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 2020  dicembre 02 Mercoledì calendario

QQAN20 Ritratto di Roberto Barbolini

QQAN20

Venghino siori venghino, c’è qui il D’Artagnan della narrativa italiana, il Buffalo Bill di Formigine, il Ciro Menotti della saggistica. Siore siori venghino, c’è Roberto Barbolini! Senz’ombra di dubbio lo scrittore con l’intercalare più lungo della storia della letteratura; quando ti parla, per prendere ritmo o per chissà quale altro motivo, intona un «Per l’amor di Dio, dico bene?» e poi parte coi suoi discorsi letterari e con gli aneddoti spassosi sugli scrittori. L’ultima volta mi ha parlato di uno che non si ricorda più nessuno, eppure nel suo piccolo era un grande: Vincenzo Cardarelli. Indossava sempre cappottoni di fustagno pesantissimi, uno sull’altro, e astrakan neri, spessi, poderosi. Anche d’estate al sole. Per questo, più che scrittore vivente, era sbeffeggiato nei caffè letterari e citato come «il più grande poeta morente». Va be’ che ve ne frega se non sapete chi è Cardarelli, andate su Google e trovate tutto. Oppure comperate Il maiale e lo sciamano, il libro più recente del Barbo, e sarà tutto più chiaro. Barbolini invece, fateci caso: assomiglia dannatamente a Buffalo Bill, con quel pizzetto appuntito e il capello leggermente lungo. Oppure no, forse sembra uno dei Tre Moschettieri, con berretto e tutto il resto così come l’iconografia ce li fa ricordare. Comunque, uno o gli altri, sempre di personaggioni si tratta: veri o inventati che siano. Il punto è proprio questo, cioè mi sembra di aver capito che tutto il lavoro di Barbolini viene alimentato da una dicotomia tra personaggioni veri e figure costruite dalla penna di scrittori a cui l’autore dedica spazio per ridargli una chance. Poi lui ci mette lo stile inconfondibile da profanatore di sepolcri imbiancati e miscela neologismi, dialetti, giri di frase da stuntman della narrativa, e costruisce i suoi libri racimolando negli intertizi popolari della collettività. Se prendiamo il romanzo Vampiri conosciuti di persona, oltre al labirinto mentale, pieno di sottintesi e riferimenti, nelle lasse narrative autobiografiche miscela continuamente Dracula, vampiri, personaggi letterari e persone reali: «Stimo Pamuk, ma a distanza. Nei suoi confronti soffro di una specie di complesso del sosia. Fatte le debite proporzioni, mi sembra che parli di Istanbul un po’ come io parlerei di Modena, e non c’è Nobel che tenga: questa somiglianza m’infastidisce», dice con la sua consueta ironia nel romanzo. Riesce persino a scherzare, nella terza parte, su un episodio in cui lui stesso ha seriamente rischiato la vita. Per questo il medico che lo ha salvato prende il nome di Dottor Morte e, come in un concerto dei Dik Dik o di Springsteen, anche l’autore ha il suo backstage. Ma dell’aldilà.
Il Barbo è uno di quelli defilati che gli altri scrittori tengono sott’occhio. È recente il consiglio che mi ha dato Guido Conti: «Prendi e leggiti L’ombelico del mondo. È una libro su Modena ma se provi a copiare, puoi fare una cosa simile per Parma, per Mantova, Reggio. Leggilo, leggilo». In effetti lo scrittore ha la mano buona e già ai tempi di Magical Mystery Tour- da Pico della Mirandola a Ligabue riusciva a tenerti avvinto su roba di provincia bella strana. Sarà lo stile, saranno le primizie che racconta, ma te lo bevi tutto con piacere come fosse un buon Lambrusco fresco di Sorbara, metodo Classico. Andare in giro con lui è uno spasso perché gli vengono in mente storie raccattate in chissà quale libro, sentite chissà dove, ricordate in chissà quale faldone riemerso da polverosi archivi. Per esempio un giorno, a Modena, mi raccontò del tour che fece per l’Italia nel 1906 Buffalo Bill in persona. Ancora una mira infallibile, per carità, ma su con gli anni e un po’ rintronato. Si trattava del Buffalo Bill’s Wild West. Centinaia di figuranti, bisonti, e pellerossa a gogo per ricreare l’America qui da noi. Questa storia spassosa la si può leggere nella raccolta di racconti Il maiale e lo sciamano. Mentre raccontava dello yankee c’era con noi l’agente di Piero Angela e di Valerio Massimo Manfredi. Si divertiva un mondo, rideva, ma se volevi fare un incontro pubblico con Manfredi o Angela dovevi passare sopra al suo cadavere e c’era poco da scherzare. Un viaggio da Verona a Rovigo con il Maserati blu di Manfredi, interni in pelle bordeaux, è stato memorabile. Mi ha voluto raccontare per filo e per segno la trama del suo nuovo romanzo e, in vena di confessioni, ha parlato di un contratto milionario, mentre passavamo davanti a mobilifici con statue di leoni in gesso, ipermercati dozzinali, luminarie di centri massaggi cinesi. L’Italia odierna sbaragliata dalla mitologia romana di V.M.M.
Che bello è stato vedere arrivare Barbolini a Sermide. Dovevamo fare assieme la cena con autore alla Trattoria Cavallucci. Quella volta parlò dei suoi romanzi. In particolare ricordo che parlammo di Antonio Delfini, personaggio del suo Piccola città bastardo posto, ma che in realtà ricorre spesso nei suoi libri col nome di Delfo Semprini. Siccome avevamo visto una foto in bianco e nero in cui Delfini imbracciava un fucile al luna park e prendeva la mira contro il fotografo, tornammo a Buffalo Bill e all’aneddoto del suo fucile Springfield modello 1866, calibro 50, con cui uccise migliaia di bisonti. Stando a Barbolini quel fucile fu soprannominato, dallo stesso Bill «Lucrezia Borgia», perché al tempo la nobildonna era conosciuta negli Usa grazie a una rappresentazione liberamente tratta da un dramma di Victor Hugo.
Barbolini alterna libri di narrativa pura a sorta di reportage letterari, in cui avvicenda viaggi sentimentali di luoghi, a scritti su detective, noir, gotico, avventura. Col libro Stephen King contro il Gruppo 63 arrivò in finale per la saggistica al premio Viareggio e proprio lì mi disse che l’editore dovette fare le corse per consegnare le copie alla giuria che doveva decretare il vincitore 24 ore dopo. Il Barbo ha pubblicato indenne libri e saggi per le mitiche case editrici Theoria e Transeuropa. Gestite da geniali personaggi come Beniamino Vignola e Massimo Canalini, negli anni ’90 scoprirono, come nulla fosse, Marco Lodoli, Sandro Veronesi, Emmanuel Carrère, Silvia Ballestra, Brizzi, e poi sparirono nel nulla. Piccoli editori si diceva, ma anche piccolissimi, come nel caso di Fuoco fuochino, la casa editrice più povera al mondo con la quale il Barbo ha pubblicato brevi racconti, apoftegmi, freddure. Penso derivi da lì la sua carica di Soprintendente Perpendicolare del Collegio di Patafisica, Ordine della Grande Giduglia.
C’è da dire che Barbolini è anche un campione di gentilezza e pazienza. Un giorno a pranzo a Milano stavo male per lui perché si erano presi male con un editore lì presente. Barbolini si alzò come se niente fosse e salutò. Quel giorno offrì lui. Un signore. Oppure quella volta in cui eravamo alla Libreria Popolare e mi fece conoscere Daniela Marcheschi, la curatrice dei Meridiani di Collodi e Rodari. Di Einstein a Pavia non ne sapevo nulla, così come non ne sapevo nulla di un certo Felice Pedroni da Trignano, che emigrò con le pezze al culo per cercare oro nel Klondike, e di lì a poco si fece chiamare Felix Pedro. Divenne ricco sfondato, si attaccò i denti d’oro, ma non riuscì mai a trovare moglie. C’è tutto nel libro Il maiale e lo sciamano. Guglielmi definisce Barbolini un Manganelli pop. Garboli lo chiamava un Fellini della scrittura. Racconta roba buona che il logaritmo non vi dice. Per l’amor di Dio, dico bene?