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 2020  novembre 30 Lunedì calendario

Biografia di Gillo Pontecorvo

Alla fine degli anni 90 ebbi il privilegio di curare con Richard Pena una retrospettiva dedicata a Gillo Pontecorvo dalla Film Society del Lincoln Center. Per l’apertura optammo per La battaglia di Algeri, invitando Gillo all’evento: si trattava di un capolavoro, e di un film leggendario per i cineasti americani. Non ci aspettavamo tuttavia neanche lontanamente quanto accadde in sala: una lunghissima fila si formò sin dal pomeriggio, dove molte star del cinema erano mescolate a un pubblico di appassionati. La proiezione avvenne in un silenzio religioso, e appena comparve la scritta «Fine» sul volto della donna algerina che continua a protestare e a danzare di fronte ai militari francesi, partì un interminabile applauso che si trasformò in una standing ovation: Gillo cercò di trattenere l’emozione, e sorrise al pubblico con quegli implacabili occhi blu, che, per dirla con Gozzano, sembravano di brace azzurra. Quando finalmente uscimmo dal Lincoln Center, ci chiese il permesso di invitare un paio di amici alla cena in suo onore: erano Dustin Hoffman e Jonathan Demme, i quali, per tutta la serata, vollero parlare solo del film. «Opere d’arte come questa non se ne fanno più», diceva Hoffman, e Demme aggiungeva «e sono rarissime in tutta la storia del cinema»: il giorno successivo decise di distribuirne in prima persona il film d’esordio, La grande strada azzurra, inedito in America.
Era lusingato, Gillo, persino intimidito, anche se era abituato a episodi del genere: pochi anni prima, quando dirigeva il Festival di Venezia, aveva deciso che il premio alla carriera andasse a Steven Spielberg. Era stato tra i primi a scoprirne il formidabile talento vedendo Duel a una proiezione per la stampa, dove i critici lo avevano già rubricato come un abile mestierante. Lui li rimproverò: «State sottovalutando questo ragazzo, ha qualcosa di fuori del comune». Venti anni dopo quella proiezione lo omaggiò a Venezia, e non si aspettava un colpo di scena. Nel momento in cui ritirò il premio, Spielberg cominciò a raccontare: «Qualche anno fa in un ristorante di Hollywood un cineasta americano incontrò un regista italiano e gli disse: “Sei così bravo, mi piacerebbe fare dei film belli come i tuoi”. Qualche tempo dopo, il regista italiano si trovò senza lavoro e fu costretto a mettere all’asta i cimeli che possedeva, compreso il Leone d’oro vinto a Venezia per La battaglia di Algeri. Quel regista adesso è qui, e questo è il Leone d’oro che io comprai. Ora, Gillo, te lo restituisco: non si può acquistare il lavoro di un autore». In quella occasione Gillo non riuscì a trattenere la commozione: «Tienilo tu Steven, è in buone mani».Una delle grandi fortune della mia vita è stato lavorargli a fianco quando era presidente di Cinecittà: mi aveva chiesto di programmare una serie di eventi per promuovere il cinema italiano negli Stati Uniti, e rimasi subito colpito dalla sua generosità, la curiosità e la straordinaria apertura intellettuale. Era orgogliosamente comunista, ed era intrigato dal fatto che io non lo fossi mai stato. Nelle lunghe chiacchierate di quei giorni mi spiegò di aver vissuto per tutta la vita sotto una dittatura, per poi concludere che era la «dittatura della verità». Non aveva alcuna paura di andare controcorrente: negli anni di Venezia si distinse per l’apertura anche nei confronti del cinema hollywoodiano, e non ebbe alcun timore a consegnare il Leone d’oro alla carriera Roman Polanski, a cui era legato da una profondissima amicizia. Dimostrò analogo coraggio quando invitò Goran Paskaljevic, sebbene la Jugoslavia fosse all’epoca sotto embargo dell’Onu per via della guerra in corso in quei territori.Ogni volta che andavo a trovarlo nella sua bella casa dei Parioli, dove amava offrire pasta e fagioli, rimanevo incantato da una parete decorata da decine di ex voto. Lui spiegava: «Se ne metti uno rischi il cattivo gusto, ma se decori un’intera parete assumono una forza, forse perfino una bellezza imprescindibile». Una volta gli chiesi di poter vedere le foto della sua gioventù, a cominciare da quelle che lo immortalavano come pescatore subacqueo e tennista: aveva giocato da professionista, arrivando in finale a Montecarlo. Ce n’era una lunga serie con personaggi diversissimi e leggendari, come Stravinskij, Sartre e Picasso. Abbondavano ovviamente quelle con i divi del cinema, da De Niro a Marlon Brando, che aveva diretto in Queimada, ma era molto orgoglioso di un’immagine che lo ritraeva nel giorno della liberazione di Milano e di un’altra con Enrico Berlinguer. Di famiglia benestante ebraica, era stato costretto a fuggire nel 1938 a Parigi a seguito delle leggi razziali, ma sei anni dopo era ritornato in Italia, dove si era iscritto al Partito comunista e aveva combattuto la guerra partigiana con il nome Barnaba.In un’occasione discutemmo del fatto che dopo l’11 settembre il Pentagono avesse deciso di mostrare La battaglia di Algeri alle squadre speciali antiterrorismo: Gillo era divertito, anche se riteneva Bush un presidente disastroso e ribadiva che gli algerini del film erano innanzitutto dei combattenti per la libertà. In quell’occasione il film venne distribuito nuovamente nelle sale americane e mi chiese di moderare un dibattito con Edward Said, che stimava molto, ma alla fine della discussione disse che andavano troppo d’accordo, e questo non era mai un buon viatico per «obbedire alla dittatura della verità». Più tardi, a cena, mi raccontò che da giovane avrebbe voluto fare il direttore d’orchestra, ma poi aggiunse «fortunatamente mi sono reso conto di non avere sufficiente talento». La passione per la musica lo portò a comporre con Ennio Morricone la colonna sonora del suo capolavoro, e gli fece conoscere la moglie Picci, musicologa: ricordava con divertimento che proprio Morricone aveva suonato la tromba al loro matrimonio.Negli ultimi tempi reagiva con ironia alle critiche ingenerose ricevute per alcuni film, a cominciare da Ogro. Non era riuscito tuttavia ad accettare che Jacques Rivette trovasse «immorale» l’uso del carrello per la morte di Emanuele Riva in Kapò, ma il sorriso di brace azzurra diventava luminoso quando ricordava quello che aveva scritto Pauline Kael sul New Yorker quando uscì La battaglia di Algeri: «Gillo Pontecorvo è un comunista del tipo più pericoloso: un comunista poeta».