la Repubblica, 1 dicembre 2020
L’ultima sfida del Barbiere: sedurre tutti
E se il Covid, tra le tante sciagure, avesse dato al teatro in musica una nuova possibilità? Se gli obblighi e i limiti imposti dall’epidemia avessero aperto nuove strade per la creatività degli allestitori? Se quel catalogo di capolavori, la sterminata commedia umana rappresentata dall’opera lirica, uscisse dalla cerchia degli appassionati per diventare nuovamente una comprensibile rappresentazione della nostra vita?
L’opera lirica, uno dei doni che l’Italia ha fatto al mondo, oggi è diventato un genere nel quale non è facile riconoscersi, soprattutto per i più giovani, travolti dalla rivoluzione digitale. Tentare di riportarla tra gli spettacoli più seguiti è un’ardua scommessa. Però non impossibile. Di sicuro c’è che le nuove vie tentate dalla lirica si arricchiscono di continuo. Per esempio: mettere in scena il Barbiere di Siviglia che aprirà la stagione dell’opera di Roma a teatro vuoto, con i cantanti e il coro disseminati tra palcoscenico, palchi e platea per una rappresentazione destinata dunque non agli spettatori in sala ma all’audience potenziale degli schermi televisivi. Non uno spettacolo ripreso dalla televisione ma uno spettacolo in sala (vuota) concepito per la tv.
Qualcuno ricorderà la polemica dell’estate scorsa seguita al Rigoletto messo in scena da Damiano Michieletto al Circo Massimo (direzione musicale di Daniele Gatti). Niente più Mantova medievale, né il buffone gobbo col copricapo multicolore e i campanellini. L’ambientazione era anni ’80, i cortigiani ("vil razza dannata") una banda di mascalzoni tipo mala del Brenta. Il rossiniano Barbiere vedrà ancora una volta sul podio Daniele Gatti (evidentemente favorevole al nuovo) ma andrà ancora più in là. L’immensa sala del Costanzi è stata trasformata in un “allestimento”, come si dice nel gergo delle arti visive. Sorpresa di grande impatto, di cui solo alla fine si coglierà l’aderenza alla storia narrata nel libretto di Cesare Sterbini. Ho scritto “aderenza”, il regista Mario Martone preferisce però un’altra parola: “pertinenza”. Termine molto impegnativo, definito dal vocabolario: «Relazione di reciprocità sul piano delle attribuzioni logiche o funzionali». Non è facile essere “pertinenti” quando si parte cancellando la separazione scena-platea, la scenografia viene abolita, l’intera sala si trasforma nel luogo dell’azione. Per secoli, fin dai tempi della tragedia greca (ancora una volta tutto è nato lì), un solo canone è rimasto sempre fisso: la separazione tra scena e platea: io recito, tu assisti. Nel Barbiere non sarà più così. Due esempi: il palco reale diventa il balcone dietro il quale Rosina spasima d’amore. Una delle uscite laterali della sala dove una breve scaletta conduce al livello del foyer, diventa il luogo in cui Figaro indica al conte la sua bottega: «Non si sbaglia, guardi bene, eccola là...».
L’idea del teatro vuoto è stata imposta dalla pandemia con un’alternativa secca: o vuoto o niente. Come però accade talvolta a chi deve fare di necessità virtù, il vuoto s’è trasformato in un modo nuovo di interpretare un teatro. La visione globale e lontana che normalmente ha lo spettatore in platea, sostituita dalla visione parcellizzata e vicina di una ripresa televisiva.
La polemica dell’estate scorsa girava intorno alla domanda se sia artisticamente lecito uscire dall’ambientazione originaria descritta nel libretto. La maggioranza dei lettori, intervenuti su questo giornale, si sono espressi per il rispetto delle indicazioni originali, comprese le didascalie dell’azione. Martone salta lo steccato, abbandona i principi, va alla sostanza della storia. Intorno a quale perno gira il Barbiere? Rosina; se il motore dell’azione è il vitalissimo Figaro del titolo ("Largo al factotum") è per liberare lei, la bella prigioniera, che l’azione procede e, nel finale, si scioglie. La “pertinenza” comincia nell’istallazione che invade la sala restituendo con visibile metafora i lacci che legano Rosina al tutore, ai costumi del tempo così crudeli con le donne.
Se si ammette che il regista Mario Martone abbia visto giusto (lo vedremo presto) un allestimento di questo tipo supera la domanda iniziale. Il fatto che sia sparita l’oleografica piazzetta per l’iniziale serenata dal conte non ha più grande importanza. Contano l’amore professato e l’amore nascosto per ordine del perfido tutore. L’assunto è rischioso. Nell’opera lirica il maestro concertatore e direttore ha l’obbligo di restare nei confini della partitura. Può interpretare il ritmo, la dinamica, i livelli delle varie sezioni orchestrali, può intervenire sugli accenti e i fiati dei cantanti, la partitura però è quella, da lì non si scappa. Allora perché il regista dovrebbe prendersi una tale ampia libertà? L’idea di Martone è che le possibilità interpretative del regista somiglino a quelle del lettore di un romanzo o d’un dramma. Chi legge oggi una tragedia di Shakespeare non resta con la fantasia dentro la vicenda descritta. Più facile che, leggendo, le sue associazioni mentali s’allaccino per analogia a qualche spunto dettato dall’attualità. Si può dire di più: lo stesso Shakespeare – per restare nell’esempio — s’affida alla parola per creare “realtà” che prendono vita solo nella fantasia di chi ascolta. Esce sul palcoscenico un attore, uno, descrive una battaglia, parla di moltitudini, di scontri tra eserciti, di bandiere strappate al nemico, del balenare delle lame. Tutto quello che vede lo spettatore è un attore, solo al centro della scena, tutto ciò che sente è un rullare di tamburi in quinta. Eppure, c’erano allora, ci sono oggi, platee che ascoltano ammutolite mentre ognuno, dentro di sé, rivive il fragore della sua battaglia. Se questa è la magia della parola poetica, ancora di più è capace di fare la parola quando viene messa in musica.
È una tesi che sicuramente supera la contrapposizione un po’ schematica se si debba essere o no fedeli alle indicazioni del libretto. Esiste una fedeltà più importante, sembra dire Martone, del rispetto letterale a indicazioni scritte un paio di secoli fa. Questa fedeltà – questa “pertinenza”, se vogliamo usare la sua definizione – investe il tema profondo della storia che viene raccontata. Nel caso del nostro Barbiere il teatro si offrirà dunque per ciò che un teatro fisicamente è: le poltrone rosse della platea, i balconcini dei palchi, la struttura nera e vuota del palcoscenico. Quanto ai costumi si rifaranno non all’epoca della vicenda bensì agli anni d’inizio Ottocento nei quali Sterbini scrisse, Rossini compose – in pochi giorni, secondo la leggenda, rubando un po’ anche a se stesso. Molta della magia d’una recita, la famosa “sospensione dell’incredulità” indispensabile alla sua riuscita, graverà sulle spalle dei cantanti, della musica, del modo in cui le note verranno eseguite. Il fascino della scena sarà un intero teatro trasformato in metafora. Rischioso, non c’è che dire. Se sia valsa la pena di tentare lo sapremo sabato 5 dicembre alle 16,15 su Raitre.