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 2020  novembre 27 Venerdì calendario

La regina delle virgole del New Yorker

Nella redazione di ogni giornale c’è una figura sconosciuta alla maggioranza dei lettori. In italiano non ha un nome preciso. Nei paesi anglosassoni ne ha vari: checkerpage ok’ercopy editor. Chiamiamolo revisore di testi. Il revisore lavora al livello del periodo, della parola, della punteggiatura. Scova errori quasi invisibili a occhio nudo. Applica regole, ma sa anche fare eccezioni per preservare il finissimo segreto di una bella frase. È custode delle consuetudini ortografiche e tipografiche del giornale (il Venerdì, per esempio, usa il corsivo per i titoli, scrive “il” graphic novel...). Spesso incute timore, per via di un’oscura associazione tra grammatica e morale. Ma c’è una rivista dove questa figura ha assunto tratti addirittura mitologici: «Se i copy editor sono una specie a sé» ha dichiarato la famosa copy editor Patricia T. O’Conner, «quelli del New Yorker sono qualcosa di totalmente diverso. Gente che si getterebbe da una scogliera piuttosto che rinunciare alla dieresi su coöperate». Da qui bisogna partire per conoscere Mary Norris, storica Comma Queen del New Yorker, ovvero Regina delle Virgole in un magazine in cui le virgole, come disse E. B.White, «cadono con la precisione di coltelli che delineano un corpo». Il 4 dicembre questa temibile signora, la cui penna rossa ha vergato i testi dei massimi scrittori americani, sarà in collegamento con l’Italia per una lectio sull’universo mitologico femminile e l’influsso del greco antico sulle lingue: l’occasione è il Festival del Classico, curato da Ugo Cardinale e presieduto da Luciano Canfora. Ebbene sì: Mary Norris conosce anche le lingue morte.
Cosa significa essere una Comma Queen?
«Significa lavorare nell’ombra per far fare bella figura agli autori. Sia chiaro che il soprannome non lo me lo sono dato da sola, eh?».


Ma le piace?
«Certo. Vuol vedere la mia corona?».
La prego.
(La Comma Queen sparisce dall’inquadratura di Zoom per rientrarvi poco dopo con una corona di latta da cui pendono - presumibilmente - dei campanellini a forma di virgola).
Molto bella.
«L’ha fatta il mio agopuntore».
Posso chiederle qual è il suo segno di interpunzione preferito?
«La virgola, che domande».
E del punto e virgola, che mi dice?
«Mi sono fatta la reputazione di odiarlo. Essenzialmente perché ci ho messo anni a capire come va usato. C’è chi lo considera una virgola extra forte. Va bene. Alcuni scrittori lo usano per connettere visivamente due frasi, senza che tra le due ci sia un vero nesso logico. Questo va male».
E il punto esclamativo?
«Va usato con parsimonia. Il potere dovrebbe essere nelle parole».
Vi prendono in giro perché scrivete ancora coöperate con la dieresi e I.B.M. con i puntini.
«Ormai fa parte del brand. È un vezzo. Se trovi three hundred and eighty five million scritto a lettere, sai che stai leggendo il New Yorker».
Questo stile ha un padre, o una madre?
«Direi un padre, Hobart G. Weekes. Poi ci sono state due copy queen rivali: Eleanor Gould, fedele allo stile, e Lu Burke, che provava in tutti i modi a sbarazzarsi della dieresi. Un giorno, in ascensore, Weekes sembrò vacillare: disse a Lu che era sul punto di eliminare la dieresi e che presto avrebbe mandato un promemoria. Poi morì. Era il 1978. Da allora nessuno ha più osato tornare sull’argomento».
Mi racconta qualche bel colpo messo a segno in trent’anni di carriera?
«Vediamo. Ricordo un pezzo di John McPhee, scrittore scrupolosissimo: su diecimila parole, di solito ce n’è solo una sbagliata. Io ho avuto il piacere di trovarla. Non è scontato: al New Yorker, prima di chiudere un pezzo, c’è una riunione in cui l’autore, l’editor, il fact checker, il proofreader e il copy editor rileggono il testo insieme. Più volte».
Mi racconti un’altra storia.
«Un giorno mi arrivò sulla scrivania il primo capitolo di Ho sposato un comunista di Philip Roth. Ovviamente immacolato, perché già passato da altre mani. Beccai un minuscolo errore in una citazione. Più tardi ricevetti una nota dell’editor (noi copy comunichiamo con gli autori attraverso gli editor) con scritto “Roth dice: chi è questa donna? Vuol venire a vivere con me?”. Ora è troppo tardi per farmi avanti».
È vero che ha provato a cambiare una battuta di Woody Allen?
«Sì. L’editor aveva anche approvato».
E poi?
«Il suggerimento è stato ignorato».
Editare i comici, un lavoro delicato.
«Mi sarebbe piaciuto farlo anche con Steve Martin, ma purtroppo lavora con un’altra copy. Meglio: avrei avuto la tentazione di correggergli qualcosa solo per attirare la sua attenzione. Lo sa che ha sposato una nostra fact checker?».
Checker, copy editor sono soprattutto donne.
«Perché in origine erano le donne a fare questi lavori. Nessuno le riteneva abbastanza brave da fare gli editor».
Parliamo della sua icona femminista: Atena. Cosa dirà di lei nella lectio?
«Che è la dea che ho sempre voluto emulare. Un simbolo di saggezza e autocontrollo. Il suo ulivo rappresenta quello che più amo della Grecia: la capacità di curare ciò che si ha e di trarne molti, meravigliosi frutti».
Il suo libro Greek to me è una lettera d’amore alla cultura greca. Quando è nato questo sentimento?
«Trent’anni fa ero a mollo nel Mar Egeo e ho provato un bruciante desiderio di conoscere la lingua usata tremila anni prima in quello stesso mare. Tornata a casa riuscii a convincere il New Yorker che il greco antico era fondamentale per il mio lavoro».
Le hanno pagato il corso?
«Cinque anni alla Columbia University. Erano altri tempi».
Quindi ha letto Omero in lingua originale?
«Oh sì».
E adesso, cosa sta leggendo?
(Mostra alla telecamera un libro di Guanda e scandisce con accento inglese) «Non superare le dosi consigliate della mia amica Costanza Rizzacasa D’Orsogna».
Le piace?
«Molto. E mi riposa».
Perché?
«Perché prima ho letto Petrarca».