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 2020  dicembre 02 Mercoledì calendario

Sabino Cassese «Il presidente nello sviluppo della democrazia»

3. La scelta del presidente

Le “scelte” del presidente, cioè la sua
attività, non sono interamente separabili
dalla “scelta” del presidente, dalla decisione
presa dai suoi elettori. Ambedue
sono significative, la seconda perché la
classe politica deve ogni sette anni compiere
una selezione e raggiungere un accordo,
la prima perché la selezione raggiunta
si riflette nell’azione della persona
prescelta, vi trova una continuazione,
anche quando la continuazione segnala
una frattura, come nel caso di Einaudi
dopo l’uscita di scena di De Gasperi e in
quello di Cossiga nella seconda metà del
suo settennato.
Leopoldo Elia ha osservato che l’elezione
del presidente rappresenta «il
momento della massima dislocazione e
dissociazione delle forze politiche» e ha
indicato diverse ragioni di questa verifica
settennale: il mutare dei contesti politici,
la concentrazione dei poteri nelle mani
del presidente nei momenti (frequenti in
Italia) di crisi e l’attrattiva della sicurezza
settennale della «tenure» nella posizione
più elevata. Lo stesso Elia ha ricordato
che Konrad Adenauer e Ludwig Erhard
rifiutarono la candidatura alla presidenza
della Repubblica Federale, mentre
nessun uomo politico ha seguito il loro
esempio in Italia26.
Tre aspetti sono interessanti nella
scelta del presidente da parte delle camere
riunite e integrate con i rappresentanti
delle regioni: la figura prescelta, la
sua età, i suoi titoli professionali, la sua
esperienza; la sua collocazione nel quadro
politico; la maggioranza che l’ha
portato al Quirinale.
Quanto al primo aspetto, l’età pare
aver contato molto, se si considera che,
al momento della elezione a presidenti,
i prescelti avevano in media più di 70
anni. Altro elemento interessante è che,
degli undici presidenti, sei avevano avuto
pregresse posizioni universitarie nel
campo dell’economia o del diritto o di
insegnamento liceale (Einaudi, Gronchi,
Segni, Leone, Cossiga, Mattarella), due
venivano da professioni “chiuse” (magistratura
e banca centrale: Scalfaro e
Ciampi, ma il primo aveva lasciato la sua
professione molto presto), solo tre erano
stati politici “puri” (Saragat, Pertini
e Napolitano).
Ma – ciò che è più importante – se
si esclude De Nicola, che è stato capo
provvisorio dello Stato e solo in quella
veste ha acquisito e conservato per
qualche mese il titolo e le attribuzioni
di presidente, gli altri undici presidenti
sono stati scelti tra persone che o avevano
guidato una assemblea parlamentare
o avevano presieduto il governo (o
vi erano stati vicepresidenti). Per l’esattezza,
cinque erano stati presidenti della
Camera dei deputati (Gronchi, Leone,
Pertini, Scalfaro e Napolitano; a essi si
può aggiungere De Nicola, anch’egli
presidente della Camera, ma nel 1920-
1921), uno dell’Assemblea costituente
(Saragat), uno del Senato (Cossiga), due
del Consiglio dei ministri (Segni e Ciampi),
due vicepresidenti del Consiglio dei
ministri (Einaudi e Mattarella). Senza
contare la responsabilità di molti di loro
alla guida di vari ministeri.
Perché le camere riunite hanno compiuto
queste scelte, omogenee quanto ai
criteri, pur nella grandissima diversità
degli uomini (basti pensare alle differenti
provenienze di presidenti come
Pertini e Ciampi)? Non sono state fatte
per rispettare una sorta di cursus honorum,
che abbia portato su un gradino
superiore chi era stato su quello inferiore.
E questo perché solo in tre casi
(Gronchi, Cossiga e Scalfaro) i presidenti
sono passati direttamente dalla
carica “inferiore” a quella “superiore”.
Negli altri casi, sono state elette persone
che avevano occupato il precedente
ruolo in anni anche lontani (da due a diciassette).
Dunque, la scelta ha premiato
un’esperienza e ha confermato il rapporto
Parlamento-presidente-governo.
Infatti, i presidenti di assemblea sono
eletti dall’assemblea stessa tra i suoi
componenti e il presidente del Consiglio
dei ministri – e con lui il governo,
a partire dal vicepresidente – deve avere
la fiducia del Parlamento. Dunque,
l’elezione presidenziale ha sottolineato
costantemente lo stretto rapporto che
la Costituzione ha disegnato, al vertice,
tra Parlamento, governo e presidente,
dando la precedenza alla camera più
numerosa, quella dei deputati, tra i cui
presidenti sono stati scelti ben cinque
capi dello Stato.
Insomma, nel passato, la scelta è caduta
su chi era già stato messo alla prova
nel circuito costituzionale di vertice nel
quale è inserito il presidente della Repubblica,
si era fatto conoscere e aveva
in questo guadagnato prestigio e reputazione.
Quest’ultimo è “figlio” del Parlamento
(l’articolo 83 della Costituzione
dispone che egli «è eletto dal Parlamento
in seduta comune dei suoi membri», con
la partecipazione dei delegati regionali)
e “padre” del governo (l’articolo 92 della
Costituzione dispone che «il presidente
della Repubblica nomina il presidente
del Consiglio dei ministri e, su proposta
di questo, i ministri»).
Il secondo aspetto rilevante della
scelta riguarda, in ogni caso, con una
eccezione (Antonio Segni), quella di un
leader non centrale tra le forze politiche.
Si nota qui una meditata opzione, coerente
con il modello costituzionale (o,
meglio, con la scelta costituente di non
scegliere un preciso modello). Un’opzione
particolarmente importante per la
Democrazia cristiana, il maggiore partito
di governo nel quasi cinquantennio
1946-1993. Infatti, l’elezione di una persona
estratta dalla corrente di maggioranza
della Dc avrebbe modificato l’asse
della politica italiana. Un presidente con
tali caratteristiche
avrebbe stabilito un
continuum
maggioranza parlamentaregoverno-
presidente, finendo per avere
nelle sue mani la direzione dell’indirizzo
politico, della legislazione e dell’esecutivo,
quindi con una concentrazione di
poteri che la Dc ha sempre cercato di
evitare (basti pensare alla circostanza
che, con brevi eccezioni, ha evitato che
il presidente del Consiglio dei ministri
fosse anche segretario del partito). L’elezione
di Segni, l’unico presidente capo
di una centrale, importante corrente della
Dc, avvenuta per altri motivi politici,
come si cercherà di spiegare più avanti,
dimostra questa interpretazione, prodotto
della saggezza della scelta compiuta,
che ha garantito una certa poliarchia del
sistema politico (anche se tale saggezza
è stata forse più dovuta alle divisioni interne
del partito di maggioranza relativa,
nessuna delle quali poteva tollerare
la concentrazione di potere in mano ad
altre, che a un coerente rifiuto di una figura
di presidente-leader).
Il terzo aspetto rilevante riguarda
la maggioranza che ha portato i diversi
presidenti al Quirinale. Ora, in questo
caso si evidenziano due chiare cesure,
ambedue costituite dall’allargamento
della maggioranza prima ai socialisti, poi
ai comunisti e postcomunisti. La prima
è quella dell’elezione di Giuseppe
Saragat,
avvenuta nel 1964, due anni dopo
l’inizio dell’esperienza del centrosinistra
(ma Saragat aveva già raccolto molti
voti nell’elezione del 1962, che aveva
visto prevalere Segni), la seconda quella
dell’elezione di Sandro Pertini, nel
1977, un anno dopo l’inizio dell’esperienza
della “solidarietà nazionale”. Se,
tuttavia, dopo Saragat, nella successiva
elezione, quella di Giovanni Leone, si
ripiegò su una maggioranza di centrodestra,
nelle elezioni successive a quella
di Pertini, i presidenti furono costantemente
eletti da maggioranze dell’“arco
costituzionale”, pur nel mutamento delle
sigle politiche.
Dunque, Enrico De Nicola, nel periodo
precostituzionale (1946), fu eletto
al primo scrutinio da una maggioranza
che comprendeva la sinistra socialista
e comunista (mentre non lo votarono
repubblicani, azionisti, rappresentanti
dell’Uomo qualunque e di Concentrazione
democratica). Einaudi, nel 1948,
fu eletto al quarto scrutinio dalla maggioranza
di governo, perché socialisti
e comunisti (e forse le estreme destre)
votarono per Vittorio Emanuele Orlando.
Gronchi (1955) fu eletto anch’egli al
quarto scrutinio, ma da una maggioranza
trasversale, che comprendeva tutte le
forze politiche, salvo repubblicani, socialdemocratici
e monarchici. Segni, nel
1962, fu eletto al nono scrutinio da democristiani,
partiti di centro, monarchi-
ci e missini, mentre socialisti e comunisti
votarono Saragat. Saragat, nel 1964, fu
eletto al ventunesimo scrutinio, nuovamente
da una larghissima maggioranza,
comprendente democristiani, socialisti e
comunisti, mentre i monarchici si astennero
e i missini votarono Augusto De
Marsanich. Leone, nel 1971, venne eletto
al ventitreesimo scrutinio, nuovamente
da una maggioranza diversa da quella
di governo, ma questa volta di centrodestra,
comprendente, oltre a democristiani,
socialdemocratici, repubblicani
e liberali, anche missini e monarchici,
mentre socialisti delle diverse famiglie
e comunisti, oltre agli indipendenti di
sinistra, votarono per Pietro Nenni.
Nel 1978, Pertini, al sedicesimo scrutinio,
venne ancora una volta eletto da
una maggioranza diversa da quella che
reggeva i governi, comprendente democristiani,
socialisti e comunisti, mentre
i contrari si accontentarono di votare
scheda bianca. Cossiga, nel 1985, per
merito di De Mita, che fu il regista della
sua elezione, fu votato al primo scrutinio
con una maggioranza che andava
dai democristiani ai comunisti e agli indipendenti
di sinistra, mentre i missini
votarono scheda bianca, Democrazia
proletaria votò Antonio Cederna, i radicali
si opposero. Nel 1992, Scalfaro, al
sedicesimo scrutinio, ebbe i voti di democristiani,
socialdemocratici, liberali,
socialisti, ex comunisti (Partito democratico
della sinistra), la Rete e Verdi,
lista Pannella, Südtiroler Volkspartei,
mentre solo missini, Lega Nord e Rifondazione
comunista si opposero. Nel
1999, Ciampi fu eletto al primo scrutinio,
avendo a favore Quercia (Democratici
di sinistra), Polo delle libertà (Forza
Italia, Centro cristiano democratico e
Alleanza nazionale) e contro una parte
dei popolari e pochi dissidenti (franchi
tiratori), la Lega e Rifondazione comunista.
Napolitano, il primo ex comunista
ad accedere alla presidenza, fu eletto la
prima volta, nel 2006, al quarto scrutinio,
con l’appoggio dei Democratici di
sinistra, di Margherita e Verdi, mentre
Lega e Casa delle Libertà votarono
scheda bianca (Unione dei democratici
cristiani e di centro e An si dichiararono
favorevoli ma per lealtà nei confronti
delle altre forze di centrodestra si astennero).
Alla seconda elezione, nel 2013,
fu eletto al sesto scrutinio, con appoggio
larghissimo, salvo il Movimento 5
stelle e Sinistra ecologia libertà. Infine,
nel 2015, Mattarella, al quarto scrutinio,
ebbe i voti di Partito democratico, Udc,
Sel, Scelta civica, Centro democratico,
mentre Forza Italia votò scheda bianca e
il Movimento 5 stelle votò per Ferdinando
Imposimato.
Per quanto i dati sopra riportati siano
incerti (l’elezione avviene a scrutinio segreto
e solo da dichiarazioni giornalistiche
si può evincere l’orientamento delle
forze politiche, salvo i dissidenti che preferirono
rimettere la propria scelta solo
al segreto dell’urna), si può notare che i
presidenti allargano la base del loro consenso,
fino a comprendere le maggiori
forze politiche. La circostanza che raramente
i presidenti siano stati eletti dalla
stessa maggioranza che reggeva il governo
al momento dell’elezione, e anzi che
sui presidenti siano confluiti voti di forze
antagonistiche al governo (si pensi ai voti
comunisti per Gronchi, a quelli monarchici
e missini per altri presidenti, tra cui
Segni), da un lato ha rispecchiato il “disegno”
costituzionale, che con la durata
settennale del mandato presidenziale
voleva che il presidente rappresentasse
qualcosa di più della maggioranza governativa,
destinata a durare non più del
quinquennio; dall’altro, ha contribuito
a un certo bilanciamento dei poteri in un
sistema politico parlamentare necessariamente
di tipo piramidale, dominato
dalla sequenza “pigliatutto” maggioranza
popolare-maggioranza parlamentaregoverno.
Questi tre aspetti della scelta presidenziale
(la selezione tra persone sperimentate
in un ruolo di vertice e come tali
conosciute; l’opzione per leader “marginali”
che potessero assicurare la presenza
al Quirinale di un punto di vista diverso
da quello della maggioranza del momento,
e quindi un assetto più poliarchico;
l’investitura più ampia, corrispondente
alle due fasi di ampliamento della base di
consenso dei governi della Repubblica)
mostrano che le modalità di selezione del
vertice statale sono rimaste più costanti
delle modalità di circolazione delle élites
ministeriali, che dal 1993 sono cambiate:
sono state scelte meno lungo linee partitiche,
con preferenza per persone provenienti
dall’inner circle dei tecnici, selezionate
più dai presidenti del Consiglio dei
ministri che dai partiti27.


Sta in “I presidenti della Repubblica. Il Capo dello Stato e il Quirinale nella storia della democrazia in Italia”