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 2020  dicembre 01 Martedì calendario

1QQAN40YSESSO Le trame di donna Barbara. Sesso e congiure nel 500

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La signora dei salotti padani di fine Cinquecento – oggi forse sarebbe l’ape regina dei bunga bunga – è una Barbara: Barbara Sanseverino, classe 1550 e discendente di un’illustre famiglia napoletana. Animatrice delle feste più licenziose e mondane tra Parma, Mantova e Ferrara, la marchesa di Colorno torna primattrice nel saggio di Gigliola Fragnito per Il Mulino – La Sanseverino –, dall’eloquente sottotitolo: “Giochi erotici e congiure nell’Italia della Controriforma”.
Donna controcorrente e sicuramente contro-Controriforma, Barbara si rivela un modello forte di femminilità, intelligenza e potere in un’epoca maschilista, conservatrice e bacchettona: il suo demi-monde frivolo e stuzzicante vive però in un tempo effimero e fugace, sospeso tra i sollazzi del passato rinascimentale e la licenziosità dei futuri libertini. L’autrice, non a caso, l’accosta ai nobili lubrichi delle Relazioni pericolose di Laclos (1782), anche se il riferimento letterario smaccato è allo Stendhal della Certosa di Parma (1839), laddove la Sanseverino diventa Sanseverina, l’intrigante zia di Fabrizio del Dongo (mentre Balzac riconosceva in lei la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso, mah).
Barbara sposa a 14 anni il 40enne Giberto Sanvitale, conte di Sala, ma lo frequenta poco, giusto il tempo di farci due figli; i bagordi la chiamano di qua e di là e il marito le fa causa per abbandono del tetto coniugale, dopo aver tentato – coi suoi amici preti – di annullare il matrimonio per i legami di parentela tra di loro. In attesa del santo verdetto, il Papa – per precauzione – fa rinchiudere madama la marchesa in convento, consigliandole di darsi alla meditazione (seee), ma per sua fortuna Giberto muore prima: fine delle nozze e della clausura. La vedova troverà poi modo di consolarsi con Orazio Simonetta, signore di Torricella, sposato nel 1596 previ calcoli patrimoniali.
“Bona grassotta, tanto bella che non si può dire di più”, più cortigiana che santa, Barbara è gioiosa e seduttiva, lasciva e spietata: tanto amabile coi nobili sul divano, quanto feroce coi contadini e servi che lavorano nelle sue terre; uno lo uccide pure, per non parlare delle cause legali per soldi ed eredità coi parenti e una spiccata vocazione antisemita. Più degli uomini, le interessano gli averi; il suo feudo a Colorno, nel parmense, è per lei “paradiso e cuore”: casa d’appuntamenti, bordello, bisca, teatrino di spettacoli, feste e carnevali, ma anche regno di amazzoni, giochi saffici e travestitismi “con habito in parte succinto”. Non mancano, però, i trastulli intellettuali e le tenzoni poetiche, cui prende parte persino Torquato Tasso, che le dedica un sonetto “in lode de’ capelli”.
La dama si circonda di gente dedita “a crapula et dameggiare, venere e chiavamenti, armi et amori, licentie et abusi”: il loro è un “vivere assai licentioso; si va, si sta, si leva, si mangia, si giuoca… cose e spese straordinarissime… cianciando, bevendo e ballando continuamente”. Barbara ne esce sempre da signora, “dolcemente frizzante, prelibatissima”: ha un gran fisico, va detto; è l’unica della compagnia che riesce a svegliarsi in forma dopo una notte di “crapula e banchetti dissolutissimi”. Per ridarsi una qualche verginità, di tanto in tanto si reca in pellegrinaggio a Loreto, mentre i pettegoli favoleggiano sulle sue doti da strega, “carateri et incantesimi che tanto sicura la rendono nelle sue pericolose imprese”.
La Sanseverino, come padrona di casa, non si concede volentieri agli ospiti, non a tutti, almeno: preferisce fare da intermediaria tra dame e cavalieri, interpretando il ruolo della maîtresse, non della concubina. Vociferatissima è, però, la sua relazione con Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, mentre agli altri spasimanti dà in pasto le sue amiche dai facili costumi. La sua astuzia e il suo carisma la salvano da un mondo machista, non dalla forca: “Inquieta, cervello terribile”, spregiudicata e intrigante, tesse una rete di relazioni importanti che la tutelano come donna e come moglie, in anni in cui le consorti finiscono spesso accoltellate (vedi la sorella Giulia) o avvelenate (vedi la figlia omonima) dai mariti.
Ciononostante, la Sanseverino è destinata al patibolo per “lesa maestà” e aver tramato di assassinare Ranuccio I Farnese, duca di Parma e Piacenza, e la sua famiglia. Ranuccio è invero un tipaccio, violento e superstizioso, crede nella magia e frequenta ciarlatani: il suo obiettivo è far fuori dal territorio parmense i feudatari come Barbara, strappandole soprattutto il buen retiro di Colorno. Pur di incastrarla, sguinzaglia spie e scagnozzi, che fabbricano accurate prove di intrighi e congiure ai suoi danni. Accusata, non si sa quanto ingiustamente, la marchesa affronta il processo come una teatrante svenevole, tra sospiri, pianti e invocazioni a Dio, lei che anni prima si era fatta ritrarre come protagonista nella pala del Martirio di Santa Margherita. Quale beffarda profezia, considerato anche che il suo amante, il famigerato Vincenzo, è l’unico dei “congiurati” a passarla liscia perché, essendo straniero di Mantova, non è obbligato a comparire a giudizio.
Barbara è la prima a finire sul patibolo, in piazza Grande a Parma, il 19 maggio 1612: “È nata Signora, et vole morire Signora”, ma la mannaia si inceppa e il boia – Cesare Dodi, poi processato per le indecenze sul cadavere – sfodera un mannarino per animali di piccolo taglio. Incitato dalla folla, prima di decapitarla, alza alla poveretta “suso la camisa”, dandole “delle sculazzate”. Disse lei, una volta: “Non giova esser donne, né dame hoggidì”.