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 2020  dicembre 02 Mercoledì calendario

Intervista a Gino Strada

Gino Strada, come mai qui? La Calabria è ultima nel rapporto contagiati/abitanti.
Eppure i medici la costringono al selfie distanziato, i cittadini la ringraziano.
«Perché ce lo hanno chiesto: siamo nell’unica Regione al mondo che destina il 70% del suo bilancio alla Sanità, con risultati fallimentari».
È la prima volta che il governo chiama Emergency.
«La gente scende in piazza, fa i cortei in auto in zona rossa invocando il diritto alla Salute: anche il governo si sarà fatto qualche domanda. Del resto Conte mi ha detto: ho parlato con Macron, per prima cosa mi ha chiesto della Calabria».
Le hanno offerto la carica di Commissario?
«No, ma quando ho visto che girava la candidatura di Rosi Bindi mi son messo le mani nei capelli: da lei è iniziato lo slittamento verso il privato. Una volta la Sanità Pubblica era un dogma. Poi come è successo in modo macroscopico qui, il pubblico ha perso, i servizi sanitari sono stati depauperati, chiusi gli ospedali, tagliato l’organico. E gli stessi medici si sono trasformati in imprenditori di se stessi, all’interno degli ospedali».
Come reagisce quando legge: la Calabria come l’Afghanistan.
«Un paragone stupido. C’è certamente una questione criminale, le cosche sono state sottovalutate, fiancheggiate, tollerate. In certe aree hanno aperto e gestito laboratori di analisi e cliniche. Entro domani incontro il commissario Longo. Ma se l’Italia sposta verso il privato 25-30 miliardi di bilancio, non dobbiamo stupirci se poi arriva la ‘ndrangheta. La Salute non è più un diritto, ma un bene di mercato, legale e illegale. E le truffe alle Asl non sono un’esclusiva calabrese».
La sua associazione lavora già a Polistena, nella Piana di Gioia Tauro.
«Insieme a Libera gestiamo un bene confiscato, con l’appoggio del Comune. Siamo in un’area con tendopoli e accampamenti improvvisati con il cartone per i braccianti, cose che ho visto solo in Sudan, con un altro clima però.
Alcuni ci hanno detto: stavamo meglio a casa nostra».
Ma c’era anche Riace, fino a quando non è arrivato Salvini.
«Di Riace io sono cittadino onorario».
In che modo l’esperienza di Emergency può servire a queste zone? Servono piccoli ospedali, bisogna arrivare in paesi di montagna irraggiungibili.
«Dipende dalle regole di ingaggio. Ci sono ospedali come quello di Cariati che potrebbero riaprire in poche settimane. Altri come Gerace, costruiti e mai aperti. Emergency è pronta a prendere in carico una di queste strutture, naturalmente con tutte le questioni legali a posto.
Sappiamo costruire e gestire, l’ultimo progetto è firmato Renzo Piano».
A Cariati, un’ora a nord da qui, l’ospedale chiuso è stato occupato, come si faceva con le fabbriche.
«Il posto giusto per ripartire.
Vogliamo proporre un modello nuovo, che nasce dalla medicina di base, dove non si spende un euro in più ma neanche uno in meno.
Emergency lavorerà anche nelle Usca, le unità di continuità assistenziale, in molte zone del nostro Paese non hanno funzionato.
Con un’attenzione maggiore al territorio, avremmo evitato il sovraffollamento degli ospedali.
Dobbiamo assistere le perso ne anche a casa loro, ci vuole più prevenzione. E con più cautele e meno omissioni – vedi la storia delle mascherine vietate al Trivulzio – ci sarebbero state meno vittime».
La Calabria in luglio era Covid-free.
«Anche qui peccati di superficialità, nelle Rsa come nei centri immigrati, pagano le fasce più fragili».
Una pandemia è come una guerra?
«Diciamo che anche la pandemia non è un’operazione democratica, non colpisce tutti allo stesso modo.
Aumenta le disuguaglianze, e la Calabria ne è la prova: lo scheletro di un sistema. Ho letto il piano del governo, è tutto al futuro, un "si farà" dopo l’altro, ma qui c’è bisogno di raggiungere dei risultati ora.
Lanciamo a un appello agli operatori sanitari, e naturalmente ai sostenitori: Emergency ha bisogno di voi. Non solo negli ambulatori ma anche nei progetti come "Nessuno escluso": assistenza e distribuzione di beni di prima necessità, da Piacenza a Napoli».
Come misurate la crisi, dal vostro punto di vista?
«Siamo una Ong e viviamo di donazioni: ci sono baristi, proprietari di cinema, studenti che ci scrivono per dire: quest’anno devo rinunciare/abbassare il mio contributo».
Quanti persone saranno in Calabria?
«Per ora una ventina, più medici che infermieri: quelli dovrebbe arrivare dalla struttura pubblica».
Sbloccate le assunzioni, pare.
«Sono stati sempre tenuti sotto traccia, ma con la pandemia i cittadini hanno capito: quella dell’infermiere è una figura sociale decisiva sul territorio, il taglio è criminale».
La squadra è già fatta?
«Sicuramente ci sarà Daniela De Serio, una cardiologa di Lamezia Terme che ha lavorato con noi per quattro anni in Sudan e poi all’ospedale da campo di Bergamo.
Ha subito chiesto di essere coinvolta».
Vi fermerete ai due tendoni e al reparto di terapia sub-intensiva di Crotone?
«No, anzi siamo pronti ad allargare il nostro intervento, anche fuori Regione».
Lei è sempre stata una voce "contro": come mai questa collaborazione così stretta col governo?
«I cittadini stanno sperimentando sulla propria pelle un diritto negato.
Dalla Lombardia alla Calabria, la storia non cambia. Lo stesso concetto della lista d’attesa è odioso. E spesso la fretta di farsi visitare vince sulla qualità dell’intervento, non è detto che dalla competizione venga sempre fuori il meglio. Se poi guardiamo al vaccino anti-influenza, non lo trovo io in Lombardia e –come leggo- nemmeno a Roma».
Il decreto Calabria ipotizza la nomina di due subcommissari: uno per i conti e l’altro per l’emergenza sanitaria. Lei è disponibile?
«Non posso farlo da solo, ma con la squadra giusta e con un’assoluta autonomia operativa ci sarò».