fu più
prudente, anche se condivideva le preoccupazioni
del suo interlocutore24. Portare
la Dc a confrontarsi su una grande
questione istituzionale era stato dunque
il modo per animare un partito ancora
in fase di strutturazione e molto conservatore,
ma soprattutto per posizionarlo
al centro della scena politica nazionale,
dando ai cattolici quella recuperata autonomia
dalla Chiesa che sarebbe diventata
per decenni la loro regola aurea e la
loro rendita di posizione. Il referendum,
che era uno strumento di educazione
civile e di pacificazione nazionale, una
volta tenutosi, avrebbe spianato la strada
a un nuovo governo nel quale, qualunque
fosse stato l’esito referendario, De
Gasperi – se fosse riuscito a rimanere il
più possibile sopra la mischia – avrebbe
potuto continuare a dare le carte della
politica italiana in un difficile contesto
internazionale nel quale ormai era riconosciuto
come un protagonista. Il ricor-
so alla volontà espressa del popolo era
per altro una attitudine profonda nel
suo stile politico: più volte, infatti – ad
esempio allo scoppio e alla fine della Prima
guerra mondiale –, si era trovato a
maneggiare o a ipotizzare il ricorso allo
strumento del plebiscito o del referendum
popolare tra la sua gente trentina25.
1.2. Giugno 1946
Giugno 1946 potrebbe diventare la
data eponima dell’intera storia politica
di De Gasperi, che in età repubblicana
coincise per quasi un decennio – fino
alla morte dello statista avvenuta il 19
agosto 1954 a Sella di Valsugana – con
la grande storia della rinascita europea.
La cronaca politica e istituzionale di
quel mese di giugno è una delle pagine
più interessanti della storia politica italiana
del secondo dopoguerra. I risultati
del referendum giunsero lentamente e
in maniera disordinata. Il 4 giugno De
Gasperi scrisse, in un biglietto inviato
a Falcone Lucifero, ministro della Real
casa, di ritenere «personalmente» di non
poter ancora giungere «rebus sic stantibus
» alla conclusione della vittoria della
Repubblica. I voti che poi arrivarono dal
Nord cambiarono la rotta dello spoglio
elettorale e il 5 giugno De Gasperi salì
al Quirinale a colloquio con il re, che
lo stesso giorno salutava la sua famiglia,
imbarcatasi per Lisbona. Il 5 sera De
Gasperi parlò alla radio per garantire
l’imparzialità delle operazioni di spoglio
delle schede, richiamando il fatto
che tutto l’apparato elettorale era nelle
mani della magistratura. Il 6 giugno
i giochi erano fatti, ma prese l’avvio la
tormentata vicenda della partenza del
re, prevista per l’8 giugno e invece rinviata.
Il Consiglio dei ministri si riunì,
per la prima volta dopo il 23 maggio,
l’8 giugno per deliberare che il giorno
successivo a quello della proclamazione
ufficiale del risultato del referendum
sarebbe stato «considerato festivo
a tutti gli effetti civili», come fu deciso
fosse per l’11 giugno nella riunione del
10 in cui «si prese atto della proclamazione
dei risultati del referendum fatta a
termini di legge dalla Suprema corte di
cassazione e che assicura la maggioranza
alla Repubblica». La Cassazione aveva
proclamato i risultati il 10 pomeriggio,
ma il suo presidente Giuseppe Pagano
si permise di concludere affermando che
solo in una successiva adunanza la Corte
avrebbe emesso il «giudizio definitivo
sulle contestazioni, le proteste e i reclami
presentati agli uffici», lasciando intendere
che il loro numero avrebbe potuto
essere molto significativo. Già nella riunione
del Consiglio dell’8 giugno, aperto
da De Gasperi con l’istruzione che «gli
argomenti discussi oggi in consiglio non
devono essere divulgati», il liberale Leone
Cattani aveva mosso dei rilievi sui
criteri adottati per il computo dei voti
e sul diritto del governo di proclamare
la Repubblica, suscitando così un’accesa
discussione tra i ministri. De Gasperi
mediò e invitò alla calma, ma anche, alla
fine della seduta, propose la nomina di
un commissario per il ministero della
Real casa, così da dare un segno di forza
proprio nei confronti di quella parte del
Quirinale che manovrava contro la Repubblica.
Da quel momento si apriva sull’esito
del referendum un serrato confronto,
anche sulla stampa. Da parte dei monarchici
si faceva leva sul numero dei voti
espressi ma non validi, più di un milione
e mezzo di schede pari al 6,1% dei
votanti. Il Consiglio dei ministri, preso
atto delle insidie contenute nel rinvio
adombrato dalla Corte di cassazione, si
sarebbe invece determinato a considerare
ormai avvenuta la proclamazione
se Cattani, come si è già detto, non si
fosse nuovamente opposto. De Gasperi
volle garantirsi l’unanimità del governo
e decise di ritornare al Quirinale, dove si
era messa a punto, per prendere tempo,
la soluzione di passare per delega e non
per diritto i poteri del re al presidente
del Consiglio, in attesa della proclamazione
definitiva. Il Consiglio dei ministri,
informato poi da De Gasperi, reagì animatamente
considerando l’idea una provocazione.
De Gasperi stilò un comunicato
in cui si affermava che «il governo
è interamente garante» della regolarità
delle elezioni, lasciando intendere che lo
era anche della maggioranza repubblicana
espressasi nel referendum. Ma ancora
una volta fu Cattani a non aderire e a costringerlo
a ritornare di nuovo al Quirinale.
Il Consiglio dei ministri era riunito
in seduta permanente ed egli, che era
ritornato da questo terzo incontro con
il re, si mostrò disponibile ad accettare
«nel supremo interesse della concordia
degli italiani» che il passaggio dei poteri
potesse avvenire su condizione, fino alla
proclamazione dei risultati definitivi. Lo
statista salì dunque per la quarta volta al
Quirinale, pensando di aver fatto tutto il
possibile per chiudere con magnanimità
la vicenda. Ebbe un duro colloquio con
il re, alla presenza del suo ministro socialista
Mario Bracci e di Giulio Andreotti:
il ministro della Real casa Lucifero gli
fece una sfuriata e cercò di convincere
il sovrano di non accettare la soluzione,
appena concordata con De Gasperi, di
concedergli i poteri per delega26. In quel
colloquio, come testimoniato nelle carte
del suo segretario Francesco Bartolotta,
conservate presso l’Archivio dell’Istituto
Luigi Sturzo a Roma, De Gasperi giunse
a implorare il re di «non fare un passo
falso» e di «non rovinare la sua reputazione
». Quando il presidente ritornò al
Viminale, allora sede della presidenza
del Consiglio, era preoccupato. La palla
ormai era nelle mani dei collaboratori
del re che dovevano preparare l’atto di
delega. L’11 giugno i repubblicani tennero
un grande comizio celebrativo a
Roma e la giornata del 12 trascorse in
una girandola di incontri nell’attesa che
il Quirinale si pronunciasse ufficialmente.
Nella notte, De Gasperi, sempre più
amareggiato e deluso da Umberto II,
apprese per telefono dal marchese Lucifero
che il re aveva fatto marcia indietro,
che non intendeva firmare la delega
e che anzi si preparava a inviargli una
lettera in cui prendeva tempo, invitandolo
a continuare a «collaborare» con
lui. De Gasperi diede lettura di quella
lettera, che suscitò molto malumore nel
Consiglio dei ministri del 12 giugno alla
cui conclusione viene diramato un duro
comunicato stampa in cui si legge:
Il Consiglio dei ministri riafferma che
la proclamazione dei risultati del Referendum,
fatta il 10 giugno dalla Corte di Cassazione
nelle forme e nei termini dell’art. 7
del D.L.L. 23 aprile 1946, n. 2019 ha portato
automaticamente alla instaurazione
di un regime transitorio, durante il quale,
fino a quando l’Assemblea Costituente non
abbia nominato il Capo provvisorio dello
Stato, l’esercizio delle funzioni del Capo
dello Stato medesimo spetta “ope legis” al
Presidente del Consiglio in carica27.
De Gasperi provò ad accelerare il lavoro
della Cassazione, ma essa gli contrappose
il principio «della cura e della
diligenza» richiesta dal delicato compito.
Capì allora di essere accerchiato, ma anche
che non poteva spingersi oltre una
intensa azione di moral suasion e di co-
stante smussatura delle asperità. Lasciò a
Nenni, Scoccimarro, Togliatti e Bracci la
responsabilità di esprimersi contro l’idea
di ricevere «un’investitura da parte del
Re». In realtà capì anche che l’intera dirigenza
politica nazionale lo osservava con
attenzione per valutare le sue capacità,
lasciandogli l’ingrato compito di gestire
una questione che nessuno prima aveva
pensato potesse diventare così difficile.
Ruppe gli indugi la sera del 12 giugno.
Riconvocò il Consiglio dei ministri
in cui tenne una dettagliata relazione sui
fatti, riferendo anche delle preoccupazioni
delle autorità alleate per i possibili
problemi d’ordine pubblico sollevati
dall’incertezza in cui si trovava il paese,
con il fiato sospeso, e, infine, propose
che il Consiglio deliberasse all’unanimità
che il suo presidente assumeva i poteri
di capo provvisorio dello Stato, come avvenne.
Poco prima di chiudere la seduta
del Consiglio il ministro liberale Epicarmo
Corbino prese la parola per chiedere
a De Gasperi «se la decisione di dargli i
poteri di Capo dello Stato rispond[esse]
al suo stato d’animo». Perché, continuava
il ministro, «nel momento stesso in
cui al vecchio ordine subentra il nuovo,
bisogna che noi chiediamo al Presidente
se questo risponde al suo intimo pensiero
ed alle perplessità da lui manifestate».
De Gasperi non rispose subito; Corbino
allora, come si legge nel verbale della
riunione, «ripeté la sua domanda a De
Gasperi» il quale, a questo punto, rispondeva:
«Confermo di accettare. Ringrazio
Corbino della domanda».
Nella notte tra il 12 e il 13 giugno venne
diramato il comunicato ufficiale del
Consiglio dei ministri, ma per una intera
giornata i consiglieri del re continuarono
a studiare il modo per non tenerne
conto, finché fu lo stesso Umberto che
adottò l’unica decisione possibile: lasciare
immediatamente il paese. Lo avrebbe
fatto partendo in aereo da Ciampino alle
ore 15.40 del 13 giugno, apparentemente
sereno, ma in realtà sdegnato per l’offesa
che il governo gli aveva inflitto. Sembrava
finita, ma la sera stessa l’Ansa diffuse
un proclama di fonte quirinalizia molto
duro ed evidentemente teso a stigmatizzare
il gesto «rivoluzionario» compiuto
dal governo. In maniera poco elegante
nel comunicato si diceva che andandosene
Umberto scioglieva dal giuramento di
fedeltà al re tutti i suoi sudditi. De Gasperi,
che aveva già pronto il testo di un
messaggio nel quale gli avrebbe riconosciuto,
al momento della sua partenza,
l’onore delle armi, condannò con parole
dure il testo del re, o dei suoi collaboratori,
e il 14 mattina ordinò all’Ansa di
spiegare la reale successione degli eventi
e di indicare le diverse responsabilità dei
protagonisti, rimarcando il fatto che la
partenza del re gli era stata nascosta28.
1.3. Una «Repubblica di tutti»
L’atto più significativo di quelle settimane
fu il discorso radiofonico che De
Gasperi aveva preparato in solitudine e
che lesse alle ore 13 del 14 giugno. Resta
tra i più alti e belli della sua esperienza di
statista. Toccò a lui parlare ufficialmente
agli italiani della “loro” Repubblica.
Quel testo non contiene soltanto una ricostruzione
della cronaca: si allarga a un
giudizio storico molto duro sul rapporto
tra la monarchia e il paese:
So ben considerare – dice De Gasperi
– umanamente la tragedia di quest’uomo
che, erede di una disfatta e di funeste,
fatali compromissioni con la dittatura, si è
sforzato negli ultimi mesi di risalire la corrente
a furia di pazienza e di buon volere.
Ma quest’ultima vicenda di una millenaria
dinastia ci appare come una parte della
catastrofe nazionale; è una espiazione, ma
tutti abbiamo espiato, anche coloro che
non hanno avuto o ereditato le colpe della
dinastia.
La parte più importante del messaggio
è tuttavia quella in cui egli di fatto
anticipava molti dei contenuti e anche
delle formule della Costituzione repubblicana
e nella quale coniava la felice formula
di «una Repubblica di tutti».
Vorrei dire ai partiti: non imprechiamo,
non accaniamoci da vinti e vincitori.
Uno solo è l’artefice del proprio destino:
il popolo italiano che, se meriterà la benedizione
di dio, creerà nella costituente una
Repubblica di tutti, una Repubblica che si
difenda da sé, ma non perseguiti; una democrazia
equilibrata nei suoi poteri; fondata
sul lavoro ma giusta verso tutte le classi
sociali; riformatrice ma non sopraffattrice,
e soprattutto rispettosa della libertà della
persona, dei comuni, delle regioni. Un
immenso lavoro ricostruttivo abbiamo innanzi
a noi; la salita è faticosa, diamoci la
mano, uomini di buona volontà, comunque
sia stato il vostro e il nostro voto29.
Il 20 giugno 1946 fu pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale (n. 134) il decreto
legislativo presidenziale n. 1 che dettava
le Nuove formule per l’emanazione dei
decreti ed altre disposizioni conseguenti
alla mutata forma istituzionale dello Stato.
Nei pochi giorni in cui De Gasperi
svolse le funzioni anche di capo provvisorio
dello Stato l’attività normativa non
fu insignificante: ad esempio il 22 giugno
1946 entrò in vigore il d.l.p.30 n. 4, Amnistia
e indulto per reati comuni, politici
e militari che prevedeva il condono delle
pene per reati comuni e politici fino a
5 anni e che alimentò non pochi malumori
negli ambienti partigiani e anche
all’interno del Partito comunista benché
la responsabilità fosse stata soprattutto
di Togliatti a cui De Gasperi volle quasi
interamente affidare la questione, assicurandosi
solo che in materia penale si
ricorresse il meno possibile alla pena di
morte; il 24 giugno il Senato del Regno,
non più operativo dal 25 luglio 1943, fu
rimpiazzato dall’Assemblea costituente
(d.l.p. n. 48). Il 24 giugno venne istituita
(d.l.p. n. 20) una medaglia commemorativa
della Consulta nazionale; il 27
giugno fu la volta di un decreto sull’amnistia
per i reati finanziari (d.l.p. n. 25)
al quale seguirono altri provvedimenti in
materia fiscale; il 24 giugno De Gasperi
firmò un decreto presidenziale (n. 51)
sulle Nomine dei professori universitari
avvenute senza la normale procedura del
concorso e un altro (n. 56) per l’Istituzione
di corsi straordinari presso le università
per studenti reduci e assimilati31.
Altri decreti erano autorizzativi nei confronti
della Banca d’Italia, allora guidata
da Luigi Einaudi, che stava affrontando
non pochi problemi di liquidità e di gestione
delle risorse finanziarie.
Il fatto che De Gasperi sia stato colui
che ha fondato la presidenza della
Repubblica, ma anche colui che ha governato
l’Italia sotto di essa per circa un
decennio, mostra l’assoluta eccezionalità
della figura di uno statista che per poche
settimane, appunto nel giugno 1946,
aveva ricoperto tutte le cariche possibili
in democrazia: capo provvisorio dello
Stato, capo del potere esecutivo (presidente
del Consiglio, ministro degli Esteri
e ministro dell’Africa Italiana) ma anche
capo del potere legislativo, garante
di quello giudiziario nonché segretario
politico della Dc, il partito che raccoglieva
più di un terzo dei consensi degli elettori
italiani. Mai in Italia tanto potere fu
per un momento nelle mani di una stessa
persona e non di un “esterno” o di una
personalità di garanzia, bensì di un vero
capo politico. Solo un uomo che sapesse
davvero capire che cosa significava la divisione
dei poteri poteva assumere su di
sé tante responsabilità con il consenso di
tutti gli altri leader e poteva parlare il 25
giugno 1946 alla prima seduta dell’Assemblea
costituente nel modo in cui egli
parlò:
Il governo saluta nell’Assemblea l’espressione
della sovranità popolare […]
Si compie così legalmente e pacificamente
il più grande rivolgimento della storia
politica moderna d’Italia. Con ardimento,
tenacia, con sforzo disciplinato abbiamo
gettato un ponte sull’abisso fra due epoche,
riuscendo a compiere l’opera lunga e
difficilissima senza perdita di uomini e di
materiali […] Operano nella Repubblica
italiana le tendenze universalistiche del cristianesimo,
quelle umanitarie di Giuseppe
Mazzini, quelle di solidarietà del lavoro
propugnate dalle organizzazioni operaie32.
Le tre settimane circa in cui De Gasperi
firmò i decreti legislativi come capo
dello Stato passarono in un lampo e non
modificarono in nulla lo stile e il lavoro
del presidente del Consiglio, a riprova
dello spirito di servizio con cui aveva
assunto le funzioni e soprattutto coerentemente
con la sua idea del ruolo di un
capo dello Stato garante se non addirittura
notaio dell’unità nazionale. Non apparteneva
alla sua cultura e tanto meno
corrispondeva alle sue preoccupazioni
politiche l’idea di un capo dello Stato
“forte”, tanto più dopo l’esperienza disastrosa
del periodo fascista. Ma c’è da
notare, analizzando lo stile di governo di
De Gasperi, quanto egli rifuggisse anche
dall’idea di un capo del governo imperioso
e quanto invece confidasse nella
possibilità di arrivare presto, attraverso
il lavoro dell’Assemblea costituente, a
un assetto equilibrato tra poteri e funzioni
nello Stato. In ciò condivideva le
preoccupazioni delle sinistre, ma in più
metteva a frutto la sua storia politica che
lo aveva portato a sperimentare di persona
il disfacimento di tutte quelle forme
di Stato che pretendevano di reggersi su
investiture personali assolute o su Corti
pigre, e la sua preoccupazione sulla
possibilità che anche in Italia potesse di
nuovo rinascere l’ennesima versione antidemocratica
di Stato. Come testimoniò
Dossetti in una lunga intervista raccolta
da Leopoldo Elia e Pietro Scoppola nel
198434, nelle riunioni di partito svoltesi
alla fine di quel mese del giugno 1946 in
vista dell’avvio dei lavori dell’Assemblea
costituente, De Gasperi, che pure poteva
allora contare sul 35% dei voti avuti dalla
sola Dc contro il 40% della somma dei
partiti di sinistra, aveva dato istruzioni
precise contro ogni ipotesi presidenzialista
e aveva richiamato a un atteggiamento
di grande prudenza nello studiare un
sistema di garanzie, vista la sua preoccupazione
che le forze di sinistra potessero
in futuro prevalere. La democrazia doveva
affermarsi in una maniera tale da essere
la vera unica autentica rivoluzione: lo
diceva uno che nel primo congresso della
Dc aveva esordito dicendo di «essere un
fanatico della democrazia»33.
1.4. De Gasperi perno del sistema politico
italiano
Il ruolo svolto da De Gasperi nell’avvio
della storia repubblicana non può essere
ricondotto soltanto a motivi personali,
soggettivi o di opportunità immediata,
ma va analizzato alla luce della storia politica
nazionale che presenta la caratteristica
di essere sempre stata ossessionata
da un’esigenza di moderatismo che non
riusciva a tradursi in un completo disegno
riformatore, così da lasciare campo
aperto a fughe in avanti o a polemiche
dal profilo più letterario e astratto che sostanziale.
La fortuna dell’Italia fu che su
questo giudizio di fondo si ritrovarono,
da sponde opposte, sia De Gasperi sia
Palmiro Togliatti, il capo dei comunisti,
e che in quei primi anni postbellici, almeno
fino al 1948, il campo politico tra
i due era occupato da uno spettro ampio
di forze sociali e di gruppi politici che,
sedendosi al tavolo del potere, evitarono
tra i due principali partiti l’apertura
di uno scontro diretto che sarebbe stato
devastante se fosse avvenuto prima che il
paese non avesse recuperato un minimo
di esperienza democratica.
De Gasperi seppe gestire un modello
politico interclassista senza permettergli
di scadere in un progetto politico tipicamente
conservatore: ebbe la pazienza di
aspettare che si risvegliasse quella parte
dell’elettorato italiano più esposto alle
conseguenze della guerra e che più faticava
a riprendersi dal torpore e dall’annichilimento
in cui un regime burocratico
e retorico come quello del fascismo
lo aveva condotto. Semmai, ma la questione
è dibattuta, durante gli otto anni
in cui governò ininterrottamente il paese35,
non riuscì a fare in modo che questa
transizione popolare, moderata e paziente,
fosse sostenuta da un parallelo ed efficace
ricambio dell’apparato dello Stato
che invece risulterà essere la componente
più resistente alle riforme. Ciò spiega,
almeno in parte, ma non giustifica, l’impazienza
di una componente cospicua
della Dc di intervenire direttamente nella
costruzione – o come molti hanno detto
nella occupazione dello Stato – con il
pretesto per alcuni e con la convinzione
per altri che nel nuovo apparato statale
la Dc avrebbe dovuto svolgere un ruolo
non soltanto di guida politica, ma di
reale stimolo verso un modello sociale
più cattolico: «Un ruolo strumentale di
tribuna politica rivolta alla Chiesa, per
far sì che tutta la Chiesa si mettesse in
opera al fine della trasformazione di sé
e della società civile, nello stesso tempo
e nella stessa direzione»36. L’idea di
De Gasperi sul partito presupponeva
piuttosto una chiara distinzione di piani
tra la forma e l’organizzazione dello
Stato e le forze politiche37. De Gasperi
era lontanissimo da una concezione della
democrazia di massa che avesse nella
forma partito il proprio demiurgo e non
indugiò mai nella concezione togliattiana
del partito come “novello Principe”.
Come scrive Pietro Craveri con formula
felice, egli «aveva un’idea integra della
democrazia e non confondeva tra istituzioni
rappresentative della repubblica e
politica popolare dei partiti di massa»38.
Ciò sarebbe risultato sempre più evidente
nel corso della storia della Dc dove la
posizione “integra”, non “integralista”,
dello statista non fu sempre capita. Negli
anni dei suoi otto governi non aveva
trovato abbastanza collaboratori all’altezza
e non aveva potuto uscire dalla situazione
impossibile in cui si trovava di
capo del governo e insieme di capo del
partito. Il suo impegno quasi esclusivo
nell’azione diplomatica e di governo non
gli consentiva di dedicarsi come avrebbe
voluto alla cura del partito il cui profilo
interclassista richiedeva una costante
azione di recupero, come per un gregge
numeroso e poco disciplinato, alla mercé
di lupi e di disturbatori.
Per lui la ragionata esperienza doveva
prevalere su ogni pseudoscientifica ipotesi
palingenetica. Egli aveva ben chiaro
l’ampio retroterra storico e sociale, di
miseria, a disposizione delle ideologie
comuniste, le quali disponevano anche
della legittimazione loro offerta dalla
presenza dell’Urss al tavolo dei vincitori
della guerra. Aveva inoltre meditato a
lungo sulla crisi della democrazia tedesca
e sul fallimento di quel Zentrum cattolico
che era stato per decenni un motivo
ispiratore della sua condotta politica.
Conosceva la forza della radice libertaria
e democratica del socialismo riformista
italiano ed europeo. Da parlamentare
popolare aveva intuito l’originalità di un
antifascismo liberale alla Gobetti. Aveva
inoltre piena consapevolezza delle potenzialità
della dottrina sociale della Chiesa
e delle potenzialità di un cattolicesimo
democratico che poteva attingere energie
ed esempi da una storia civile e religiosa
molto sofferta e nobile. Conosceva tuttavia
anche la vischiosità di un sentimento
religioso che si era consolidato intorno a
una nuova alleanza tra Stato e Altare e
che il fascismo aveva abilmente sfruttato.
Infine, egli non condivideva con altri capi
politici – ad esempio con Parri e in parte
anche con la dirigenza socialista39– l’idea
che l’antifascismo fosse l’unica esperienza
democratica mai fatta dagli italiani, al
punto che solo su di essa si potesse fondare
la nascita di una Repubblica che
sconfessasse non soltanto il regime fascista,
ma in qualche modo riconoscesse e
stigmatizzasse a ritroso la continuità tra
di esso e lo Stato liberale, così da fare
dell’avvento del fascismo quasi un destino
storico40. Su questo punto De Gasperi
si ritrovava più d’accordo con l’interpretazione
che della storia italiana forniva
Benedetto Croce. Per la generazione
di De Gasperi il cattolicesimo liberale
dell’Ottocento rimaneva la radice da cui
era germogliato il cattolicesimo democratico
del Novecento e ciò permise di
non rimanere prigionieri delle polemiche
teologiche. Come ha scritto Gabriele De
Rosa «con De Gasperi per la prima volta
nella storia del cattolicesimo europeo
la visione cattolica dei problemi europei
non era sinonimo di visione controrivoluzionaria,
di neomedievalismo ecclesiastico,
di baluardo confessionale contro
il mondo moderno, ma sinonimo di una
scelta democratica ispirata al comune retaggio
spirituale europeo»41.
L’esperienza vissuta come deputato
popolare dal 1919 e quindi come leader
del Partito popolare italiano tra il
1924 – quando prese il posto di Sturzo
costretto all’esilio – e il 1926, lo aveva
profondamente marcato e aveva rappresentato
la pagina più dolorosa della sua
storia politica. L’abbaglio subito sulla
natura del fascismo mussoliniano, con
l’iniziale apertura di credito che anche i
popolari avevano fatto al primo governo
Mussolini e all’idea che Mussolini
potesse stabilizzare l’Italia e rappresentare
una parentesi utile per il paese; la
stagione dell’Aventino, abilmente sfruttata
da Mussolini; il piano inclinato su
cui avanzava la Santa Sede nel cercare a
tutti i costi una soluzione alla questione
romana, erano esperienze che gli avevano
insegnato quanto preziose fossero,
nei momenti acuti delle crisi politiche e
istituzionali, le virtù della pazienza e del
coraggio, le sole che potevano sostenersi
a vicenda e fornire sostanza alle decisioni.
L’idea che con un colpo solo si potesse
render giustizia sia dell’oppressione
fascista sia della latitanza e della inadeguatezza
dell’Italia liberale parve a De
Gasperi un paradosso a cui invece opporre
una radicata convinzione che l’unità
del paese fosse il bene più prezioso
da curare e che nessuna svolta politica
poteva essere così antistorica da non tener
conto non solo del passato in quanto
passato, ma dei limiti e delle possibilità
di un popolo, senza per altro rinunciare
a riconoscere le responsabilità di chi lo
aveva tradito. Anche la scelta di De Nicola
come capo provvisorio dello Stato
stava a indicare la preoccupazione di De
Gasperi – il quale, come si è visto, non
attribuiva forse tutta la dovuta importanza
alla figura del presidente della Repubblica
– di non esasperare gli strappi
istituzionali così da fornire alla vigorosa
azione di ricostruzione democratica il
supporto di un’idea di continuità della
nazione.
2. De Gasperi: un caso storiografico
Tracciare la biografia di Alcide De
Gasperi non è facile. Il suo è anche un
caso storiografico perché la sua riscoperta
da parte degli storici risale soltanto gli
anni Settanta del secolo scorso, quando
nel 1977 Scoppola pubblicò per Il Mulino
il saggio La proposta politica di De
Gasperi che raccoglie e rielabora vari interventi
apparsi a partire dal 1973. Per
la prima volta, utilizzando anche carte
inedite, si cercava di sfatare un’immagine
mitica dello statista trentino e soprattutto
di ancorare la ricerca storica a
una interpretazione della storia politica
italiana più attenta a non confondere
tesi astrattamente ideologiche con grandi
questioni storiche, quali, ad esempio,
quella della continuità tra fascismo e
postfascismo, della natura conservatrice
della Dc e dell’impronta capitalista del
centrismo degasperiano. Gli anni Settanta
furono anni in cui la storia politica
andava perdendo la sua tradizionale
impostazione etica e soccombeva sotto i
colpi di una passione per la storia economica,
sociale e religiosa, rilette anche
con lo sguardo di culture di sinistra o
del dissenso. Come ha ammesso lo storico
Giuseppe Vacca42 anche il giudizio su
De Gasperi dei comunisti italiani rimase
condizionato, fino alla lettura “revisionista”
iniziata da Giorgio Amendola nel
1974, dalla interpretazione che ne diede
Togliatti in un famoso saggio apparso in
cinque puntate su «Rinascita» fra il 1955
e il 1956 dal titolo quanto mai significativo:
È possibile un giudizio equanime
sull’opera di Alcide De Gasperi?43. Quel
testo non corrispondeva all’effettiva politica
svolta dai comunisti alla fine della
guerra e tanto meno all’alleanza strategica
e in difesa dell’identità nazionale
tra i due leader nel biennio 1945-1946.
I giudizi postumi di Togliatti evidenziavano
tuttavia, a futura memoria, il passaggio
politico dell’uscita dal governo
dei comunisti nel maggio del 1947 e la
trasformazione di De Gasperi da avversario
a nemico, che era il frutto di anni
di Guerra fredda. Solo più tardi, con la
crisi della centralità della Dc e, sul piano
internazionale, con la fine della divisione
dell’Europa occidentale, si è potuto
guardare con sempre maggior interesse,
e talvolta anche con qualche rimpianto,
alla figura di De Gasperi44. Malgrado i
molti studi apparsi negli ultimi decenni,
non è tuttavia possibile considerare conclusa
l’operazione di restituire alla storia
della ricostruzione italiana il peso che
merita sul piano internazionale come
modello di democrazia governante45.
Solo in questo modo sarà possibile riconoscere
che De Gasperi non ne fu soltanto
il protagonista indiscusso, ma che
tra tutti i grandi leader delle democrazie
europee fu colui che ha avuto il compito
più difficile46.
2.1. Una biografia speciale
In coerenza con la specificità della
presente opera sui presidenti della Repubblica
e con la particolarità di una
presidenza “breve” che ha avuto tuttavia
una così lunga gittata, non ha senso
tentare di scrivere un ennesimo profilo
storico di De Gasperi47. È piuttosto opportuno
riprendere il tema del coraggio
e della visione dello statista trentino già
indicato dal presidente Sergio Mattarella48,
declinandolo all’interno di due assi
portanti della biografia politica degasperiana:
il carattere europeo dell’uomo
De Gasperi, che anticipa e spiega quello
dello statista, e il problema della coscienza
cristiana in politica. Sono i due
tratti che rendono unica la sua figura.
Possiamo pertanto concentrarci su quegli
aspetti della sua personalità politica
che furono determinanti nelle partite in
cui egli si spese di più: il ruolo dell’Italia
nella storia della democrazia europea e
la maturazione del cattolicesimo politico
che ha spogliato da ogni provincialismo,
costringendolo a fare i conti con le «basi
morali della democrazia»49 e non solo
con gli interessi della Chiesa.
Il successo che De Gasperi raggiunse
in entrambe le questioni non era scontato:
la collocazione da protagonista in un quadro
atlantico ed europeo di un paese non
soltanto uscito sconfitto dalla Seconda
guerra mondiale, ma corroso all’interno
dal costume antidemocratico e retorico
del fascismo, è stato probabilmente il capolavoro
di tutta la politica internazionale
della storia europea a metà del secolo.
Allo stesso modo, la capacità dimostrata
dai cattolici italiani nella ricostruzione
del paese e nell’affermazione dei diritti
civili e sociali è stata certamente il capolavoro
del cattolicesimo democratico in
Europa, perché non ha avuto eguali in
nessuna delle altre grandi democrazie
continentali. Studiare meglio De Gasperi
significa dunque rileggere la storia italiana
del XX secolo alla luce della svolta
istituzionale e politica del 1946, che fu il
perno non solo della rinascita materiale
del paese, ma anche della ristrutturazione
ideologica delle forze democratiche,
in particolare del cattolicesimo politico
italiano. Quest’ultimo giunse diviso e
spesso impreparato all’Assemblea costituente,
ma dimostrò di possedere cultura
e risorse morali sovrabbondanti rispetto
al giudizio che anche in ambienti ecclesiastici
se ne aveva50. In quell’occasione
e poi nelle elezioni politiche del 1948 si
assistette a un profondo ricambio di classe
dirigente: le seconde file del mondo
cattolico, pur provenendo da contesti
sociali e culturali diversi, si erano formate
in un ambiente spirituale molto ricco,
distante, anche per l’inagibilità imposta
dal fascismo, da quello intransigente del
cattolicesimo sociale degli inizi del secolo.
Il personalismo di Jacques Maritain
ed Emmanuel Mounier, la cultura etico
giuridica di Giuseppe Capograssi, l’analisi
economica e sociologica di Sturzo e
la spiritualità fucina di Giovanni Battista
Montini trovarono nella proposta politica
e nella guida di De Gasperi l’occasione
di amalgamarsi e di mettersi alla prova
intorno a una impresa epocale quale fu
la costruzione di un vero e proprio “miracolo”
costituzionale senza rinunciare,
per il fatto di dover condividerne la responsabilità
con altre forze politiche, al
suo carattere di grande impresa cristiana.
Nell’azione di De Gasperi presidente
del Consiglio dei ministri e di leader
della Dc si è realizzata una «unione personale
» molto forte e allo stesso tempo
rispettosa della distinzione dei piani e
della divisione dei poteri, che ha consentito
di valorizzare il contributo di tutte le
forze politiche senza rinunciare a un’autentica
competizione democratica tra di
esse. De Gasperi riuscì a trasformare lo
spirito di liberazione nazionale in una
constituency di governo che, nell’asprez-
za del confronto politico, seppe in pochi
anni elevare la società italiana a un
livello di maturità – in tutti i campi della
politica – che non aveva mai avuto. Geopolitica,
religione e democrazia sono i
tre lati di una questione degasperiana
che è perfettamente sovrapponibile con
la storia del Novecento europeo, il secolo
delle svolte. Lo studio dei numerosi
materiali ancora inediti, soprattutto epistolari,
permetterà di comprendere meglio
che De Gasperi è il perno intorno a
cui far ruotare la storia “europea” dell’Italia
che nella storiografia internazionale
è tutt’ora consegnata piuttosto alla storia
del fascismo o alla storia delle relazioni
tra Stato e Chiesa.
2.2. Un uomo europeo, non soltanto europeista
Il mancato allineamento tra biografia
e storia degasperiane è stato spesso spiegato
ricorrendo al particolare destino di
De Gasperi, che fu italiano tre volte e in
condizioni molto diverse, prima come
suddito di una minoranza ai confini meridionali
dell’Impero austro-ungarico,
quindi come eletto al Parlamento del
Regno d’Italia nelle file del Ppi di Sturzo
e infine come fondatore e leader sia
della Dc sia della democrazia italiana. I
tre De Gasperi che la storiografia prospetta
non sono però né equivalenti per
numero – perché si potrebbe riarticolarli
diversamente e, ad esempio, aggiungere
il De Gasperi degli anni dell’esilio
vaticano – né tanto meno per importanza
storica. La personalità di un uomo
politico è normalmente qualche cosa di
strutturale e di originale, ma se la storia
con cui deve fare i conti è eccezionale
e, soprattutto, imprevedibile, essa può
cambiare anche radicalmente.
La coerenza dell’agire degasperiano
non può rispondere a un pensiero politico
lineare o a un normale sviluppo delle
sue premesse. Presenta la caratteristica di
essere sostanzialmente refrattaria a ogni
lettura ideologica e invece sensibile a una
lettura etico-politica in cui principi, ideali
e prassi erano continuamente mediati
dall’esperienza ma anche da un acuto
senso della provvidenza. In un documento
del 1929, riprodotto nel museo della
sua casa natale, a Pieve Tesino, De Gasperi
tracciò su un pezzetto di carta un
bilancio molto amaro della sua «parabola
di trent’anni», indicando l’interrompersi
di una carriera politica ascendente scandita
da cariche e impegni pubblici sempre
più importanti con un’improvvisa
linea verticale discendente che conduce
al capolinea: «Avventizio alla Biblioteca
vaticana»51. Nel 1929 era fermamente
convinto di aver concluso la sua carriera
professionale di uomo politico e durante
il periodo in cui lavorò in Vaticano, isolato
e sorvegliato, maturò anche un sottile
sentimento di delusione nei confronti di
molti ecclesiastici e porporati che non
corrispondevano al modello di vescovo o
di prete a cui era abituato.
Sull’importanza del De Gasperi trentino
impegnato nel sociale si è richiamata
più volte l’attenzione52, ma questa chiave
di lettura non è sufficiente a spiegare il
«caso» De Gasperi. Egli fu soprattutto
un politico «europeo» per la capacità
di analizzare la complessità dell’azione
diplomatica e insieme l’importanza del
radicamento dell’azione politica nel sentimento
dei popoli. Egli, come la maggior
parte degli statisti che hanno governato
il secondo dopoguerra – Winston
Churchill, Konrad Adenauer, Charles de
Gaulle – è stato un uomo della «guerra
dei Trent’Anni del XX secolo», come
disse Raymond Aron53, e dell’avvento,
più che della fine, dei totalitarismi: la sua
visione della storia era dominata da una
vasta cultura delle relazioni internazionali
più che da una riflessione giuridica
sulle forme di Stato e sulla natura delle
Costituzioni.
Il radicamento degasperiano nel suo
popolo trentino ha avuto in dote l’opportunità
di cimentarsi in vicende politiche
che mai il Trentino aveva vissuto nei
secoli precedenti: terra di confine dalla
conformazione alpina, ben organizzata
ma comunque relativamente povera,
geograficamente
orientata a Sud ma amministrativamente
e politicamente guidata
da Nord, improvvisamente si trovò
al centro di una guerra mondiale la cui
posta politica non era l’espansione di
un regno tutto sommato minore come
quello d’Italia, ma piuttosto la riorganizzazione
dell’area centrale dell’Europa
come perno tra la Terza Repubblica
francese e le violente trasformazioni a
est dell’Impero russo. Paradossalmente,
la parte dell’Europa politicamente più
evoluta al momento dello scoppio della
Prima guerra mondiale era proprio quella
mitteleuropea che ne uscì distrutta: la
sua particolare geografia multietnica e la
sofisticata macchina amministrativa di
cui si era dotata l’Austria avevano favorito
un acceso protagonismo culturale.
In sostanza, per usare una formula sbrigativa,
un buon politico dell’Impero era
spesso più preparato e più esperto di numerosi
ministri delle altre grandi potenze.
Se si osserva come De Gasperi diresse
per quasi un decennio il giornale dei
cattolici trentini, ci si stupirà nel notare
che ogni numero conteneva più notizie
e commenti di politica internazionale di
molte altre testate nazionali più prestigiose
e nel vedere il grado di interesse
che vicende ignote ai più, ma importanti
per collocarsi come minoranza tra le minoranze,
suscitavano nei lettori dei poveri
partiti locali54.
De Gasperi nacque a Pieve Tesino il
3 aprile del 1881, nell’estremo confine
della provincia tirolese, che lasciò ben
presto per trasferirsi in varie località
della Valsugana e infine a Trento, dove
completò gli studi superiori. Al pari di
molti altri sudditi dell’Impero era il rappresentante
di una popolazione montanara
povera, di profonda fede cattolica
e fedele alla Corona austriaca e alla
dinastia regnante. Negli anni della sua
formazione la questione dell’autonomia
dei trentini da Innsbruck – pure più
volte rivendicata – fu forse meno importante
di quella del risveglio dei cattolici
in favore dell’impegno sociale, secondo
l’insegnamento dell’enciclica Rerum Novarum
di Leone XIII e in perfetta coincidenza
temporale e spirituale con ciò che
accadeva nelle regioni limitrofe dell’Italia.
Già prima dello scoppio della Grande
guerra il Trentino poteva contare su
179 casse rurali con oltre 24.000 soci, su
265 cooperative di consumo con circa
33.000 soci e su varie testate cattoliche.
Sul piano ideologico non lo interessavano
«i putrefatti del 1870», «papalini e
aristocratici legittimisti»55; De Gasperi
guardava piuttosto alla storia della democrazia
americana o, per quanto riguarda
l’Europa dell’Ottocento, a certi
fermenti cattolico-liberali sviluppatisi in
Francia e in Belgio.
A diciannove anni partì alla volta di
Vienna, dove rimase studente fino al 1905
e dove si formò una coscienza sociale frequentando
gli ambienti del borgomastro
Karl Lueger, espressione di un cristianesimo
sociale dalle forti venature nazionaliste
e talvolta anche antisemite. Fu nella
capitale mitteleuropea che De Gasperi
sviluppò quel carattere europeistico del
suo modo di intendere la politica che lo
segnò per tutta la vita e che lo allenò a sottoporre
le questioni ideologiche al vaglio
delle questioni politiche concrete56.
Da giovane si impose presto come
una delle personalità più forti della sua
generazione e nel settembre 1905 fu
chiamato a dirigere «La Voce Cattolica»,
proponendo, solo un anno più tardi, la
trasformazione della testata in «il Trentino
», sulla «triplice base della religione,
dello spirito positivamente nazionale e
della democrazia»57. Nell’ottobre 1904,
favorì la nascita di un partito politico,
l’Unione politica popolare del Trentino,
che nel 1909 lo porterà a essere consigliere
comunale a Trento. A partire dal
1906, la polemica tra popolari da una
parte, liberali e socialisti dall’altra, finiva
così fatalmente per acuirsi. Le varie e
pur anche interessanti vicende locali, tra
cui spicca l’aspro scontro che si ebbe nel
1909 tra De Gasperi e Mussolini, allora
giornalista a Trento, non sono che un
aspetto di un conflitto profondo e politicamente
più importante con i «signori
di Innsbruck» e la loro stampa – poco
importa se di indirizzo liberale o conservatore
–, coinvolti in una spirale di ostilità
nazionale e accusati di mantenere
un atteggiamento ambiguo di fronte alle
continue provocazioni di società germanizzanti
quali il Tiroler Volksbund e alla
loro «caccia all’italiano». Nel 1911 insieme
ai popolari Enrico Conci, Germano
De Carli, don Baldassarre Delugan, don
Guido de Gentili, Rodolfo Grandi e Albino
Tonelli, al liberale Valeriano Malfatti
e al socialista Cesare Battisti fu eletto
deputato al Reichsrat di Vienna. Era il
deputato più giovane della Camera, che
registrava la pesante sconfitta dei cristiano-
sociali e il successo dei nazionalisti
tedeschi e dei socialisti.
L’intera Europa era attraversata da
venti
di guerra e la politica austriaca di
contenimento delle rivendicazioni nazionaliste
attraverso lo strumento dei
negoziati bilaterali si mostrava inadeguata.
In questo contesto, De Gasperi
si ritrovò ad ammonire la componente
tedesco-tirolese a non confondere l’irredentismo
politico con il sentimento
nazionale del popolo trentino, coniando
la celebre formula della «coscienza nazionale
positiva».
L’inizio del conflitto suonava per De
Gasperi come «l’ora di Dio» che «conduce
i destini dei popoli secondo un
disegno inaspettato e ineffabile»58. Tra
pacifismo e militarismo De Gasperi ha
ostinatamente puntato sul «realismo»,
sostenendo la Triplice alleanza e auspicando
buoni rapporti tra Italia e Austria;
reputava di avere dalla sua la maggioranza
dei trentini, ma sottovalutava il fatto
che in caso di conflitto questi avrebbero
avuto da patire più dai concittadini austriaci
che dai conquistatori italiani. Aveva
maturato la convinzione che i rapporti
internazionali, a lungo andare, «non
si puntellano nelle baionette, ma vivono
solo col progresso economico e sociale
del popolo»59. Chiamato nella qualità di
rappresentante del suo popolo a fare da
tramite con le migliaia di esuli nell’Impero,
De Gasperi constatava che il legame
con Vienna si stava irrimediabilmente
rompendo. Così progressivamente
non avrebbe potuto che prendere atto
del fatto che con la guerra e con la sopraggiunta
«vittoria del principio della
democrazia nazionale» venivano meno
per i trentini le condizioni generali per
rimanere dentro i confini imperiali. Dai
banchi del Parlamento di Vienna nell’ottobre
1918 disse:
Mi rivolgo ai signori del governo e grido
loro: «Ecce homo!» Guardate in che condizioni
si trova il tanto discusso Trentino,
guardate voi tirolesi come appare in realtà il
tanto odiato Welschtirol; guardate voi stessi
burocrati della persecuzione come i tanto
sospettati irredentisti si possono dare daffare;
guardate infine dittatori militari come
il paese è ormai dissanguato e rispondetemi
apertamente e schiettamente: ha ancora
senso cacciare come cani arrabbiati questi
esseri umani così tormentati dalle preoccupazioni
della pura esistenza, perseguitare
questi affamati con evacuazioni politiche
e esili, con processi pazzeschi, vessarli con
ogni sorta di violente misure poliziesche e
militari? […]. Dico con la massima schiettezza:
se il Trentino apparterrà all’uno o
all’altro Stato, ormai questo lo decideranno
le armi. Noi, “non combattenti”, non
potremo esercitare alcuna influenza su tale
questione e ciò che a tal riguardo fermenta
nel cervello di un trentino è almeno sino
alla conclusione della pace totalmente irrilevante
[…] E se noi dovessimo distaccarci
da questa unione statale, allora il governo
e i partiti tedeschi dovrebbero chiedere
alla loro coscienza se non hanno fatto tutto
il possibile per renderci più facile questo
passo60.
Nel suo ultimo intervento al Reichsrat,
non avrebbe esitato a riconoscere
che «la popolazione trentina si attende
dalla conclusione della pace il riconoscimento
del principio nazionale e la
sua effettiva applicazione per gli italiani
viventi attualmente in Austria»61. Sono
premonizioni che l’esito della guerra
avrebbero reso inutili. Il Trentino sarebbe
stato italiano e i trattati di pace avrebbero
consegnato, senza colpo ferire, anche
l’intero Sud Tirolo all’Italia.
Quando finì la Prima guerra mondiale,
nel 1918, aveva 37 anni, trascorsi tutti
sotto l’Austria. Il conflitto aveva completamente
stravolto il vecchio quadro
europeo, ma nella sua mente avrebbero
continuato a valere le categorie politiche
di stampo mitteleuropeo, culturalmente
molto sofisticate. È in questa radice biografica
e politica che si trova la matrice
del suo successivo europeismo. Lo statista
europeo del secondo dopoguerra,
tra i padri dell’Europa unita, non è nato
dal crogiolo della vita di partito o solo
dall’esperienza di ministro degli Esteri.
Ha radici più profonde: nell’acuta percezione
che la grande politica tende a far
pagare ai più deboli i suoi errori e che la
storia dei rapporti tra i popoli è sempre
storia di attriti e stridore tra Stati i quali,
pur di mantenersi a galla, sacrificano i
più alti principi della convivenza umana
e gli stessi interessi dei loro sudditi.
Se si scorrono i principali interventi
degasperiani sull’Europa dal 1946 al
1954 si possono fare alcune affermazioni
fondanti. La prima è che i principi
centrali dell’europeismo degasperiano
sono di ordine morale e sociale, contrari
a ogni retorica di potenza, e che lo sviluppo
economico e il lavoro non sono
mai l’obiettivo finale di una politica, che
è la pace e la concordia nella comunità.
D’altro lato, De Gasperi colloca la sua
politica europeista in un quadro storico
di ampissimo respiro, che parte dal
Settecento e dalle rivoluzioni liberali
e nel quale i nuovi trattati, con il loro
intreccio di obblighi e di diritti, non
rappresentano soltanto la zavorra tecnica
e burocratica di interessi nazionali,
ma diventano i capisaldi di una nuova
politica internazionale a suffragio democratico.
Il federalismo europeo degasperiano62
non ha matrici americane
o mazziniane, sebbene ne tenga conto.
Possiede la caratteristica peculiare di
puntare a una integrazione delle politiche
fondamentali degli Stati – produzione,
lavoro, difesa – fondata su una
legittimazione democratica che renda
difficile il ritorno a egoismi di ceto. Nel
discorso al Senato della Repubblica del
10 aprile 1952 dirà che «se la Comunità,
con legami ulteriormente stretti, basata
su di un’assemblea democratica, non si
chiamerà Federazione, ne avrà di fatto
molte importanti caratteristiche»63. La
democrazia sono i popoli e nulla che
viene fatto in nome e per conto di essi
potrà mancare di spirito di libertà. Il
suo Testamento politico del 1943 si apre
con illuminanti osservazioni:
Chi, dopo così disastrosa vicenda e
così tragico crollo, darà la sua opera alla
ricostruzione dello Stato italiano, avrà la
sensazione precisa, avvalorata dalla storica
esperienza, che compito sopra ogni altro
inderogabile è quello di ricostituirlo in libertà.
Fissi gli occhi a questa meta irremovibile,
il ricostruttore non s’indugerà in discussioni
ideologiche alla ricerca dello Stato
ideale, né d’altro canto si lascerà turbare
dai miti d’una palingenesi rivoluzionaria.
Animate invece da sereno (e ottimistico)
realismo, data mano a quella forma migliore
di governo che più s’adatti alle condizioni
morali e sociali del popolo italiano
nel nuovo periodo storico del dopoguerra
continentale e mondiale. «Quando ordino
un paio di scarpe, il mio calzolaio prende
la misura sul mio piede, non su quello di
Apollo», diceva Felice de Merode durante
la Costituente belga, e citiamo questo aristocratico
cattolico a profitto di qualche
ideologo in buona fede che, impressionato
dalle degenerazioni parlamentaristiche o
dagli abusi della democrazia, nutrisse ancora
dei dubbi sulla necessità d’instaurare
ordinamenti liberi e popolari64.
A corredare uno spirito patriottico
europeo, De Gasperi avrebbe fatto costantemente
ricorso alle radici cristiane
del continente, prestando sempre attenzione
a mostrare che l’aspetto confessionale
non può essere confuso con quello
religioso e con il pluralismo spirituale tipico
di una civiltà millenaria. La divisione
tra le religioni così come il pluralismo
delle forze spirituali e ideali sono stimoli
all’unità e garanzia di libertà. Il crinale
europeo degasperiano è dunque sottile:
da un lato vede il vulcano della violenza,
delle ideologie e della guerra, dall’altro
contempla l’ordinato e ostinato operare
di milioni di uomini e donne capaci di
profondi slanci spirituali. De Gasperi,
prima ancora di essere un grande europeista
fu «un uomo europeo», per storia,
sensibilità e valori.
2.3. Il cattolico democratico
L’Alcide De Gasperi che nel 1945,
all’età di 64 anni, viene nominato capo
del governo italiano, fu colui che, grazie
allo strumento di un nuovo partito
di massa non soltanto portò i cattolici al
potere, ma traghettò la Chiesa verso una
sponda etico politica più avanzata, facendola
uscire dall’impasse in cui si era
trovata nell’epoca dei totalitarismi e delle
guerre mondiali. Il servizio reso da De
Gasperi – e per suo tramite dall’Italia –
va dunque inquadrato in quella grande
questione cattolica europea che portò
la Chiesa romana a porsi come guida di
un rinnovato spirito democratico con il
concilio Vaticano II, che si può anche
considerare la degna conclusione su scala
universale della secolare stagione politica
del costituzionalismo europeo.
Fin dalla sua giovinezza aveva considerato
il cristianesimo un naturale fondamento
di ogni senso di giustizia e di
pace. Nel documento appena citato del
1943, aveva affermato che
il Cristianesimo, ossia in Italia la Chiesa
cattolica [corsivo dell’autore] conservava
e alimentava il sentimento di fratellanza
evangelica, principio essenziale della civiltà
ed è ormai consenso universale ch’esso solo
ci potrà salvare dalla catastrofe, alla quale
minacciano di condurci i miti delle dittature
di razza, di classe o di partito65.
Dunque il problema dell’azione dei
cattolici nella società andava visto alla
luce del ruolo storico della Chiesa che
per il paese era anche il ruolo del papato.
Per la sua generazione la fedeltà al
papato si sposava con quella ai valori del
liberalismo e del rifiuto di ogni anticlericalismo66,
ma esisteva il problema specifico
della questione romana e di una
storia religiosa italiana nella quale il clericalismo
era una componente essenziale
dell’identità cattolica. Lo aveva intuito
osservando il modo in cui la presenza
cristiana era declinata nelle diverse vicende
storiche, ma lo aveva vissuto nella
lunga e faticosa emancipazione interiore
che dovette vivere durante gli anni del
regime quando il clericofascismo assumeva
anche le forme di un ritorno alla
scissione tra dimensione pubblica e dimensione
privata della fede67.
L’incontro con monsignor Celestino
Endrici – nel 1904 nominato da Vienna
principe vescovo di Trento – fu una
straordinaria e irripetibile coincidenza.
Egli fu per De Gasperi non soltanto una
guida spirituale, ma anche un protettore
e soprattutto un compagno di strada,
anche sul piano politico. Roma era però
un’altra cosa. Alla sua figura va accostata
quella più complessa di Pio XI e soprattutto
di Pio XII, entrambi papi di
un dopoguerra, ma anche interlocutori
scomodi. I rapporti tra il presidente De
Gasperi e la curia romana e in particolare
con papa Pio XII non furono buoni68
perché De Gasperi, che fu sempre riconoscente
alla Chiesa per averlo protetto,
non poté non preoccuparsi per l’affievolirsi
della coscienza critica cristiana
di fronte alle lusinghe del regime e per
l’indeterminatezza in cui poi la Chiesa
di Pio XII lasciava l’Italia nel momento
delle scelte di fondo per la rinascita democratica.
De Gasperi poteva contare
su monsignor Giovanni Battista Montini,
ma anche in questo caso non sempre
i ritmi della politica coincidevano
con quelli della Santa Sede. Come capo
di un partito di ispirazione cristiana dai
contorni ancora incerti aveva un problema
in più del magistero, abituato a essere
obbedito e titolare di una investitura
divina: doveva conquistarsi il consenso
della base cattolica sul campo e il terreno
era ingombro di macerie e soprattutto
conteso sia dal «fuoco amico» che da potenti
forze avversarie. Mentre le sinistre,
e in particolare Togliatti e i comunisti, rispondevano
a programmi politici già noti
o a potenti organizzazioni internazionali
come il Comintern e poi il Cominform,
De Gasperi doveva manovrare in spazi
ristretti e senza riferimenti precisi a livello
internazionale, perché anche la Cdu
tedesca di Adenauer, fondata nel 1945, o
la Csu bavarese erano molto diverse dalla
Dc69. Dovette dunque condurre un’azione
diplomatica oltre che politica anche
sul fronte interno, cercando di mettersi
sempre sul piano dei suoi potenti interlocutori
e cercando di contenere le impazienze
di chi concepiva la liberazione dal
fascismo come coincidente con la liberazione
dal giogo della Chiesa. Da giovane
si era schierato contro il modernismo e
da adulto si schierò contro tutte quelle
forme dell’intransigentismo politico che
mettevano i principi di libertà al cuore
delle questioni di fede. Tutto ciò non fa
che esaltare le qualità caratteriali di De
Gasperi che rivelò in quegli anni tutto il
valore di quella spiritualità umile e feconda
che gli derivava dalla sua formazione
trentina, la terra dove la visione serafica
di un fine filosofo come Antonio Rosmini
si fuse con la passione dell’azione sociale
a favore dei poveri di don Lorenzo Guetti,
padre del cooperativismo popolare.
Quali furono le sue stelle polari, i temi
di fondo che lo guidarono in una navigazione
pericolosa? Prima di tutto la chiara
percezione che l’antifascismo doveva
diventare una discriminante ma non per
punire un intero popolo, quanto piuttosto
per non riciclare un personale politico
compromesso. Ciò lo espose anche
a molte critiche perché la sua “epurazione”
parve non andare oltre il ceto politico70.
Altrettanto importante fu il rifiuto
di ogni anticlericalismo che gli consentiva
di offrire alla Chiesa una sponda che
si estendeva ben oltre la dimensione nazionale
e che fungeva da baluardo sulla
scena europea, soprattutto nei confronti
della nazione francese. La scelta di non
utilizzare i simboli e l’eredità del popolarismo
e la difesa della necessità di fondare
un partito nuovo, ma visibilmente
cristiano, gli parve l’unico modo per
sconfiggere sul loro terreno anche i clericali
e tutti coloro che erano animati da
spirito militante e che pensavano di poter
usare i cattolici per costruire un blocco
cristiano, intransigente e monolitico,
ad esempio Luigi Gedda, potente capo
dell’Azione cattolica71. Infine, fece valere
la sua profonda conoscenza della divisione
del paese in tante Italie: sapeva che
imbarcando sotto vessilli magniloquenti
un elettorato debole e passivo, come in
gran parte era quello italiano cattolico,
non sarebbe stato possibile competere
– come invece si doveva – con le forze
laiche sul piano della giustizia sociale e
tanto meno applicare su scala nazionale
l’esperienza democratica del cattolicesimo
sociale, già vissuta con successo nel
suo Trentino72.
De Gasperi si diede anche molto da
fare per attrarre a sé i giovani migliori e
per impedire che alcuni di loro costruissero
soggetti politici di ispirazione cristiana
alternativi alla Dc che potessero
alimentare ostilità nei confronti di quel
grande rassemblement che egli intendeva
offrire alla Chiesa, ma soprattutto all’avvenire
del paese73. Lo stesso fece per saldare
il risveglio dei cattolici alla democrazia
con l’esperienza della Resistenza e
della Liberazione. De Gasperi non aveva
partecipato a questa fase della lotta, ma
come gli fu riconosciuto anche dagli avversari,
seppe tenerne conto e si sforzò
di rappresentare la Dc su un piano di
parità con le altre forze del Comitato di
liberazione nazionale.
2.4. Conclusioni
Nella biografia di De Gasperi merita
ritornare all’esperienza del referendum
costituzionale e dell’elezione dell’Assemblea
costituente. Come ha scritto
Scoppola «l’evento che fu la nascita
della Repubblica acquista il significato
di un luogo ideale di verifica e di sperimentazione
di più mature esigenze storiografiche
»74. Per altri aspetti anche «la
europeizzazione dell’interesse per De
Gasperi»75 non può ridursi alla lettura
agiografica di lui “padre dell’Europa”.
Le diversità con Adenauer e con i francesi
Jean Monnet e Robert Schuman su
molti aspetti di politica internazionale
furono molto circostanziate e per comprendere
anche la qualità del suo anticomunismo
non ci si può mettere dalla
parte della Guerra fredda, come se fosse
una necessità indotta, bensì piuttosto
dalla parte delle società liberali e pluraliste
della prima metà del Novecento, perché
De Gasperi apparteneva alla generazione
che aveva vissuto la rivoluzione
bolscevica e l’avvento dello stalinismo.
Aveva scommesso sulla necessità di
procedere al più presto in Italia a una
prova collettiva di democrazia plurale,
vinta la quale egli avrebbe potuto ottenere
la legittimazione politica definitiva
dell’unico grande partito nuovo della
Repubblica, il primo, e fino ad allora
l’unico partito di massa di ispirazione
cattolica. In questo modo si sarebbe potuto
portare l’Italia su quella posizione
filoatlantica e di democrazia sociale che
gli pareva la più consona ad assicurare
al cattolicesimo quel posto di rilievo che
gli avrebbe consentito di riscattare i sacrifici
di chi aveva tentato di indirizzare
il cattolicesimo politico europeo – un
fenomeno antico e tutto sommato informe
– verso esiti più democratici. È noto
che la vicenda della reciproca legittimazione/
separazione della laicità della politica
e della sacralità della Chiesa non
si concluse con il giugno 1946 ed ebbe
anzi sussulti per molti anni ancora, ad
esempio nelle discussioni all’Assemblea
costituente sull’inserimento dei Patti lateranensi
in Costituzione, ma anche sul
piano interno della politica dei cattolici
in occasione della cosiddetta operazione
Sturzo del 1952, pilotata da ambienti
vaticani per mettere in difficoltà da destra
proprio De Gasperi76.
La ricostruzione del paese si rivelò
più complessa del previsto e le impazienze
di ampi settori dell’opinione
pubblica proiettavano
su di lui le ombre
di quel «tradimento» della Costituzione,
il cui prezzo si voleva far allora pagare
all’egemonia democristiana e la cui idea
riemerge per altro continuamente tra
coloro che fanno dell’intransigenza la
loro virtù. Quando morì era stato appena
sconfitto dall’impazienza politica dei
suoi più giovani e abili amici di partito,
ma, soprattutto, sul piano diplomatico,
dalla decisione dei francesi di non dar
corso a una politica comune europea di
difesa.
Il cattolicesimo democratico italiano
ha in De Gasperi un riferimento che non
si può aggirare e proprio la storia di quel
giugno 1946, di quella presidenza breve
di una Repubblica appena nata, è il simbolo
della proiezione istituzionale degasperiana,
che abbracciava l’Europa occidentale.
Nella riunione del Consiglio
dei ministri degli Affari esteri dei Sei,
del 23-24 luglio 1952, De Gasperi riuscì
a introdurre nei Trattati, all’articolo 38,
la dichiarazione solenne che l’obiettivo
finale della politica europea sarebbe
dovuto essere una comunità politica la
più ampia possibile. Tornando da Parigi
osò affermare che «finalmente all’alba
il bambino è nato. Esso è vitale e di
costituzione robusta. È l’unità europea
– la vedremo crescere, svilupparsi. Noi
anziani, purtroppo, non vedremo forse
la piena maturità. Ma i giovani sì. I
nostri figli ci benediranno per gli sforzi
compiuti»77. Fu la sua un’illusione? Può
essere, ma non fu un’illusione il metodo
politico che seppe infondere nella storia
repubblicana.
Si può concludere che sul piano dei
principi e soprattutto di quella costituzione
morale che per i cattolici non
è meno importante di quella giuridica,
De Gasperi vinse su tutti i fronti: nessuno
dopo di lui tentò mai di mettere
in discussione il primato della laicità
dello Stato e insieme il principio che le
responsabilità politiche per un cristiano
sono sempre personali, da sottoporre
al vaglio della storia, certo, ma prima
di tutto della coscienza illuminata dalla
fede. Come un bambino deve in pochi
anni ripercorrere, sostenuto da tutti coloro
a cui è affidato, il percorso svolto
in migliaia di anni dall’evoluzione della
specie umana, allo stesso modo si po-
trebbe dire che l’ontogenesi della nostra
Repubblica ha coinciso con la filogenesi
della democrazia italiana e che De Gasperi
ne è stato, in un certo senso, il precettore.
NOTE
1 Per ovvie ragioni si è scelto qui di non immergersi
nella folta bibliografia degasperiana
e tanto meno in quella sterminata sulla storia
dell’Italia contemporanea o sui rapporti tra Stato
e Chiesa. Per un panorama esaustivo della storiografia
su De Gasperi a tutto il 2013 si rinvia al
saggio di F. Malgeri, De Gasperi nella storiografia
italiana, in Su De Gasperi. Dieci lezioni di storia
e di politica, a cura di G. Tognon, Trento, FBK
press, 2013, pp. 213-251. Dopo il 2013 sono da
considerare con attenzione i contributi pubblicati
nella serie dei Quaderni degasperiani per la
storia dell’Italia contemporanea, diretti da P.L.
Ballini per la Fondazione Alcide De Gasperi e
dal 2009 editi da Rubbettino.
2 I voti a favore della Repubblica, dopo i controlli,
risultarono essere 12.718.641, pari al 54,3%
dei voti validi; a favore della monarchia si erano
espressi 10.718.502 elettori, pari al 45,7% (verbale
della Corte del 18 giugno 1946). I risultati furono
proclamati il 10 giugno 1946 dalla Corte di
cassazione, ma i verbali consegnati alla segreteria
della Camera dei deputati solo il 20 giugno.
3 Cfr. U. Gentiloni Silveri, Il passaggio istituzionale
nella documentazione alleata, in 1945-
1946. Le origini della Repubblica, a cura di G.
Monina, vol. I, Contesto internazionale e aspetti
della transizione, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2007, pp. 99-117; E. Di Nolfo, La questione
della scelta istituzionale in Italia come problema
internazionale, in «La nascita della Repubblica.
Quaderni di vita italiana», 3, 1987, pp. 103-111.
Sui rapporti tra la Santa Sede e i cattolici italiani
G. Sale, Dalla Monarchia alla Repubblica. Santa
Sede, cattolici italiani e referendum (1943-1946),
Milano, Jaca Book, 2003.
4 Leopoldo Elia ha scritto che quello fu «il
trionfo della impostazione degasperiana che separava
i lavori per la Costituzione da quello per la
Legislazione, dando in pratica la priorità all’opera
di ricostruzione rispetto a quello della riforma»,
Idee per la Costituzione, Milano, Giuffrè, 1986, p.
15. Su scala storica più ampia P. Pombeni, La questione
costituzionale in Italia, Bologna, Il Mulino,
2016. Per un quadro di riferimento ordinato sui
rapporti tra le istituzioni politiche si vedano di F.
Bonini, Lezioni di storia delle istituzioni politiche,
Giappichelli, Torino, 20102, ma soprattutto Id.,
Storia costituzionale della Repubblica. Profilo e documenti
(1948-1992), Roma, Carocci, 2007.
5 Palmiro Togliatti e Pietro Nenni si erano
opposti alla proposta avanzata dallo stesso De Gasperi
di una «presidenza arbitrale e imparziale»,
affidata a una personalità al di sopra delle parti,
ad esempio a Vittorio Emanuele Orlando. Cfr. la
ricostruzione dettagliata della crisi del governo
Parri in F. Malgeri, Il contesto politico, in N. Antonetti,
U. De Siervo e F. Malgeri, I cattolici democratici
e la Costituzione, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2017, pp. 34-35. Sul ruolo dei liberali – che
De Gasperi curava con particolare attenzione – si
veda G. Orsina, Translatio Imperii. La crisi del
governo Parri e i liberali, in 1945-1946. Le origini
della Repubblica, cit., vol. II. Questione istituzionale
e costruzione del sistema politico democratico,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pp. 211-256.
6 Nella sua biografia su Togliatti, Giorgio
Bocca scrive che il leader comunista avrebbe
notato che «le profonde radici del cattolicesimo
[erano] una premessa tremenda, tale che ha contribuito
a impedire anche l’attuarsi della rivoluzione
liberale», G. Bocca, Togliatti, Milano, Feltrinelli,
2014 (Roma-Bari, Laterza, 1972), p. 442.
7 Sdp, vol. IV/1, p. 1269. I testi e i discorsi di
De Gasperi sono stati pubblicati in un’edizione
critica in Scritti e discorsi politici di Alcide De Gasperi
(Sdp), promossa dalla Provincia autonoma
di Trento con la Fondazione Bruno Kessler e realizzata,
con il coordinamento scientifico di Paolo
Pombeni, da Mariapia Bigaran, Maurizio Cau,
Vera Capperucci, Sara Lorenzini, Barbara Taverni
da Il Mulino tra il 2006 e il 2009, in 4 volumi
per un totale di 10 tomi. I volumi sono introdotti
da importanti saggi di Giorgio Vecchio, Guido
Formigoni, Pier Luigi Ballini e Paolo Pombeni.
8 Cfr. G. De Luna, La repubblica inquieta.
L’Italia della Costituzione 1946-1948, Milano,
Feltrinelli, 2017, cap. I, p. 29.
9 Verbali del Consiglio dei Ministri. Luglio
1943-Maggio 1948. Edizione critica, a cura di
A.G. Ricci, vol. VI/1, Governo De Gasperi (10
dicembre 1945-13 luglio1946), Roma, Presidenza
del Consiglio dei ministri, Dipartimento per l’informazione
e l’editoria, 1996.
10 Sdp, vol. III/1, pp. 696-709.
11 Sulla storia della Dc si veda la Storia della
Democrazia cristiana, a cura di F. Malgeri, 7
voll., Roma-Palermo, Cinque Lune/Editrice mediterranea,
1987-2000; A. Giovagnoli, Il partito
italiano. La democrazia cristiana dal 1942 al 1994,
Roma-Bari, Laterza, 1997; V. Capperucci, Il partito
dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti
democristiane, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2010. Sulla politica estera della Dc cfr. La
dimensione atlantica e le relazioni internazionali
del dopoguerra (1947-1949), a cura di B. Vigezzi,
Milano, Jaca Book, 1987 e G. Formigoni, La Democrazia
Cristiana e l’alleanza occidentale (1943-
1953), Bologna, Il Mulino, 1996.
12 E. Galavotti, Il Professorino. Giuseppe
Dossetti tra crisi del fascismo e costruzione della
democrazia 1940-1948, Bologna, Il Mulino, 2013;
per gli interventi di Dossetti, G. Dossetti, La ricerca
costituente, a cura di A. Melloni, Bologna,
Il Mulino, 1994.
13 Accanto al gruppo degli ex popolari di
Luigi Sturzo, si erano impegnati nella costruzione
del nuovo partito sia giovani intellettuali
provenienti dalle fila dell’Università cattolica sia
quadri dell’associazionismo cattolico, in particolare
dell’Azione cattolica, all’interno della quale
tuttavia le sensibilità erano state molto diverse
soprattutto nei confronti dello Stato fascista (M.
Casella, L’Azione cattolica nell’Italia contemporanea:
1919-1969, Roma, AVE, 1992). Non vanno
trascurati i quadri dirigenti territoriali che si erano
costituiti, soprattutto al Nord, intorno all’esperienza
partigiana e al riemergere di un sindacalismo
di impronta cristiana. Si veda il caso
esemplare di Ermanno Gorrieri, contestualizzato
in M. Marchi, Una democrazia da costruire. Tra
fascismo, Resistenza e ricostruzione (1920-1963),
in M. Carrattieri, M. Marchi e P. Trionfini, Ermanno
Gorrieri (1920-2004). Un cattolico sociale
nelle trasformazioni del Novecento, Bologna, Il
Mulino, 2009. Utile il panorama fornito, anche
sulla formazione di Aldo Moro, in R. Moro, La
formazione della classe dirigente cattolica (1929-
1937), Bologna, Il Mulino, 1982 e nell’intervento
dello stesso autore del 2005 Dall’Azione cattolica
alla politica, http://www.fondazionegorrieri.it/
images/pdf/Moro_Corretto.pdf (25 marzo 2018).
Anche A. Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione.
Tradizione e modernità nella classe dirigente
cattolica del dopoguerra, Milano, Nuovo istituto
editoriale, 1982.
14 All’amico don Simone Weber, 30 marzo
1930, in M.R. De Gasperi (a cura di), De Gasperi
scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali,
uomini politici, giornalisti, diplomatici, vol. I,
Brescia, Morcelliana, 1981, p. 82. Questa raccolta
di lettere è stata riedita nel 2018 in un unico
volume, con espunzioni e integrazioni e con l’aggiunta
come curatrice di Paola De Gasperi: De
Gasperi scrive, cit., Cinisello Balsamo, Edizioni
San Paolo, 2018.
15 È di prossima pubblicazione un diario di
De Gasperi, Diario 1930-1943, Bologna, Il Mulino,
2018, degli anni del suo ritiro nella Biblioteca
apostolica, a cura di Marialuisa Lucia Sergio, con
prefazione di Maria Romana De Gasperi, che
conferma quanto già si ricava da molte lettere e
cioè la sua preoccupazione per la poca lungimiranza
delle gerarchie vaticane e per la spavalderia
con cui vari ambienti religiosi, compresi i gesuiti,
credevano di aver finalmente trovato nel fascismo
il veicolo per la definitiva affermazione di un
modello di potestas religiosa, sebbene indiretta,
sulla nazione italiana.
16 L. Sturzo e A. De Gasperi, Carteggio (1920-
1953), a cura di F. Malgeri, Soveria Mannelli, Istituto
Luigi Sturzo/Rubbettino, 2007, p. 134.
17 De Gasperi era convinto fin da giovane
che «la Chiesa vive e si evolve nella sua sostanziale
permanenza al di sopra dei partiti e dei regimi
politici che passano […] e che è assurdo immaginare
ch’essa diriga un partito o assuma la responsabilità
di una politica interna o internazionale.
Questa responsabilità, in democrazia, appartiene
al Parlamento coi suoi partiti e col suo governo»,
Consiglio nazionale Dc, agosto 1949, Sdp, vol.
IV/1, p. 1269.
18 Un’analisi efficace sulla concezione degasperiana
di una democrazia governante, mai
eversiva, si trova in F. Mazzei, De Gasperi e lo stato
forte. Legislazione antitotalitaria e difesa della
democrazia negli anni del centrismo (1950-1952),
Firenze, Le Monnier, 2013.
19 Integrazioni e modifiche al decreto-legge
Luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, relativo
all’Assemblea per la nuova costituzione dello Stato,
al giuramento dei Membri del Governo ed alla
facoltà del Governo di emanare norme giuridiche,
in «Gazzetta Ufficiale», 69, 23 marzo 1946.
20 «Art. 8. Con decreto del Presidente del
Consiglio del Ministri, sentito il Consiglio dei
Ministri, saranno emanate le norme relative allo
svolgimento del referendum, alla proclamazione
dei risultati di esso e al giudizio definitivo sulle
contestazioni, le proteste ed i reclami relativi alle
operazioni del referendum, con facoltà di variare
e integrare, a tali fini, le disposizioni del decreto
legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946, n.
74, per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente
e di disporre che alla scheda di Stato,
prevista dal decreto anzidetto, siano apportate le
modificazioni eventualmente necessarie».
21 Cfr. 50o anniversario della Repubblica italiana.
Dalla Consulta alla Costituente. Documenti
del periodo di transizione costituzionale tratti dai
fondi dell’archivio storico della Camera, Roma,
Camera dei Deputati, 1996.
22 Sturzo e De Gasperi, Carteggio, cit. Per
l’elenco delle edizioni della corrispondenza di
e a De Gasperi si consulti il sito della Edizione
nazionale dell’epistolario di Alcide De Gasperi
all’indirizzo www.epistolariodegasperi.it. L’edizione
nazionale, avviatasi nel 2017, ha l’obiettivo
di raccogliere e pubblicare in formato digitale l’enorme
epistolario degasperiano, tutt’ora sparso
in decine di archivi pubblici e privati, italiani ed
esteri, senza il quale non sarà possibile procedere
in maniera scientifica alla ricostruzione dell’opera
della statista e di momenti importanti, non
ancora sufficientemente esplorati, della storia italiana
e internazionale.
23 Il congresso della Dc romana si era espresso
nell’aprile del 1946 per la soluzione repubblicana
e così vari altri congressi provinciali.
24 Scrive Sturzo: «Secondo me la posizione
agnostica se accettata dal congresso dc si risolverebbe
in tre danni: 1) la perdita della dc. Della
leadership
del paese; 2) inferiorità politica e
morale alla Assemblea costituente; 3) una clericalizzazione
forzata di fronte al montare dell’anticlericalismo.
Si ripeterebbe dai cattolici la fase
del Risorgimento, con la differenza di allora c’era
implicato un problema di coscienza (che il papato
accentuò e non volle sciogliere): problema che
oggi probabilmente non c’è affatto», Carteggio,
cit., p. 151.
25 De Gasperi confida all’ambasciatore austriaco
a Roma Karl von Macchio che in caso di
referendum popolare almeno il 90% dei trentini
avrebbe votato per rimanere entro i confini
dell’Impero. In un successivo incontro con il
ministro degli Esteri italiano Sidney Sonnino (16
marzo 1915), De Gasperi giudica incerto il risultato
di un eventuale plebiscito per l’annessione
del Trentino all’Italia. Cfr. U. Corsini, Il colloquio
Degasperi-Sonnino, 16 aprile 1915. I cattolici trentini
e la questione nazionale, Trento, Monauni,
1975; S. Benvenuti, Il Trentino durante la Guerra
1914-1918, in Storia del Trentino, vol. V, L’età contemporanea
1803-1918, a cura di M. Garbari e A.
Leonardi, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 197-199.
26 Ci sono varie testimonianze di quell’incontro,
tra le quali la più ampia è quella del Diario di
Francesco Bartolotta, segretario di De Gasperi,
depositato presso l’ASILS, utilizzata in varie ricostruzioni
della vicenda di quelle settimane, tra
cui Malgeri, I cattolici democratici e la Costituzione,
cit., pp. 55 ss. Di quel famoso incontro parla
anche G. Andreotti, De Gasperi visto da vicino,
Milano, Rizzoli, 1986 e ovviamente F. Lucifero,
L’ultimo re. I diari del ministro della Real Casa,
1944-1946, Milano, Mondadori, 2002.
27 Trascrivo dalla raccolta dei Comunicati del
Consiglio dei Ministri per l’anno 1946 consultata
presso l’Archivio Storico della Presidenza della
Repubblica.
28 Sempre dal cosiddetto Diario di Bartolotta
si ricava che De Gasperi non avrebbe mai immaginato
di trovarsi di fronte a una vicenda così complessa
e amara e che confidò a Guido Gonella che
la fine di quella intricata polemica tra monarchia
e governo era stata per lui «una liberazione» e che
aveva davvero «temuto che per la fretta dei repubblicani
o la resistenza dei monarchici si sviluppasse
un attrito che poteva assumere le caratteristiche
di una guerra civile».
29 Sdp, vol. III/1, pp. 935-936. I discorsi e
messaggi del capo dello Stato De Gasperi sono
anche pubblicati in testa al volume che raccoglie
i Discorsi e messaggi del Capo dello Stato Enrico
De Nicola, a cura di R. Gallinari, Roma, Bulzoni,
2005, alle pagine 23-33.
30 Con la nomina di Enrico De Nicola a capo
provvisorio dello Stato la formula di decretazione
divenne d.l.c.p.s., Decreto legislativo del capo
provvisorio dello Stato.
31 L’elenco dei decreti legislativi presidenziali
del giugno 1946 è in calce al volume VI/2 dei Verbali
del Consiglio dei Ministri, cit., pp. 1679-1675.
32 Sull’esperienza del primo governo De Gasperi,
che si concluderà nel giugno 1946, cfr. G.
Fanello Marcucci, Il primo governo De Gasperi
(dicembre 1945-giugno 1946). Sei mesi decisivi per
la democrazia in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2014, che pubblica i verbali che Giuseppe
Spataro tenne degli incontri tra i partiti del Cnl
per la formazione del governo nel dicembre del
1945. Nel 1997, il Senato nel cinquantesimo anniversario
della Repubblica Italiana ha pubblicato,
a cura del suo Ufficio stampa, un prezioso dossier
sui 50 anni di documentazione giornalistica
attraverso il quale si possono seguire le vicende
del passaggio istituzionale nonché il dibattito
sui vari “tipi di presidenza”, su cui ad esempio il
filosofo Guido De Ruggiero intervenne con una
interessante serie di articoli sul «Corriere della
Sera» (La Repubblica italiana, 1946-1996. 50 anni
di documentazione giornalistica, a cura di E. Tito,
Roma, Senato della Repubblica, 1997).
33 Dal discorso riportato in P. Craveri, De
Gasperi, Bologna, Il Mulino, 2006, p. 217.
34 A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista
di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, Il Mulino,
Bologna, 2003, pp. 63 ss.
35 I governi De Gasperi furono otto. Il primo
in carica dal 10 dicembre 1945 al 13 luglio 1946;
il secondo dal 13 luglio 1946 al 2 febbraio 1947; il
terzo dal 2 febbraio al 31 maggio 1947; il quarto
dal 31 maggio 1947 al 23 maggio 1948; il quinto
dal 23 maggio 1948 al 27 gennaio 1950; il sesto
dal 27 gennaio 1950 al 26 luglio 1951; il settimo
dal 26 luglio 1951 al 16 luglio 1953; l’ottavo dal
16 luglio al 17 agosto 1953, quando però De Gasperi
– per la prima volta nella storia repubblicana
– non ottenne la fiducia del Parlamento e
dovette rinunciare.
36 G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere.
La Dc di De Gasperi e di Dossetti. 1945-1954,
Firenze, Vallecchi, 1974, p. 255.
37 In un testo del 1943, pubblicato sotto lo
pseudonimo di Demofilo, su «Il Popolo», giornale
clandestino, De Gasperi scriveva che «per
un partito esiste un problema di distinzioni e di
limiti. Il partito è uno strumento organizzativo
atto a fungere su di un solo settore della nostra
comunità nazionale, quello dello Stato […] ed è
consapevole che altri organismi sociali agiscono
nello stesso tempo e nello stesso spazio su diversi
piani. Lo sa, lo augura, lo invoca, lo presuppone;
onde non si presenta come promotore integralista
di una palingenesi universale, ma come
portatore di una propria responsabilità politica
specifica, ispirata sì al nostro programma ideale,
ma determinata anche dall’ambiente di convivenza
in cui esso deve venire attuato», Sdp, vol. I/1,
pp. 659-660. In altri testi coevi confermava che
«i partiti sono formazioni di combattimento sul
terreno politico ed è precisamente sul terreno
politico che essi devono trovare le ragioni della
loro specifica solidarietà. Far blocco semplicemente
su altre basi […] dissimulando differenze
essenziali di direttiva politica o di indirizzo sociale
è far opera equivoca la quale, anche se momentaneamente
riuscisse, crollerebbe al primo urto
con la realtà», A. De Gasperi, Studi e appelli della
lunga vigilia, Roma, Magi-Spinetti, 1946, p. 203.
38 Craveri, De Gasperi, cit., p. 196.
39 Sui rapporti con il mondo socialista e in
particolare con Nenni (con cui De Gasperi costruì
fin dal 1944, ricambiato, un ottimo rapporto),
cfr. M.L. Sergio, De Gasperi e la questione
socialista. L’anticomunismo democratico e l’alternativa
riformista, Soveria Mannelli, Rubbettino,
2004. Nobile fu il profilo di De Gasperi che Nenni
pubblicò il 4 settembre del 1954 su «Mondo
operaio».
40 Nel discorso inaugurale dei lavori della
Consulta nazionale istituita con il decreto legislativo
luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 146, Parri,
allora presidente del Consiglio, affermò: «Tenetelo
presente: da noi la democrazia è appena agli
inizi. Io non so, non credo che si possano definire
regimi democratici quelli che avevamo prima
del fascismo», De Luna, La repubblica inquieta,
cit., p. 69.
41 Da Luigi Sturzo ad Aldo Moro, Brescia,
Morcelliana, 1988, p. 165. «Rispondendo il 21
settembre 1948 alla figlia Lucia, religiosa dell’assunzione,
che gli scriveva di aver apprezzato l’opera
di Donoso Cortés (1809-1853), un grande
filosofo spagnolo reazionario del XIX secolo, De
Gasperi scriveva “che era certo un grande cattolico,
un pensatore meraviglioso […] ma che di
fronte ai rivolgimenti del 1848 era apocalittico
e pessimista e dava troppo poca importanza alla
democrazia come metodo politico parlamentare,
[…] mentre per spingere i cattolici alla battaglia
bisogna(va) avere una certa fede nel sistema democratico
ed essere ottimisti», G. Tognon, Spiritualità
e storia in Alcide De Gasperi, in Da Rosmini
a De Gasperi. Spiritualità e storia nel Trentino
asburgico. Figure a confronto, a cura di P. Marangon
e M. Odorizzi, Trento, Università degli studi
di Trento, 2017, p. 189.
42 G. Vacca, De Gasperi visto dal Pci, in Su
De Gasperi. Dieci lezioni di storia e di politica, a
cura di G. Tognon, Trento, FBK press, 2013, pp.
115-135.
43 P. Togliatti, È possibile un giudizio equanime
sull’opera di Alcide De Gasperi?, in «Rinascita
», 10, ottobre 1955, pp. 603-608; 11, novembre
1955, pp. 677-684; 12, dicembre 1955, pp. 749-
756; 3, marzo 1956, pp. 144-147; 5-6 maggio/
giugno 1956, pp. 287-295. I contributi sono ora
raccolti in P. Togliatti, De Gasperi il restauratore,
a cura di F. Silvestri, Roma, Gaffi Editore, 2004.
44 Aldo Moro, complimentandosi nel 1977
con Scoppola per il libro sullo statista trentino,
scrisse che avrebbe desiderato poter un giorno
trovare qualcuno che potesse interpretare la sua
azione politica così come era stato fatto per il suo
grande predecessore. Cfr. G. Tognon, Il Moro di
Pietro Scoppola. Storia di una lucida meditazione,
in Democrazia, impegno civile, cultura religiosa.
L’itinerario di Pietro Scoppola, a cura di C. Brezzi
e U. Gentiloni Silveri, Bologna, Il Mulino 2015,
pp. 259-280.
45 P. Craveri, in un interessante libro, L’arte
del non governo. L’inesorabile declino della Repubblica
italiana, Venezia, Marsilio, 2016, ha addirittura
fatto risalire «l’inesorabile declino della
Repubblica italiana» alla sconfitta politica subita
da De Gasperi nel 1953 e ha conseguentemente
articolato la storia repubblicana in tre grandi fasi:
quella degasperiana di una democrazia governante,
per quanto debole; quella morotea della
Repubblica dei partiti e del centro sinistra destinata
al fallimento e infine quella della transizione
infinita successiva alla crisi degli anni Settanta
caratterizzata dalle «occasioni mancate». Craveri
in sostanza rovescia la linea interpretativa di
origine azionista che, immediatamente dopo le
elezioni politiche del 1948, giudicò la politica degasperiana
una restaurazione moderata e il segno
di un tradimento delle aspettative democratiche
e popolari. Il primo che introdusse questa lettura
storica fu Leo Valiani, in L’avvento di De Gasperi.
Tre anni di politica italiana, Torino, De Silva,
1949, ripreso poi in L’Italia di De Gasperi (1945-
1954), Firenze, Le Monnier, 1982.
46 Merita di essere citata la poderosa raccolta
di 211 testimonianze, selezionate da Giovanni di
Capua, nel volume Processo a De Gasperi, Roma,
edizioni EBE, 1976 che funge da spartiacque tra
una prima e una seconda fase della storiografia su
De Gasperi e che raccoglie anche i testi più importanti
scritti fino ad allora da esponenti politici
e intellettuali non democristiani.
47 I più recenti e solidi sono quello di P. Craveri,
De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 2006 e la
grande biografia Alcide De Gasperi promossa
dalla Fondazione romana De Gasperi da Rubbettino,
Soveria Mannelli 2009, in tre volumi e così
articolata: vol. I, Dal Trentino all’esilio in patria
(1881-1943), di A. Canavero, P. Pombeni, G.B.
Re, G. Vecchio; vol. II, Dal fascismo alla democrazia
(1943-1947) di F. Malgeri; vol. III, Dalla
ricostruzione della democrazia alla «nostra patria
Europa» (1948-1954) di P.L. Ballini. Il politico
democristiano che cercò sempre di tener viva
l’immagine di De Gasperi fu Giulio Andreotti di
cui si vedano: De Gasperi e il suo tempo. Trento,
Vienna, Roma, Milano, Mondadori, 1964; Intervista
su De Gasperi, a cura di A. Gambino, Roma-
Bari, Laterza, 1977, che fece molto discutere e
che va confrontata con il libro apparso lo stesso
anno di P. Scoppola, De Gasperi visto da vicino,
Milano, Rizzoli, 1986; De Gasperi, Palermo, Sellerio,
2006, nonché i vari libri che analizzavano,
anno per anno dal 1943 al 1953, i principali
passaggi politici dell’era degasperiana, anche attraverso
il ricorso ai diari personali e alle carte
dell’archivio personale, ora depositate presso
l’Archivio Sturzo di Roma.
48 S. Mattarella, De Gasperi. La visione e il
coraggio. Lectio degasperiana del Presidente della
Repubblica (Pieve Tesino, 18 agosto 2016), Trento,
Fondazione trentina Alcide De Gasperi, 20182.
49 È il titolo del testo forse più intenso tra i
vari che De Gasperi ha dedicato all’Europa, pronunciato
a Bruxelles il 20 novembre 1948. Egli
distingue tra condizioni esteriori e interiori della
storia politica europea soffermandosi su queste
ultime e facendo, in maniera apparentemente
paradossale, non dell’ottimismo ma dell’amore
la «forza propulsiva» della democrazia, così da
porre un suggello spirituale alle virtù laiche della
democrazia, la libertà, l’uguaglianza e la fraternità.
Le origini «evangeliche della aspirazione democratica
» avevano plasmato la storia europea e
l’amore poteva entrare a far parte del loro novero
se solo lo si sapeva intendere non come un banale
sentimento, ma come quella forma di intelligenza
che ci conduce a rimanere noi stessi nei momenti
decisivi delle scelte: «Quando l’elettore democratico
è chiamato ad esercitare il diritto di voto,
egli deve essere incorruttibile in confronto alle
lusinghe dei demagoghi e dei ricatti dei potenti
e quando agisce nella manifestazione collettiva
deve vigilare perché la sua coscienza morale non
venga sommersa dalla marea spesso istintiva e irrazionale
della massa», Sdp, IV/2, p. 1150.
50 Cfr. P. Scoppola, Gli anni della Costituente
tra politica e storia, Bologna, Il Mulino, 1980; Democrazia
cristiana e Costituente nella società del
dopoguerra. Bilancio storiografico e prospettive di
ricerca, Atti del convegno di studio (Milano, 26-28
gennaio 1979), a cura di G. Rossini, 3 voll., Roma,
Cinque Lune, 1980; P. Pombeni, La Costituente.
Un problema storico-politico, Bologna, Il Mulino,
1995; Id., I cattolici e la Costituente, in Cristiani
d’Italia, a cura di A. Melloni, vol. I, Istituto della
Enciclopedia italiana, Roma, 2011, pp. 269-282;
N. Antonetti, U. De Siervo e F. Malgeri, I cattolici
democratici e la Costituzione, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2017.
51 A. Melloni, Alcide De Gasperi alla biblioteca
Vaticana (1929-1943), in Alcide De Gasperi: un
percorso europeo, a cura di E. Conze, G. Corni e P.
Pombeni, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 141-167.
52 Cfr. P. Pombeni, Il primo De Gasperi. La
formazione di un leader politico, Bologna, Il Mulino,
2007; S. Trinchese, L’altro De Gasperi. Un
italiano nell’impero asburgico. 1881-1918, Roma-
Bari, Laterza, 2006.
53 R. Aron, Il ventesimo secolo. Guerre e società
industriale, Bologna, Il Mulino, 2003.
54 La raccolta anastatica dei giornali trentini
diretti dallo statista è stata curata dalla Fondazione
trentina Alcide De Gasperi ed è consultabile
via web al seguente indirizzo: http://www.degasperitn.
it/it/progetti/Giornali-degasperiani/ (25
marzo 2018). «Il Popolo», giornale ufficiale della
Dc, è invece consultabile via web all’indirizzo
http://digital.sturzo.it/periodici/Il%20Popolo
(25 marzo 2018).
55 Parole riportate da un suo amico e citate
in A. Zambarbieri, Appunti sulla formazione spirituale
del giovane De Gasperi, in De Gasperi e il
Trentino tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra,
a cura di A. Canavero e A. Moioli, Trento,
Reverdito, 1985, p. 390.
56 Intervenendo al quarto congresso dell’Associazione
universitaria cattolica trentina nel
1901, De Gasperi invitava gli amici ad abbandonare
«la tattica della ritirata» praticata dai cattolici
negli ultimi cinquant’anni e a «rientrare nella cultura
moderna», ricominciando dal popolo, Sdp,
vol. I/1, pp. 152-159. E a Vienna, nel novembre
dello stesso anno, durante una riunione di operai
socialisti, egli ribadì che tra cultura moderna e cristianesimo
non deve esservi pregiudiziale frattura
poiché, se la verità non ha nulla da temere, l’aprirsi
alla cultura e al confronto non possono nuocere
ad alcuno, tanto meno ai cattolici.
57 Ivi, p. 426.
58 Ivi, vol. I/2, pp. 1722-1723. Nell’agosto del
1914, oltre 55.000 trentini partirono per il fronte
russo indossando la divisa asburgica; dopo il 24
maggio 1915, quando il conflitto si allargò all’Italia,
furono invece poco più di 700 quelli pronti
a combattere per il Regno, espressione della minoranza
intellettuale cittadina di fede irredentista
prevalentemente di stampo liberalsocialista.
59 «Ma le cose andranno diversamente. Dei
55.000 trentini partiti con la divisa imperiale,
11.000 non faranno più ritorno alle loro case.
Al dramma per le perdite umane si aggiunge la
sofferenza di 70.000 civili trentini che nel giro
di pochi giorni vengono sfollati in Austria, Boemia
e Moravia, e, se sospetti di irredentismo a
Katzenau, presso Linz, dove vengono internate
1.700 persone. Lo stesso vescovo Endrici viene
deportato nel 1916 nelle vicinanze di Vienna.
Sono cifre che trovano parziale spiegazione nel
sentimento di crescente sospetto degli austriaci
nei confronti dei trentini in quanto popolazione
di lingua italiana. Sorte analoga, ma con destinazione
diversa, tocca peraltro ai circa 30.000 civili
che, dopo la prima avanzata italiana, vengono
fatti sfollare a sud, in diverse regioni dell’Italia»,
G. Zorzi, Le «tre vite» di Alcide De Gasperi attraverso
gli scritti e i discorsi politici, in Su De Gasperi,
cit., p. 185.
60 Sdp, vol. I/1, pp. 1981-1982.
61 Ivi, p. 1995.
62 Su cui si veda D. Preda, Alcide De Gasperi
federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004.
Anche A. Canavero, De Gasperi, la Democrazia
cristiana italiana e le origini dell’Europa unita,
in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento
sociale cattolico italiano», 2, 1996, pp.
236-256.
63 Sdp, vol. IV/1, p. 971.
64 Ivi, vol. IV/3, p. 2830, Testamento politico
[inizio 1943]; il testo era stato pubblicato da
Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit.,
pp. 74-78.
65 Sdp, IV/3, p. 2833.
66 Nel discorso di Napoli dell’estate del 1949,
lo statista trentino ricordò che nella genealogia
della Dc c’è anche Alexis De Tocqueville, e in
questo si staccava dalla concezione negativa sullo
Stato liberale della mentalità intransigente. Non
vi è quindi contrapposizione, per De Gasperi, tra
democrazia e cristianesimo. È un dato, questo, di
sintonia anche con il «secondo» Maritain americano
di Christianisme et démocratie del 1943
(tr. it. Cristianesimo e democrazia, Milano, Edizioni
di comunità, 1953). Scoppola ha spiegato
bene che il riferimento continuo di De Gasperi
alla Rivoluzione francese implicava «non solo
l’affermazione delle libertà individuali e degli ordinamenti
rappresentativi ma, anche, sulla linea
di Tocqueville, l’idea di una democrazia pluralistica,
che esprime una società articolata in cui
individuo e Stato non sono più entità astratte e
contrapposte», La proposta politica di De Gasperi,
Bologna, Il Mulino, 1988³, pp. 85, 90.
67 Impressionante è una lettera che inviò a
sua moglie Francesca dalla prigionia il 18 giugno
1928: «Godetti di una solitudine così completa e
di un silenzio così profondo che mi potei dedicare
tutto alla vita interiore e ad un lavoro d’introspezione.
Come le nostre bambine tutte accucciate
ed intente stanno a vedere per la prima volta
la trottola che gira, così me ne stavo io ad osservare
l’anima mia, come si divincolava, barcollava,
si struggeva e poi si rimetteva, fino a trovare il
nuovo equilibrio. Dapprincipio il centro ero io e
tutto il resto si trovava sulla circonferenza: Dio,
la famiglia, gli amici. Poi lentamente, faticosamente,
gemendo e sospirando sotto la pressura
dell’esperienza, il centro si spostò: al centro stava
ora Dio ed io mi trovavo sulla periferia, col resto
del mondo; un pulviscolo in un vortice inesplorabile.
Mi provai allora a spiegare gli avvenimenti
dal Suo punto di vista», Lettere dalla prigione
(1927-1928), a cura di M.R. De Gasperi, Genova-
Milano, Marietti, 2003, p. 148.
68 Cfr. A. Riccardi, Pio XII e Alcide De Gasperi.
Una storia segreta, Roma-Bari, Laterza, 2003.
69 Cfr. Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi:
due esperienze di rifondazione della democrazia, a
cura di U. Corsini e K. Repgen, Bologna, Il Mulino,
1984; T. Di Maio, Alcide De Gasperi e Konrad
Adenauer. Tra superamento del passato e processo
di integrazione europea.1945-1954, Torino, Giappichelli,
2004; L’Europa di De Gasperi e Adenauer.
La sfida della ricostruzione (1945-1951), a
cura di M. Cau, Bologna, Il Mulino, 2012.
70 Nel volume Governare gli italiani. Storia
dello Stato, Bologna, Il Mulino, 2014, Sabino
Cassese ricorda che un fine costituzionalista cattolico
come Elia nel 1974 (De Gasperi e Dossetti,
in «Nuova Antologia», 109, 1974, p. 465) espresse
una critica al continuismo degasperiano nonché
alla sua «indulgenza verso il personale già
utilizzato dal fascismo». Si tratta di una critica
importante che ha attraversato la storia della Dc
per decenni e che è stata spesso raccolta anche
in altri ambienti. Essa tuttavia riflette lo scontro
interno al partito tra i degasperiani e le sinistre e
anche l’atmosfera degli anni in cui fu fatta, con al
centro il tentativo di Moro, per alcuni versi erede
della corrente dei dossettiani, ma forse il più
degasperiano di tutti loro, di aprire una fase nuova
nella società politica italiana rifacendosi alla
necessità di riavviare proprio dall’interno dello
Stato, dopo la fine amara della stagione del centrosinistra,
il processo riformatore dei primi anni
del dopoguerra.
71 Gedda, presidente dell’Ac tra il 1952 e il
1959, fu la personalità più forte dell’ambiente
cattolico con cui De Gasperi dovette confrontarsi
soprattutto in occasione della campagna elettorale
del 1948 e poi nella crisi con il Vaticano del
1952. Esprimeva allora una concezione clericale
dell’impegno politico, interpretando in termini
rigidi quanto già previsto all’art. 43 dei Patti
lateranensi del 1929 sulla responsabilità diretta
della Chiesa per la condotta dell’associazionismo
cattolico. Cfr. Luigi Gedda nella storia della Chiesa
e del Paese, a cura di E. Preziosi, Roma, AVE,
2013; M. Invernizzi, Luigi Gedda e il movimento
cattolico in Italia, Milano, SugarCo, 2012.
72 Una delle poche soddisfazioni gliela diede
proprio la sua terra, dove il listone fascista, anche
a causa del rifiuto preconcetto di ogni forma di
autonomia, alle elezioni del 6 aprile 1924 risultò
soltanto secondo dopo i popolari, costituendo
un’evidente anomalia nel quadro nazionale. La
svolta autoritaria fascista esercitò la sua efficacia
soprattutto sulla minoranza sudtirolese a cui il
regime impose presto, dal 1923, un modello rigido
e violento di italianizzazione forzata.
73 Sono note le vicende che riguardarono i
giovani della Sinistra cristiana. Adriano Ossicini
ha scritto nel suo diario (La sfida della libertà.
Dall’antifascismo alla resistenza 1936-1945, Trento,
Il margine, 2010, pp. 59 s.), di un incontro
con De Gasperi, da cui uscì fortemente impressionato
anche se non conquistato. Altrettanto
importante fu l’analisi preoccupata che personalità
eminenti, sebbene molto giovani, come
Sergio Paronetto, molto legato a De Gasperi,
facevano del rischio che le condanne interne al
mondo cattolico, a destra come a sinistra, finissero
per restringere l’agibilità politica del nuovo
movimento degasperiano. Cfr. Sergio Paronetto e
il formarsi della costituzione economica italiana, a
cura di S. Baietti e G. Farese, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2012 e T. Torresi, Sergio Paronetto.
Intellettuale cattolico e stratega dello sviluppo,
Bologna, Il Mulino, 2017.
74 P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione
e crisi di un sistema politico 1945-1996,
Bologna, Il Mulino, 19972, p. 192.
75 E. Conze, Al di là dei miti e delle leggende.
Il posto di De Gasperi nella storia europea, in Alcide
De Gasperi: un percorso europeo, cit., p. 290.
Si veda M. Garbari, Alcide De Gasperi e la storiografia
internazionale. Un bilancio, Trento, Società
di studi trentini di scienze storiche, 2005.
76 A. D’Angelo, De Gasperi, le Destre e l’operazione
Sturzo. Voto amministrativo del 1952 e progetti
di riforma elettorale, Roma, Studium, 2002.
77 Sdp, vol. IV/2, p. 2531.