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 2020  dicembre 01 Martedì calendario

Intervista a Claudio Baglioni

Un nuovo disco di Claudio Baglioni, di questi tempi, fa l’effetto di un canto di sirena gettato in mezzo a un chiassoso ingorgo di macchine. Tutto si sbriciola, tutto si frammenta in mille piccoli rivoli di comunicazione e lui chiede di essere ascoltato, possibilmente di seguito, per ben 78 minuti, con un disco interamente suonato da strumenti veri, orchestra, un oceano di suoni e melodie che sembra arrivare da un mondo lontano. Una pazzia? «La speranza è che almeno una volta venga ascoltato di seguito, poi ognuno può prendersi le canzoni che preferisce da riascoltare quando vuole», racconta Baglioni dalla sua casa romana, «in fondo sono 78 minuti di vita, non pochi, ma neanche troppi.
E poi noi di questa età abbiamo dei doveri, non possiamo pensare di essere come la collezione autunno-inverno di quest’anno, saremo anche "usato sicuro" ma non possiamo evitare di essere quello che siamo stati».
Il nuovo album si intitola In questa storia che è la mia , esce dopo sette anni di assenza discografica e tre di lavorazione, «ma di mezzo c’è stato Capitani coraggiosi con Morandi, due festival di Sanremo, un live complesso, insomma non è che sono stato a non far niente».
Dopo un poderoso attacco d’orchestra il disco comincia con un verso che dice "ho vissuto per lasciare un segno". Così, un inizio da niente…
«Allora diciamo che almeno dei solchi li ho lasciati, ma non è solo una battuta. Il verbo che mi ha dato una direzione è stato "incidere", ha cominciato a frullarmi nella testa ossessivamente, anche per quel doppio senso tra i dischi e la vita, un tempo si diceva "incidere" un disco, e non registrare. Ma ho inciso nella sfera emotiva, intellettuale, nella memoria della gente? Diciamo che è stata una piccola stella polare da seguire, per fare un album sufficientemente potente. Anche perché potrebbe essere l’ultimo».
Ma cosa dice? E perché mai dovrebbe essere l’ultimo?
«Intendevo solo dire che non è che sono al primo disco e ho davanti cinquant’anni di carriera, è sicuramente un album di una fase finale di una carriera durata per mia fortuna più di 50 anni. Ma in realtà questa idea di lasciare un segno mi ha fatto tornare in mente l’energia fisica e intellettuale degli inizi. Ma anche di esser curioso sulla parola fine, una delle parole più complicate da gestire ma che, come nelle commedie cinematografiche, ogni volta merita un punto interrogativo, un forse. È un gioco al rimpiattino tra le prove del gran finale che faccio da almeno una ventina d’anni e ogni volta lanciare un sassolino oltre e provare a raggiungerlo. Una strana corsa».
Nel disco parla di vecchi sogni delusi. Ma il mondo le sembra così più brutto?
«Il mondo è più brutto sì, di sogni ce ne sono stati sempre meno, ha preso il sopravvento qualcos’altro, una smania di fare, ma anche il pubblico è cambiato, non solo gli artisti. Forse c’è meno talento ma anche un mondo meno interessante da raccontare».
Eppure c’è un pezzo intitolato "Un mondo nuovo" che nella costruzione del testo fa addirittura fa il verso a "Imagine". Quindi ci può essere qualcos’altro?
«È perfino, forse, un pezzo ingenuo. Mi è venuto in mente come la successione di cartelli di un corteo, dove gli slogan sono per forza di cose molto semplici, in un periodo in cui di cortei se ne fanno meno, si fanno molti appelli social, magari individuali. Quelli che cambiano il mondo sono i sogni plurali, non se è troppo ambizioso, forse è retrodatato come molti altri episodi del disco. E poi due anni fa ho scritto una nuova traduzione per Imagine , forse è un residuo di quel lavoro…».
Al di là del titolo, quanto ci ha messo della sua storia in questo disco?
«Tantissimo. Io faccio un mestiere che non avrei mai pensato di fare, forse avrei cercato qualcosa di simile dove vivevo, nel quartiere di Centocelle che non era la periferia difficile di oggi ma era comunque periferia, venuto su da una famiglia che non aveva tutti questi mezzi, è come se avessi vinto il gran premio della lotteria, ma io poi ho passato il resto della vita cercando di meritare questo biglietto. Sono cresciuto come figlio unico, abituato da solo, mia madre faceva la sarta, era molto prudente essendo io il suo "claudiuccio", mi spaccavano sempre gli occhiali, non per bullismo ma capitava. Da questa abitudine a stare solo nasce la capacità di fotografare alcuni dettagli».
Dica la verità, a Sanremo ci tornerebbe magari come ospite?
«Come ospite c’ero stato due volte, poi mi sono ritrovato direttore artistico e pensavo sarebbe stato più drammatico, misi le mani avanti, ho una laurea in architettura, se proprio va male mi metto a fare quello di lavoro, invece ne sono uscito vivo, e anche con un buon riscontro. Certo potrei tornarci come ospite, ma qualcuno mi ha fatto notare che non si può uscire da papi e tornare cardinali. E su questo bisogna riflettere».
Ha annunciato per l’anno prossimo una serie di concerti alle terme di Caracalla. Provi a immaginare: cosa dirà al pubblico dopo tanto tempo?
«Potrei cantare Io sono qui che inizia dicendo "Dove sono stato in tutti questi anni?" oppure semplicemente, come disse Enzo Tortora quando tornò in televisione: "Dov’eravamo rimasti?"».