la Repubblica, 1 dicembre 2020
Il signore delle foreste lombarde
Si cammina sulle foglie secche, tra improvvise macchie di rosso, scoiattoli che saltano, su ci sono le cime di altissimi bagolari e roveri, è un mondo ben strano, essendo a un quarto d’ora dalla piazza del Duomo. Parco Nord, 640 ettari: una volta qui c’era la Breda, si producevano cacciabombardieri per la guerra di Mussolini. Parco delle Cave: qui c’erano cave di ghiaia abbandonate, e un paesaggio ben desolato. Ma spingendosi più in là, ci sono le foreste lombarde che solo vent’anni fa non esistevano, e se esistono bisogna dire almeno un grazie anche a Paolo Lassini, il progetto è nato un giorno del 1999, la Ue chiedeva di piantare alberi, «buttai giù una paginetta: 10 Grandi Foreste di pianura e di fondovalle. I primi soldi erano 800mila euro della Cariplo, poi abbiamo cercato gli altri».
Lassini ha 74 anni, è stato nel Corpo forestale dello Stato, poi dirigente dell’Ersaf, l’ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste, direttore generale dell’agricoltura in Regione e quindi in Provincia. Oggi insegna in Statale, Tecniche di riqualificazione del sistema rurale alla facoltà di Agraria, ed è il suo pane. Un tecnico. Sa quanti alberi vanno piantati per creare un ettaro di bosco, «ad esempio alla Carpaneta ne hanno messi giù 2mila per ettaro, quindi fanno 120mila alberi su 60 ettari. Olmi, e soprattutto querce farnie, che in epoca protostorica ricoprivano la pianura padana». Si impara che le farnie amano l’umido, i roveri invece chiedono un ambiente più asciutto. Che progettare una foresta vuol dire avere uno sguardo proiettato ai cent’anni futuri, che la politica a volte aiuta, a volte sarebbe meglio non ci fosse.
E che un tempo non esisteva la parola ecologia, ma c’erano uomini che sapevano cosa fare. «Uno era il primo assessore all’Ambiente del Comune di Milano, si chiamava Ercole Ferrario ed era pneumologo. Sapeva che chi aveva problemi respiratori doveva stare all’aria buona, infatti i sanatori erano in montagna, tra le conifere». Ferrario, che fu assessore dal ’75 all’81, decise che l’area dismessa di Baggio doveva diventare un parco. E Lassini ne ricorda un altro, che si impose per creare un vero bosco là dove era successo il peggio: Seveso, il disastro della diossina, 10 luglio 1976. «Si chiamava Luigi Noè, era un ingegnere, oltre che commissario della bonifica. La spinta di tutti era che su quell’area bisognava costruire. Lui decise di farci una foresta». Lassini c’era, «con una decina di esperti e una trentina di operai. Siamo partiti dai sassi», oggi è il Bosco delle Querce.
E come si fa, a costruire una foresta? «Si ripete quello che succede in natura. Una pianta muore e marcisce, lascia spazio a luce e calore, dai semi nascono migliaia di piantine che poi si autoselezionano». E quando «le chiome si chiudono, nel sottobosco cambiano le specie vegetali e animali, è un’evoluzione che dura decenni». Sembra facile, guardando ora alle Grandi foreste lombarde, che in realtà sono otto, dalla Carpaneta in provincia di Mantova, al parco del Lusignolo in provincia di Brescia, dove una passerella permette di sfiorare le cime degli alberi come a Kew Gardens. E la Grande foresta di Lodi, e quella del fondovalle valtellinese, e la Vettabbia nel Comune di Milano.
Tornando al come, Lassini spiega che «servono circa 2mila piantine per ettaro, miscelate tra “pioniere” e specie più esigenti, che vanno messe all’interno, e soprattutto vanno seminate in linee parallele curve, come mi insegnò un vecchio forestale, Angelo Ortisi. Sennò, si ottiene l’effetto pioppeto. File regolari, un paesaggio artificiale», come c’era tra Po e Ticino, in provincia di Pavia, ora foresta umida «tra i due fiumi». Dopodiché, «le piante entrano in competizione, inizia la selezione, tra un secolo ne resteranno un centinaio. Ma intanto, sotto, nasce la vita».