Affari&Finanza, 30 novembre 2020
Guerra del cacao tra multinazionali e produttori africani
Le multinazionali del cioccolato e le cancellerie africane di Costa d’Avorio e Ghana, produttori del 70% del cacao mondiale, sono di nuovo ai ferri corti. Non a caso lo scontro arriva a poche settimane dalle festività natalizie, il periodo dell’anno più importante per l’industria dolciaria. Il surplus di fave, dovuto alla contrazione della domanda globale causa Covid-19, sta spingendo alcuni dei colossi del cioccolato americano a chiedere di sospendere il pagamento della tassa di 400 dollari per tonnellata (Living Income Differential) imposta da Costa d’Avorio e Ghana sul raccolto 2020/2021. Una misura adottata lo scorso anno dai due Stati dell’Africa occidentale per migliorare le condizioni di vita degli oltre 2 milioni di agricoltori africani, che guadagnano, in media 2,5 dollari al giorno. Su una barra di cioccolato da 100 grammi, il cui costo medio è 3,5 dollari, al coltivatore africano, ancora oggi, vanno 0,15 centesimi.
Il colosso dolciario americano Hershey, che ha Kit-Kat tra i suoi marchi, si è già smarcato dai trader africani per non pagare la tassa a sostegno dei coltivatori locali, facendo schizzare il prezzo dei futures sul cacao a 2,915 dollari per tonnellata all’Ice (International Exchange) di New York, un incremento settimanale del 15% che non si vedeva dal 2001. Una mossa inusuale sul mercato delle commodity, più consona ad hedge funds e speculatori piuttosto che a compratori fisici, ma che permette di stipulare contratti a breve termine ed ottenere ingenti sconti sull’acquisto di cacao. Secondo i trader di New York, le multinazionali dolciarie, a discapito di una minore qualità e controllo sulla provenienza, riescono a risparmiare fino a 200 dollari a tonnellata rispetto all’acquisto sul mercato fisico, dove la quotazione si attesta tra i 2,700 ed I 2,900 dollari a tonnellata.
Il cartello Costa d’Avorio-Ghana
Immediata la reazione del cartello Costa d’Avorio-Ghana, poco inclini a nuove contrattazioni e pronti a sospendere i certificati di garanzia sulla provenienza del cacao. In questo modo, le aziende manifatturiere, non possono più tracciare il prodotto e provare al consumatore che il cacao proviene da piantagioni in cui non sono stati impiegati minori. Una strategia già usata in passato dai due Governi africani e che ha avuto fortune alterne. Secondo l’International Cocoa Initiative, non-profit svizzera che monitora il lavoro minorile, sarebbero ancora 2,2 milioni i bambini in Africa coinvolti nella raccolta delle fave.
Nonostante la formazione nel 2018 di una sorta di Opec del cacao, i due grandi produttori africani, si trovano in svantaggio nel braccio di ferro con le multinazionali dolciarie. Al contrario del greggio, infatti, i due Stati africani non hanno il potere di ridurre la produzione schiacciando un semplice bottone come l’Arabia Saudita con il petrolio. La pandemia di Covid-19 ha rallentato la domanda ed il prezzo fissato a 2,6 dollari al chilo per il raccolto 2019/2020 potrebbe essere rivisto. Nel terzo trimestre 2020, la macinazione delle fave si è ridotta del 15% con un conseguente surplus di offerta, anche grazie alle favorevoli condizioni climatiche e le navi sono ferme al porto di San Pédro in Costa d’Avorio, l’hub da cui viene distribuito cacao in tutto il mondo. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, tra il 1° ottobre ed il 10 novembre gli arrivi di cacao nei porti del Paese sono stimati intorno alle 446mila tonnellate, un aumento del 5,7% rispetto allo scorso raccolto. L’assenza di magazzini di stoccaggio e della trasformazione del cacao in loco sono ulteriori elementi a svantaggio dei due Paesi africani, i cui ricavi ammontano solo al 3% dell’industria mondiale del cioccolato.
Una delle promesse elettorali dell’appena rieletto
Presidente ivoriano, Alassane Ouattara, è la creazione di impianti ad Abidjan e San Pédro per macinare le fave di cacao e raddoppiare la capacità attuale. Al contrario dell’Indonesia che, in dieci anni, ha trasformato la sua industria riuscendo a creare l’intera filiera, la Costa d’Avorio, maggiore esportatore di cacao al mondo, ricava solo 3,3 miliardi di dollari dall’export del cacao. Numeri di gran lunga inferiori ai fatturati delle multinazionali dolciarie americane che complessivamente arrivano a 22 miliardi di dollari. Il grande sogno è eliminare entro il 2025 l’intermediazione e creare una catena di vendita del cacao diretta tra coltivatori ed aziende. Anche in Ghana, secondo produttore al mondo di cacao, la raccolta 2020-2021 promette bene e si prevede possa raggiungere le 800mila tonnellate (stime Cocobod). Il commercio di cacao è cruciale per le casse dell’Africa occidentale, per raccogliere valuta straniera e per garantire sussistenza a milioni di lavoratori del settore. Secondo l’ultimo rapporto della Mondelez International, tra le maggior imprese dolciarie che racchiude marchi come Oreo e Toblerone, servirebbero 10 miliardi di dollari in più da distribuire ai coltivatori di Ghana e Costa d’Avorio per superare la soglia di povertà. Gli scontri post-elettorali a seguito della rielezione per il terzo mandato consecutivo del Presidente ivoriano Alassane Ouattara e le imminenti consultazioni presidenziali in Ghana destabilizzano ulteriormente lo scenario. Preoccupazione per il complesso scenario è emersa anche a margine del meeting virtuale della World Cocoa Foundation.
Il mercato dei futures
La decisione della multinazionale americana Hershey di rifornirsi sul mercato dei futures rischia di essere seguita da altre aziende del settore creando un pericoloso effetto a catena che si potrebbe estendere anche al mercato europeo dove giacciono in stock migliaia di tonnellate di fave di cacao provenienti dal Camerun. «Fino ad oggi, solo il 10% degli agricoltori ha ricevuto i sussidi garantiti dal Living Income Differential – spiega Joseph Boahen Aidoo, amministratore delegato del Ghana Cocoa Board – temo che con la crisi in corso le multinazionali del cioccolato si uniranno per eliminare questa tassa sulle importazioni di cacao». L’americana Hershey, dopo aver bypassato l’acquisto di cacao sul mercato fisico ha commentato attraverso un comunicato l’intenzione di voler «continuare a pagare il Living Income Differential e di formare i coltivatori per aumentare i raccolti in spazi ridotti».
Con l’aumento del consumo di cioccolato, trainato soprattutto dall’Europa dove la media pro-capite è di 8 chilogrammi all’anno, ad un coltivatore esperto viene richiesto di aprire anche 500 fave al giorno, ossia circa mezzo chilo di cacao. Un giro d’affari in continua crescita che ha raggiunto gli 85 miliardi di dollari e che, secondo un’analisi del centro studi Mintel, supererà i 102 miliardi di dollari nel 2022.